L’elezione alla testa del Labour Party di Jeremy Corbin, ex sindacalista, socialista mai pentito ed esponente dell’estrema sinistra laburista, può favorire il riavvicinamento dei movimenti di protesta a un partito di massa, capace di lottare per autentici diritti di autogoverno, con un programma proiettato sia verso la trasformazione della società britannica che verso la solidarietà internazionale.
di Lea Ypi
Molti si chiedono come abbia fatto Jeremy Corbyn, sessantaseienne, carriera da sindacalista, socialista mai pentito e rappresentate dell’estrema sinistra all’interno partito labourista ad assumere il ruolo di “guida dell’opposizione leale di sua Maestà” - questo è ora il suo titolo ufficiale. Un titolo che farà fatica a ingoiare vista la mai celata avversione per la monarchia, i quarant’anni di militanza nei movimenti sociali extra-istituzionali e una carriera quasi altrettanto lunga di ribellione all’interno del partito (è l’unico parlamentare ad aver sfidato il whip, il deputato del Labour in carico della disciplina del partito al parlamento, oltre cinquecento volte).
A spingerlo a questo punto non è certo stata l’ambizione personale, ne’ l’aver fatto politica in un clima favorevole alle sue idee. Eletto parlamentare nel 1983, anno in cui Margaret Thatcher consolidava la sua guida del paese e in cui essere chiamato socialista equivaleva a un insulto, Corbyn non ha mai rinnegato le sue convinzioni, non ha mai flirtato con le cariche burocratiche, né gli sono mai stati assegnati ruoli di spicco all’interno del partito. Quando gli venne chiesto da un giornalista del Guardian, poche settimane prima delle sua elezione, perché si candidava, rispose che in seguito a un dibattito all’interno della sinistra del partito si era deciso di dare voce a un’alternativa radicale e, visto che altri colleghi si erano presentati nei cicli precedenti, ora toccava a lui.
A spiegare il perché della sua ascesa non è stato neanche il sostegno ottenuto tra le schiere dei suoi colleghi parlamentari: quasi la metà dei trentacinque membri del Labour responsabili per la sua nomina, si sono poi riveduti, dichiarando di sostenere uno degli altri candidati nella corsa finale.
E non sono stati neanche fattori strutturali come la riforma delle regole di voto voluta dal suo predecessore Ed Miliband, una riforma che aveva ridotto il potere dei sindacati affiliati al partito e allargato quello dei singoli individui simpatizzanti non-membri, in una mossa che molti al tempo interpretarono come concessione al tentativo di smantellamento dei sindacati associati al New Labour. Sebbene durante la campagna di Corbyn, il Labour abbia assistito ad una delle espansioni più significative della sua storia, passando da 200.000 a 300.000 membri di base e con l’aggiunta di un ulteriore 105.000 di sostenitori, il risultato del voto finale non riflette solo il sostegno di quest’ultimo gruppo di “infiltrati” di sinistra (tra cui non pochi vennero esclusi dal voto in ultima istanza, incluso il regista Ken Loach). Corbyn è stato eletto al primo turno con un totale di 60% dei voti, distribuiti tra membri di lunga data (50%), sostenitori (84%) e affiliati (58%), una vittoria che, nonostante la continua ostilità della stampa britannica, pone al di fuori di ogni ragionevole discussione, i sospetti sull’effettivo potere di rappresentanza del nuovo leader.
Alla fine, la risposta al mistero del successo della sinistra del Labour, nonostante la sua apparente scomparsa durante gli anni di dominio dell’ideologia neoliberale risalente a Margaret Thatcher ed ereditata dal New Labour, l’ha data Corbyn stesso nel discorso di ringraziamento tenuto in occasione della sua elezione. Si tratta, ha sottolineato, di un enorme esercizio democratico da parte di oltre mezzo milione di persone, uniti nella passione e nella ricerca di una società migliore e meno disuguale oltre che stanchi di una politica di immagini e priva di contenuti. Si tratta della scelta fatta da una massa di cittadini sempre ingiustamente accusati di appartenere a una generazione anti-politica solo perché la politica istituzionale aveva finora fallito nell’offrire alternative radicali in grado di trasformare davvero la società. E già in quel discorso ha fatto riferimento ad alcuni dei punti fondamentali di rottura con la generazione precedente: una politica internazionale lontana dalle ambizioni bellicose e di solidarietà con i più bisognosi (il suo primo atto pubblico da capo del partito laburista è stato di partecipare alla marcia a favore dei rifugiati), critica implacabile ai tagli pubblici, incremento delle tasse per i più ricchi, taglio dei privilegi per le corporazioni, ri-nazionalizzazione del settore energetico e delle ferrovie, tagli alla difesa e incremento degli investimenti sul settore dell’educazione e della sanità.
Sebbene si tratti di un programma elettorale su cui qualsiasi keynesiano di buon senso dovrebbe concordare, l’aggressiva campagna negativa dei media, le scissioni all’interno del partito, una generale attitudine di sfiducia nei confronti di un leader percepito come settario e dalle amicizie politiche dubbie (dall’IRA negli anni Ottanta a Chavez nel nuovo millennio), il rafforzamento dei Tories in alcuni dei seggi tradizionali del Labour, l’emergere della destra xenofoba dello UKIP, la vittoria dei nazionalisti anti-austerità in Scozia, rendono il compito tutt’altro che facile.
Lo si è osservato già nelle controversie che hanno accompagnato la scelta del gabinetto dei ministri ombra, in particolare l’assegnazione del cruciale ministero ombra dell’economia e del tesoro a John McDonnell, l’amico socialista che cita come il suo passatempo preferito “fomentare la distruzione del capitalismo” e che ha dichiarato che sarebbe pronto a “nuotare nel vomito pur di fermare i tagli allo stato sociale”. Lo si è visto nella reazione di costernata incredulità che ha accompagnato la sua decisione di sottoporre a crowdsourcing sui social network le domande da fare nel suo primo dibattito parlamentare da leader dell’opposizione con il primo ministro David Cameron – rivoluzionando le tradizioni di Westminster e lasciando che Cameron se la vedesse con le domande dei cittadini Paul, Marie e Claire anziché con il compagno Corbyn. E lo si vede nell’implacabile tentativo di erodere la sua integrità da parte sia degli avversari politici che dei falsi amici all’interno del partito, ove citando l’assenza di lealtà alla monarchia come fonte di minaccia alla sicurezza nazionale, ove gridando all’incompetenza o l’inesperienza dei suoi collaboratori in questioni di ricette macro-economiche, ove denunciandone l’ottusità politica perché ha insistito che una posizione filo-europea nel futuro referendum sull’Unione Europea ha senso solo a condizione che quest’ultima non minacci i diritti dei lavoratori, ove sperando semplicemente che il fenomeno Corbyn, che intanto continua a riavvicinare al partito miglia di attivisti una volta disillusi, a un certo punto si plachi e la politica ritorni a business as usual.
Comunque si spieghi la sua incredibile ascesa in un contesto istituzionale così ostile, l’importanza della sua elezione non è riducibile al successo di un singolo uomo, come continua a ripetere lui stesso, che ha pure dichiarato di non essere interessato agli attacchi personali. Il significato della sua vittoria consiste nell’emergere di un processo collettivo di riavvicinamento dei movimenti di protesta a un partito di massa, capace di iscrivere la sua volontà politica e di riappropriarsi degli autentici diritti di autogoverno dei cittadini, con un programma che non nasconde le sue radici nella migliore tradizione socialista del Labour party, proiettato sia verso la trasformazione della società britannica che verso la solidarietà internazionale. Chi si nasconde dietro la condanna degli errori di un singolo uomo (che pure ci sono, come è inevitabile), chi si rifugia nelle critiche da anima bella di questo o quel singolo atto politico, rinuncia ad assumersi le proprie responsabilità di partecipazione alla formazione di una volontà generale collettiva che, agonizzante per anni, finalmente assiste a un nuovo risveglio. Da parte del capitale, da parte di chi avverte l’incombente minaccia ai propri interessi personali e la perdita dei privilegi acquisiti alle spalle del lavoro degli altri, una simile mossa è comprensibile. Da parte di tutti noi, sarebbe imperdonabile.