Il colpo di stato attentamente preparato dall’amministrazione Trump ai danni del Venezuela bolivariano guidato dall’ex operaio del metro Nicolás Maduro sembra essersi arenato. Nella settimana che è seguita alla autoproclamazione di Juan Guaidó presidente ad interim, l’Organizzazione degli Stati Americani prima ed il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite poi hanno confermato che il cambio di regime a Caracas è inviso alla maggioranza dei paesi del continente e del mondo;alcuni perché vedono minacciati i propri interessi economici, altri perché temono di subire lo stesso trattamento, qualcuno perché coerentemente anti-imperialista. E addirittura l’ultra-reazionario Gruppo di Lima, che riunisce un pugno di paesi latinoamericani filo-statunitensi, si è detto contrario ad un intervento militare contro la repubblica bolivariana.
Fallita l’offensiva diplomatica, continua quella mediatica ed economica. Negli Usa le autorità hanno passato il controllo dei conti bancari riconducibili ad enti pubblici venezuelani al golpista Guaidó per “aiutare il governo legittimo a preservare i beni a beneficio del popolo venezuelano” ha dichiarato il segretario al tesoro Steven Mnuchin. Qualcosa come sette miliardi di dollari per lo più della PDVSA, la compagnia petrolifera statale, e della sua controllata in suolo nordamericano la Citgo, che si aggiungono agli 1,3 miliardi fermi a Londra, sotto forma di lingotti d’oro, che Guaidó ha chiesto alla Banca d’Inghilterra di non riconsegnare a Maduro.
In questa settimana, però, malgrado la grancassa mediatica occidentale che vorrebbe farci passare i golpisti come gli unici legittimi democratici, stanno emergendo i veri motivi di questo colpo di stato. Sotto il velo del ripristino della democrazia, infatti, si celano gli interessi del capitale euro-atlantico che devono essere ripristinati ai danni dei concorrenti russo-cinesi e di un esperimento di transizione al socialismo molto diverso da quelli novecenteschi ma comunque potenzialmente troppo pericoloso.
La Repubblica bolivariana del Venezuela, infatti, dal 1998 ha intrapreso un lento processo di emancipazione dalla secolare subordinazione nei confronti degli Stati Uniti d’America ed un ancora più lento processo di transizione a forme di produzione e di scambio socialiste, con modalità diverse rispetto a quelle utilizzate nel corso del XX secolo. I governi bolivariani di Chávez e Maduro, infatti, oltre a favorire lo sviluppo di organi di autogoverno proletario (le comunas e i consigli di fabbrica) non solo non hanno soppresso le tradizionali garanzie politiche borghesi, ma le hanno addirittura estese a tutta quella fetta di popolazione lavoratrice (per lo più meticcia e afroamericana) che il padronato escludeva dalla vita pubblica.
Le riforme, in Venezuela, vengono realizzate da un presidente eletto a suffragio universale diretto (modello presidenzialista) dentro una cornice costituzionale che non è il frutto di assetti di potere derivanti da una guerra mondiale e da una lotta di liberazione nazionale (come in Italia) ma di una proposta politica lanciata in tempi di pace e approvata per via referendaria dalla maggioranza dei cittadini nel 1999. Gli stessi cittadini che nel 2007 hanno respinto una seconda riforma costituzionale, giudicando prematuro l’ulteriore passaggio di consegne dal vecchio sistema di governo borghese basato sulla separazione dei poteri (che in Venezuela sono cinque) e lo sfruttamento del lavoro salariato al nuovo maggiormente basato sulle comunas, la proprietà pubblica e forti limiti alla proprietà privata.
La sopravvivenza di tradizioni e procedure borghesi, oltre a rispondere allo stato reale dei rapporti di forza tra le classi venezuelane che vede la borghesia ancora al potere sebbene non (pienamente) al governo, convive dunque con nuove istituzioni e politiche economiche alquanto eterodosse per i tempi che corrono, in quanto dirottano una quota di plusvalore dai profitti e dalla rendita al salario sociale di classe (buste paga più pesanti, nuovi e migliori servizi pubblici gratuiti, pensioni dignitose). Un processo redistributivo che si è basato quasi esclusivamente sulla bonanza derivante dagli alti prezzi del petrolio e delle altre materie prime (diamanti, oro, coltan, gas, alluminio, ferro, legno, acqua potabile) di cui il Venezuela è ricchissimo e meno sullo sviluppo dell’industria nazionale e la dominanza del modo di produzione socialista.
Una politica che non ha impedito al Venezuela di ospitare sul suo territorio oltre tremila aziende statunitensi (tra cui la Chevron) e di vendere ad aziende USA il 40% dei barili (il 75% in valore) di petrolio che esporta; né ha impedito alla Citgo di estrarre il 4% di tutto il petrolio prodotto in terra yankee. Una politica che però rappresenta un grande limite, come è emerso col crollo dei prezzi internazionali del petrolio, a cui il governo sta cercando di porre rimedio continuando a barcamenarsi tra lo sviluppo dell’industria nazionale, le riforme socialiste e l’apertura ai capitali stranieri, specialmente cinesi e russi.
Ma le risorse naturali venezuelane non interessano solo al fine di ripristinare, tramite le immancabili privatizzazioni e liberalizzazioni già ventilate da Guaidó, la completa valorizzazione del capitale, la cui montante crisi mondiale richiede la cessazione immediata delle politiche redistributive ovunque vengano intraprese; ma interessano anche per motivi più propriamente monetari.Dal 15 settembre 2017, infatti, i prezzi del petrolio bolivariano non sono più pubblicati in dollari statunitensi ma in yuan cinesi.E più recentemente, come ha dichiarato lo stesso Maduro, “la Russia compravende il petrolio ed i suoi derivati in yuan (...), noi progressivamente venderemo tutta la nostra produzione petrolifera in petros”, la criptomoneta annunciata sempre a settembre 2017 e divenuta operativa a ottobre 2018. Una moneta che,a differenza del bitcoin, è garantita dal petrolio e dalle riserve d’oro statali - incluse le 31 tonnellate ancora ferme a Londra - che permette non solo di bypassare le sanzioni economiche statunitensi ma potrebbe anche cancellare definitivamente lo strapotere internazionale del dollaro, e quindi degli Usa. Eventualità tutt’altro che remota se il petro dovesse effettivamente essere utilizzato come divisa di interscambio del petrolio in seno all’OPEC,come auspicato da Manuel Salvador Quevedo Fernández, ministro del petrolio e presidente della PDVSA, che dal primo gennaio ha anche assunto la presidenza annuale dell’OPEC in rappresentanza del governo venezuelano.
L’attacco al governo bolivariano, dunque, rappresenta la difesa degli interessi economici degli Stati Uniti d’America (e dell’Unione europea) sempre più in crisi a causa dell’ennesima recessione alle porte; ed un attacco ad un modello di sviluppo che, ove fosse capace di superare la crisi internazionale aggravata dalla zavorra delle sanzioni e del boicottaggio mantenendo le aspettative di emancipazione che suscita tra i subalterni, rischia di minare troppo in profondità gli interessi dominanti. Ma rappresenta anche un attacco a quei concorrenti internazionali che quel modello di sviluppo stanno sostenendo, Russia e Cina su tutti. Quest’ultima, infatti, è oramai il primo creditore del Venezuela ed il venir meno del governo Maduro rischia di compromettere i propri piani di espansione non solo nel paese ma in tutta l’America Latina. La Russia, dal canto suo, oltre ad avere importanti interessi nel settore petrolifero e del gas, rappresenta il più importante fornitore di armi al Venezuela. Tanto importante che, dopo i Tupolev, avrebbe mandato, secondo la Reuters, un numero imprecisato di mercenari a garanzia della sicurezza personale di Maduro. Una notizia chenell’intervista pubblicata da Sputnik il presidente non commenta ma non smentisce.