Il ritiro degli Stati Uniti e della Nato e la conseguente fine dell’occupazione imperialista dell’Afghanistan, i trent’anni dalla dissoluzione della Federazione di Jugoslavia – fortemente voluta e imposta dall’imperialismo occidentale – la morte di Rumsfeld (eminenza grigia dietro la catastrofe che ha travolto negli ultimi quarant’anni l’Iraq) e, infine, il rilancio della campagna per la liberazione di Assange e, più in generale, della lotta per la libertà di stampa contro agli atti disumani dell’imperialismo, ci hanno fornito l’occasione per tracciare le linee fondamentali del nuovo scenario di guerra, apertosi con la fine della guerra fredda, e provare a trarre un primo bilancio complessivo.
Gorbaciov, in nome della pace e del disarmo, dopo aver smantellato quanto di socialista era stato costruito in Europa, arriva ad approvare l’aggressione imperialista all’Iraq, quale prima guerra calda post guerra fredda. A dimostrazione che, dopo aver fatto trionfare le controrivoluzione in Europa – in nome di un socialismo democratico – Gorbaciov, in nome della fine del riarmo, lascia campo libero alle aggressioni imperialiste, guidate dagli Stati Uniti, divenuti, dopo il disarmo unilaterale dell’Unione Sovietica, l’unica grande potenza mondiale. Così, in nome della fine della guerra fredda, Gorbaciov spazza via quell’equilibrio del terrore che aveva posto un freno per decenni alle aggressioni dirette dei paesi imperialisti alle nazioni del terzo mondo. In altri termini, in nome della glasnost e della perestroika si poneva fine a quel mondo bipolare che aveva posto dei precisi limiti alle politiche aggressive degli imperialismi.
Dinanzi a tali assurde e ingenue utopie di Gorbaciov, gli Stati Uniti governati dai repubblicani dimostravano immediatamente cosa avrebbe comportato la fine della cortina di ferro, ovvero il porsi degli Stati Uniti, quale unica residua potenza mondiale, come gendarmi internazionali, pronti a intervenire con “operazioni di polizia internazionale” per realizzare, infine, lo scopo ultimo del modo di produzione capitalistico, mediante l’imposizione del mercato mondiale.
Occorreva, dunque, spazzare via tutti quei paesi che, in un modo o nell’altro, si opponevano alla realizzazione di tale obiettivo. Da questo punto di vista, il bersaglio più facile non poteva che essere l’Iraq di Saddam Hussein, ossia la forma più moderata e antidemocratica di socialismo nazionale. Tanto più che Saddam Hussein aveva perso del tutto la propria credibilità come leader antimperialista del terzo mondo, dopo essersi posto al servizio dei regimi dispotici del Golfo Persico e degli stessi Stati Uniti d’America, per arrestare la forza propulsiva della rivoluzione iraniana, che metteva in discussione il dominio sunnita in Iraq di contro alla maggioranza sciita. Tale guerra, durata tutti gli anni Ottanta, fu favorita in ogni modo dalle potenze imperialiste e dai loro alleati petromonarchi e sionisti, in quanto spaccava il fronte dei paesi produttori di petrolio, facendo nuovamente precipitare il prezzo di questa decisiva materia prima, e portava ad autodistruggersi due dei principali esponenti del terzo mondo e della lotta antisionista, rafforzando all’interno di entrambi i paesi le forze più conservatrici a discapito dei progressisti.
Così mentre gli Stati Uniti finanziavano entrambi i paesi in conflitto – anche per scaricare su di essi gli effetti negativi della crisi di sovrapproduzione – le petromonarchie finanziavano l’Iraq e i sionisti l’Iran. Il quadro improvvisamente mutò quando finalmente l’Iraq si rese conto che la speranza di poter continuare ad avere prestiti internazionali con l’auspicio di addossarne i costi all’Iran era destinato a fallire. D’altra parte il Kuwait, fra i maggiori finanziatori della guerra, pretese a questo punto dallo stremato Iraq l’improponibile restituzione di tutti i crediti di guerra. Si trattava, di fatto, di una vera e propria provocazione, che andava di pari passo con il sostanziale furto del petrolio nel grande giacimento al confine fra i due paesi.
A questo punto il dittatore iracheno, consapevole della necessità della guerra per mantenersi in sella, puntò sull’attacco al Kuwait, che la maggioranza degli iracheni consideravano una parte del loro paese, sottrattogli dagli ex colonialisti inglesi per togliere il decisivo sbocco al mare all’Iraq e mantenere il controllo su un ampio settore dove si trovavano le maggiori riserve di fonti energetiche.
Peraltro il governo dispotico del Kuwait non godeva né del sostegno attivo della sua scarsa popolazione e tantomeno del sostegno passivo della grande maggioranza di lavoratori immigrati, ridotti – a cominciare dai profughi palestinesi – in condizioni semischiavistiche. D’altra parte gli Stati Uniti, con la consueta assoluta mancanza di scrupoli nelle relazioni internazionali, dopo aver dato a intendere che non si sarebbero opposti all’invasione del Kuwait, sfruttarono la situazione per autonominarsi gendarmi internazionali.
Così, tradendo l’alleato e sfruttando la dabbenaggine di Gorbaciov, costruirono un’ampia coalizione che costrinse l’Iraq a un rapido ritiro dal Kuwait, imponendo poi un pesantissimo embargo al paese. Nel frattempo in Europa orientale lo sconquasso provocato dal rovesciamento di campo dell’Urss, che con Gorbaciov non solo non sosteneva, ma osteggiava pesantemente le forze filosocialiste, le regioni più ricche della Federazione di Jugoslavia proclamarono la loro indipendenza su basi etniche, puntando sul supporto dell’imperialismo tedesco e del Vaticano, che prontamente e improvvidamente riconobbero tali sciagurate secessioni. La situazione trascese immediatamente quando in Croazia, dove si erano rapidamente affermati al potere gli eredi dei croati collaborazionisti con la Germania nazista, iniziò la pulizia etnica dei Serbi abitanti nella regione di confine. Iniziò una terribile guerra civile, con imperialismo tedesco e Vaticano a fianco dei croati e imperialismo francese a sostenere i serbi, con gli Stati Uniti inizialmente neutrali. D’altra parte, questi ultimi, decisi a partecipare alla spartizione della Jugoslavia, presero le parti dei nazionalisti musulmani bosniaci, sostenendoli nelle loro mire indipendentiste. Per far fronte ai serbo-bosniaci e ai croati gli Stati Uniti favorirono, grazie ad Arabia Saudita e Iran, il trasferimento in Bosnia dei fondamentalisti islamici fatti precedentemente affluire da tutto il mondo in Afghanistan per colpire il governo filosovietico del paese e, in seguito, la stessa Armata rossa.
Ciò spinse quanto restava dell’esercito jugoslavo a intervenire, offrendo così la possibilità agli imperialisti occidentali di ricompattarsi e spartirsi in aree d’interesse il paese. Dopo aver costretto la residua Federazione di Jugoslavia alla resa e piegata la Serbia, unico paese della regione non ancora allineato a favore del mercato mondiale, gli imperialisti occidentali sostennero il terrorismo secessionista dell’Uck, che scatenò la pulizia etnica nei confronti dei serbi abitanti in Kossovo. Ciò offrì il destro all’imperialismo occidentale di scatenare l’aggressione imperialista contro la Jugoslavia. L’intervento della Nato consentì la secessione del Kossovo e, poco dopo, il governo socialista serbo fu rovesciato grazie alla prima grande (contro)-rivoluzione colorata.
Nel frattempo, grazie agli oscuri e controversi attentati dell’11 settembre, gli Stati Uniti, con la scusa della guerra al terrorismo, si preparavano a invadere una delle ultime roccaforti laiche del Medioriente, l’Iraq guidato dal partito Baath, socialista-nazionalista. D’altra parte, per legittimare l’aggressione di uno dei principali avversari del terrorismo fondamentalista islamico, gli Usa dovettero, con un’enorme coalizione, aggredire l’Afghanistan, in cui sarebbe stato pianificato l’attacco alle Torri gemelle.
L’enorme sproporzione delle forze consentì la rapida occupazione del paese da parte della Nato. Tale occupazione non poteva che rafforzare il fondamentalismo islamico dei talebani, divenuti la principale forza della resistenza al dominio imperialista occidentale.
Nel frattempo gli Stati Uniti e i loro alleati non potendo in nessun modo dare a intendere che l’Iraq fosse in qualche modo implicato con il fondamentalismo islamico terrorista, costruirono false prove per denunciare il possesso da parte del paese di armi di distruzione di massa. Ciò fu possibile, sfruttando il fatto che il regime iracheno aveva utilizzato armi chimiche, fornite o almeno giustificate dagli Stati Uniti, durante la decennale guerra preventiva contro la Rivoluzione iraniana. In particolare il governo iracheno, con la copertura degli Usa, sterminò le forze autonomiste e indipendentiste kurde.
Anche in questo caso, piegato l’esercito iracheno per l’enorme differenza di forze in campo, gli imperialisti occuparono il paese, favorendo così il sorgere della resistenza, che sarà sfruttata dal terrorismo fondamentalista islamico per diffondersi nel paese. Con la complicità diretta o indiretta in primo luogo degli Stati Uniti e dei loro fedeli alleati sauditi e turchi, un’organizzazione ancora più terrorista di Al Quaeda, il sedicente Stato islamico, prese rapidamente il controllo dell’Iraq settentrionale. L’Isis avrebbe rapidamente occupato la stessa Bagdad se non fosse prontamente intervenuto l’Iran, alla guida delle milizie sciite, che infliggeranno una storica e bruciante sconfitta all’Isis e ai suoi potenti finanziatori internazionali.
Nel frattempo erano emerse, anche grazie all’opera di un coraggioso giornalista, Assange, le prove dei comportamenti barbari e inqualificabili tenuti da statunitensi e, più in generale, dalle forze della Nato, nei confronti di inermi prigionieri, spesso totalmente innocenti. Ciò nonostante paesi europei come la Svezia e la Gran Bretagna, invece di prendere una netta posizione contro tali tragici e del tutto inaccettabili eventi, hanno fatto di tutto per imprigionare il giornalista che aveva trovato il coraggio per denunciarli. Assange è stato prima proditoriamente accusato dalla Svezia e poi fatto arrestare dalla Gran Bretagna, con il costante rischio di essere estradato negli Stati Uniti, dove subirebbe delle pene gravissime.
Per quanto si possa dissentire da molte delle opinioni espresse da Assange, la lotta per la sua liberazione ha un’importanza decisiva, perché il suo processo è anche un processo volto a eliminare radicalmente la libertà di stampa anche nei paesi imperialisti e filoimperialisti occidentali.
Nel frattempo prima Trump e poi Biden sono scesi a patti con i fondamentalisti talebani, abbandonando alla sua tragica sorte il governo collaborazionista. In tal modo, dopo una guerra e trent’anni di occupazione militare, le forze del fondamentalismo islamico sono più che mai forti e popolari in Afghanistan. Tali forze si sono ampiamente diffuse – dopo le aggressioni dirette o indirette dell’imperialismo – anche in diversi paesi del terzo mondo, governati da forze laiche e di sinistra, che avevano fieramente combattuto il fondamentalismo, dall’Afghanistan, all’Iraq, dall’Algeria alla Somalia, a Bosnia, Kossovo, Albania e Macedonia, dalla Libia alla Siria, a Mali e Burkina Faso.