La necessità per un sindacato o qualsiasi altra forma organizzata di lavoratori di incardinare le cosiddette politiche di austerity nel proprio quadro analitico, è ormai questione fin troppo ovvia. La vicenda greca rappresenta in tal senso un banco di prova della maturità politica del proletariato europeo.
di Sergio Cimino
La necessità per un sindacato, un collettivo, un’associazione e qualsiasi altra forma organizzata di lavoratori di incardinare le cosiddette politiche di austerity nel proprio quadro analitico, è ormai questione fin troppo ovvia. Così come ovvia appare la necessità di liberare tali analisi dalla cappa economicistica che può strangolarla. Questo processo di liberazione del significato politico dell’analisi, può tuttavia condurre ad un binario morto, sul quale la maturazione della coscienza di classe circa la posta in gioco rischia di arenarsi, rimuginando sulla mera constatazione che senza fare i conti con la rimozione, parziale o totale dei vincoli europei, nessuna azione politica e tanto meno sindacale può dispiegarsi efficacemente.
La discussione viene inchiodata ad un’alternativa secca tra rinegoziazione delle politiche europee ed uscita dall’euro. Punto al quale credo si debba pervenire solo dopo aver sfrondato completamente la questione da qualsiasi scoria ideologica, e ricordando che alcune di queste scorie assumono la forma dell’accettazione acritica di concetti economici per i quali ci si dimentica della natura di prodotti storici, facenti parte dell’armamentario ideologico della classe dominante, finalizzato alla costruzione di quel consenso sociale, consapevole o meno, indispensabile per il mantenimento della struttura di potere.
Questo accade ad esempio nella discussione circa l’impossibilità per un’economia di rispettare i piani di rientro dal debito, mantenendo nel contempo un livello di sviluppo accettabile. Ci si confronta sul rapporto Debito pubblico/PIL, e la discussione scivola subito sulla fattibilità di quanto stabilito dalle autorità europee. Laddove, invece, un’analisi politica dovrebbe innanzitutto indagare la natura del numeratore e del denominatore di quel rapporto.
Cos’è il debito pubblico? Cos’è il PIL?
L’indebitamento dello Stato era, al contrario, l’interesse diretto della frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo delle Camere. Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offriva all'aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull'orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli […] (1)
L’efficacia esplicativa delle parole di Marx rimane immutata nel delineare il sostrato politico del debito pubblico il quale, alla luce delle modalità adottate nel processo di unificazione europea, si configura quale strumento adoperato dalle istituzioni sovranazionali per condizionare, fino alla completa subordinazione, le politiche governative degli Stati membri agli interessi del capitale. Attraverso lo strapotere ideologico acquisito dalla classe dominante, grazie al controllo delle istituzioni culturali ed accademiche e alla detenzione dei mezzi di comunicazione di massa, anche la classe lavoratrice è oggi indotta a pensare che un debito pubblico di vaste proporzioni sia frutto di una cattiva gestione delle finanze pubbliche e che vada curato come una malattia, attraverso politiche di rigore.
Anche in questo caso lo scopo ideologico è quello di non permettere che la questione venga denudata e analizzata nella sua dimensione politica. Luciano Gallino, nella sua formulazione di lotta di classe unidirezionale, ossia esercitata dalla sola classe dominante, cita come esempi principali di essa le modalità attraverso le quali si perviene alla formazione di un debito pubblico crescente. (2) Esso si alimenta storicamente attraverso indirizzi politici che innescano la detassazione dei redditi delle società, gli sgravi a favore dei redditi personali elevati, l’inconsistenza della tassazione sui capitali e i dispositivi di elusione.
E questo senza voler allargare la disamina sulla rilevanza di una spesa pubblica strutturata quale sostegno di quell’economia di costi non pagati che è il capitalismo. La collettività che si rapporta al debito pubblico in questo tipo di analisi è un blocco sociale uniforme, come se determinate politiche fiscali e di spesa caratterizzanti una politica economica espansiva avessero gli stessi effetti a prescindere dalla collocazione di classe. Così come per il debito pubblico, anche per il PIL siamo di fronte ad un’asettica veste tecnica che copre un rapporto di potere.
Nel rappresentare il valore monetario dei beni e servizi prodotti in un Paese, il prodotto interno lordo può avere una sua esistenza concettuale solo grazie a precise premesse politiche in quanto la sua espressione monetaria implica la sola rilevanza del valore di scambio. In altre parole, il conflitto sociale che dovrebbe condizionare il cosa, quanto e come produrre è ipotecato fin dal principio dalla configurazione del prodotto interno lordo. Quando si arriva a considerare il tasso di crescita di un’economia la partita politica è già finita, anzi non è mai iniziata. I giocatori delle due squadre possono solo segnare nella stessa porta.
La vicenda greca rappresenta in tal senso un banco di prova della maturità politica del proletariato europeo. Finora l’impostazione politica di molte realtà sindacali e politiche che hanno aderito alle manifestazioni organizzate in questi giorni ha mostrato i limiti di questo processo di maturazione nel momento in cui le parole d’ordine si sono attestate sulla linea della solidarietà al Paese ellenico senza cogliere la portata generale dello scontro. Dalla consapevolezza che tale scontro rappresenti uno dei punti di rottura del tessuto sociale, nel quale diviene manifesta la dimensione ormai sovranazionale della lotta di classe, il movimento operaio può trovare un formidabile stimolo idoneo a sanare la paradossale congiuntura storica che vede il capitale aver fatto propria la lezione internazionalista.
Rimettere in discussione i pacifici assiomi dell’ideologia dominante è ormai divenuto un improcrastinabile imperativo categorico. Rovesciare le fondamenta degli edifici culturali che ingabbiano la critica di ciò che viene fatto passare come oggettività scientifica è uno dei nostri compiti principali, al fine di abbattere il più che trentennale recinto di questo sonnacchioso conflitto sociale per liberare nuovamente l’incondizionato prorompere della lotta.
(1)Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Edizioni Lotta Comunista, pag. 56. È possibile trovare numerosi altri riscontri dell’analisi del debito pubblico nelle opere di Marx, a cominciare dal Capitale.
(2)Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Edizioni Laterza, pagg. 21 e segg.