La vittoria di Trump può fare da motore ad alcune riflessioni sulla condizione politica degli USA. Perché Trump ha vinto? Sappiamo che una larga parte dei ceti popolari non ha votato a queste elezioni, così come generalmente non vota alle altre elezioni americane, nelle quali non si sente rappresentato da nessuna organizzazione politica. Il proletariato nero, per es., non ha votato né per Trump ma nemmeno per la Clinton perché, ovviamente, in nessuno dei due candidati poteva riconoscersi.
D'altra parte una certa misura della stessa classe operaia bianca e del ceto medio impoverito hanno preferito votare per Trump.
Ora, sia l'astensionismo che ha penalizzato la Clinton, sia il voto che ha fatto vincere Trump dipendono da una medesima ragione: negli USA manca un partito che si faccia interprete dei bisogni e dei diritti dei lavoratori, un partito formato da proletari e da tutti le soggettività sociali che sono loro naturali alleati.
E perché mai come ora sarebbe stata necessaria la presenza di un partito di classe negli USA? Perché i programmi neoliberisti hanno fatto scendere i salari medi dei lavoratori americani ai livelli degli anni '60, mentre l'industria si è pesantemente spostata all'estero, dove il costo della forza lavoro risulta decisamente più basso e consente quindi profitti marcatamente più alti. In mancanza di un partito di classe cosa rimaneva ai ceti popolari se non astenersi oppure andare a votare per un pifferaio magico che come capro espiatorio indicava gli immigrati e le minoranze?
E cosa dovrebbero fare ora i compagni americani? Loro dovrebbero saperlo molto meglio di noi e quindi mi limiterei più modestamente a metterli in guardia da errori di cui siamo diventati particolarmente esperti da quest'altra parte dell'Oceano.
Cari compagni americani, vi prego, non fate partitini ideologicamente puri che si ergano a cervello dei lavoratori, non costituite nemmeno piccole federazioni di queste sette, perché da due o tre o quattro esemplari sterili come dimostrano di essere le sette non nascerà niente. Già Marx in una lettera a Johann Babtist von Swhweitzer del 1868 spiegava che il movimento reale della classe è altro dalla setta.
Engels, a sua volta, in una lettera a Kautsky del 1892. criticava la Social-Democratic Federation (SDF), fondata tra gli altri anche da Eleanor Marx, bollandola come una setta in quanto rigettava qualsiasi percorso operaio che non sposasse la propria sedicente ortodossia marxista.
Ma allora, come costruire l'organizzazione di classe? Non c'è che una risposta: a partire dai livelli di coscienza politica esistenti. Se i compagni stanno lì dove la classe si muove possono allora promuoverne la direzione più giusta e avanzata, sia in termini di obiettivi di lotta, sia per quanto riguarda le organizzazioni con cui attuare la lotta stessa. Si tratta perciò di immergersi in processi sociali complessi, i cui esiti sono solo vagamente prefigurabili e non possono certo essere aggiustati secondo il letto di Procuste di uno dei vari dogmatismi che ancora residuano. La stessa differenza fra movimento sindacale e movimento politico non può essere ridotta a una mera questione nominalistica. Lo stesso Marx ci fa notare che se una singola fabbrica ricorre al diritto di sciopero per ridurre l'orario di lavoro si tratta di un movimento puramente sindacale, ma se invece il movimento si sviluppa per imporre a rigor di legge in tutte le fabbriche quello stesso obiettivo, ci troviamo di fronte a un movimento politico di classe che mira a imporre i suoi interessi in forma generalizzata. I livelli organizzativi già presenti avranno in tal caso avviato il movimento, ma questo, a sua volta, sviluppandosi, sarà portato a crearsi nuove realtà organizzative, più aggiornate al grado di maturazione raggiunto. L'organizzazione va vista dunque come una delle entità che evolvono insieme al movimento politico di classe, non come qualcosa di esterno a essi, che lo guida come Mosè che torna dalla montagna con le sue tavole. Per dirla tutta, cambiamento, più è reale più porta a modificare gli stessi processi che lo hanno prodotto. Invito quindi i compagni americani a osservare con uno sguardo dialettico i processi in atto nel cambiamento, che riguardano di necessità anche le dimensioni organizzative e partitiche. Esse non vanno perciò considerate come entità metafisiche che velleitariamente aspirano a governare le trasformazioni senza diventarne a loro volta oggetto.