Dal 9 di novembre l’analisi del voto statunitense sta comprensibilmente occupando il centro del dibattito politico mediatico. La chiave di lettura più utilizzata è quella che indica nel rifiuto delle conseguenze economico sociali della “globalizzazione” il motivo della vittoria di Trump. Un rifiuto che è stato cavalcato dal populismo di Trump, nella forma di una vera e propria politics of anger.
Un populismo che si nutre anche – e soprattutto - di un risentimento xenofobo quando non apertamente razzista. Caratteristiche che sono state direttamente collegate al risultato referendario britannico del giugno scorso. I maggiori quotidiani statunitensi e europei hanno adottato questa impostazione. E questa è anche la lettura data recentemente da Barack Obama, che ha parlato del “pericolo di un rozzo nazionalismo”.
Secondo i principali quotidiani internazionali (l’estremo centro mediatico secondo la definizione di Tariq Ali) la carta vincente del nuovo presidente statunitense è da individuare nel sostegno della classe operaia bianca. In particolare, per meglio cogliere le responsabilità della white working class,una tra le più gettonate tra le etichette utilizzate è stata quella della cosiddetta rush belt(la cintura della ruggine): in sostanza, il malcontento degli operai e dei disoccupati vittime della deindustrializzazione e delle delocalizzazioni degli Stati del Nord Est (Michigan, Ohio, Pennsylvania, Wisconsin) è stato capitalizzato da un miliardario reazionario.
In questo contributo cercheremo di mostrare come questo tipo di lettura – specie quando si confronta con l’analisi del comportamento elettorale della classe operaia bianca - sia estremamente superficiale, riduttivo e fuorviante. E soprattutto, viziato com’è dalle ristrette compatibilità dettate dalla attuale fase neoliberista, non può prospettare alcuna concreta alternativa, riducendosi, nella migliore delle ipotesi, alla sostanziale accettazione dello status quo.
Lo status quo come unica prospettiva e le prevedibili reazioni popolari
Una puntuale analisi del risultato delle elezioni statunitensi è complicata da diversi fattori. Non solo ci vorrà del tempo prima che i dati e i flussi elettorali possano essere compresi al meglio ma, soprattutto, c’è il rischio di utilizzare categorie prese dalle dinamiche politiche europee – o peggio ancora limitarsi a quelle italiane – per interpretare un fenomeno che si è prodotto in un contesto molto differente per tradizioni politiche e sindacali, caratteristiche demografiche e etniche.
Nonostante ciò, ci sono alcuni elementi che ci sembra possano essere letti alla luce e in stretta relazione con l’attuale fase di crisi politica delle istituzioni comunitarie e dei governi nazionali europei.
Uno di questi è la sempre maggiore difficoltà da parte dei principali centri di potere, siano essi strutture e organizzazioni politiche, centri economico-finanziari o media, di risultare vincenti nelle tornate elettorali. Trump da questo punto di vista è in un certo senso emblematico: ha vinto avendo contro sia tutti i principali media che il proprio partito, per il quale la sua candidatura ha rappresentato un elemento di rottura rispetto alla volontà dell’establishment.
Da questo punto di vista dai dati fin qui disponibili – e con tutti i limiti del caso - emerge come una componente fondamentale della sconfitta Democratica sia stata l’incapacità della Clinton di mantenere gli stessi tassi di partecipazione delle passate elezioni: entrambi i partiti hanno preso – in termini assoluti - meno voti a tutto vantaggio di un crescente astensionismo. Tuttavia le perdite democratiche sono stati assai maggiori.
La Clinton pur vincendo tra le minoranze etniche e le donne, ha comunque perso, proprio in questo elettorato, molti voti rispetto ai risultati ottenuti quattro anni fa da Obama. E lo stesso vale per i voti dei giovani. Un elemento interessante dello scarso sostegno della cosiddetta rainbow coalition è stato l’alto l’astensionismo tra i neri, componente che ci si aspettava molto più propensa a premiare – dopo i due mandati di Obama – la Clinton. Ma l’astensionismo dei neri non può non essere letto come l’ennesima conferma di l'inestricabile intreccio nella storia statunitense del peso dell’appartenenza etnica e di classe: il fenomeno black lives matter ha evidenziato come il razzismo istituzionale sia tutt’altro che superato. Tuttavia è innegabile che la scelta fatta dai neri vada di pari passo con la consapevolezza che gli ultimi otto anni non abbiano certo significato, per la stragrande maggioranza degli afroamericani e degli statunitensi tutti, alcun miglioramento della condizione occupazionale o interventi per potenziare i sistemi di politiche sociali, come peraltro emerge chiaramente da un recente studio del CEPR.
E qui veniamo al ruolo fondamentale giocato dalla bassa fiducia che la Clinton ha ispirato proprio su tali temi: una candidata che – anche al netto degli scandali giudiziari - rappresentava in tutto e per tutto la continuità con la politica neoliberista targata “terza via” di Bill Clinton. Un’esperienza che ha condotto a fondamentali ristrutturazioni del sistema di welfare nella direzione di un vero e proprio cambio regressivo. Pur con gli inevitabili mutamenti occorsi nel tempo la stessa presidenza Obama, in tal senso, non ha certo rappresentato alcuna discontinuità.
Seguendo l’elaborazione dei dati riportata dalle diverse rilevazioni è possibile notare come l’elettorato con redditi inferiori ai 30.000 $ - prendendo questo, seppure con cautela, come indicatore della collocazione sociale - abbia votato in maggioranza per Clinton. Tuttavia, com’è stato recentemente notato già da diverse legislature i Repubblicani stanno incrementando la quota di elettorato favorevole tra le fasce di reddito più basse (< 30 e fino ai 50.000 $). La candidatura di Obama nel 2008 e, in minor misura, nel 2012 ha temporaneamente invertito questo trend. Con la Clinton, infine, i Democratici perdono il 10% dei voti tra i redditi sotto i 30.000 $ e il 6% tra i 30 e i 50.000 $. Insomma, la novità e le speranze (vane) suscitate tra le classi subalterne da un personaggio come Obama si sono con il tempo trasformate sia in un voto per i repubblicani sia in un altrettanto importante opzione astensionista. Opzione astensionista che progressivamente da decenni si registra anche in Europa. Di fronte a una crescente crisi di egemonia e consenso delle principali formazioni politiche di centrodestra e centrosinistra - crisi che come testimoniano diversi studi è tanto più forte tra le classi popolari - si rileva un elemento chiave: la sensazione per l’elettorato di non poter scegliere alcuna alternativa allo stato di cose presente. La pasokizzazione e la crisi delle diverse sinistre più o meno radicali emerge qui in tutta la sua centralità. Ed è naturale attendersi che – mancando una capacità alternativa di elaborazione politica a sinistra – una parte considerevole del voto, anche proveniente dalle classi sociali subalterne, si ridirezionare verso formazioni nazionaliste di estrema destra. E in questo senso va intesa la novità Trump e il suo essere outsider. Purtroppo non ci vorrà molto prima che tra i lavoratori statunitensi si prenda coscienza del profilo fortemente reazionario e antipopolare delle politiche di Trump: come in definitiva Trump, con il suo liberismo xenofobo, condurrà a un ulteriore compressione dei salari, a una ulteriore distribuzione del reddito sfavorevole alla classe lavoratrice e a politiche fortemente discriminatorie contro le donne e le minoranze etniche. Questo schema in tutta evidenza si applica senza eccezioni a tutte le opzioni politiche europee assimilabili all’esperienza trumpiana che dovessero concretamente confrontarsi con una vittoria elettorale.
L’analisi di classe e la “globalizzazione”
La crisi di consenso che vive la sinistra poggia sull’aver assunto come sostanzialmente dati i presupposti ideologici neoliberisti: il “populismo” sarebbe una forma di risposta politica che suggerisce ‘ricette facili per problemi complessi’. La negazione della complessità sarebbe evidente nel momento in cui non si prende atto della mancanza di alternative alla ‘globalizzazione’. Semmai, si tratta di raccogliere gli indubbi vantaggi del commercio globale e dell’apertura dei mercati avendo però attenzione a elaborare politiche – in primis politiche educative e formative – che riducano al minimo gli effetti occupazionali e sulla distribuzione del reddito, in particolare, dell’espansione della tecnologia.
Nella versione di una parte della sinistra “radicale” spesso questo schema è stato modificato aggiungendo a esso la necessità di potenziare le politiche redistributive e l’intervento delle politiche sociali. E sarebbero proprio le incisive lotte per la redistribuzione a condurre alla rottura con le compatibilità dell’attuale fase capitalistica.
Disgraziatamente entrambe le letture non possono che essere fallimentari. In primo luogo, ci sono importanti segnali che indicano come l’attuale fase sia tutt’altro che una fase di sfrenata globalizzazione. Il che si lega peraltro alla fallimentare idea che non ci sia più spazio per le lotte democratiche su base nazionale. Anzi, che il terreno nazionale sia il terreno principale di lotta di classe. Paradossalmente un’indicazione ci viene dall’elaborazione di autori estranei alla sinistra: «possiamo pure pensare di vivere in un mondo in cui la governance è stata radicalmente trasformata dalla globalizzazione, ma la patata bollente è ancora nelle mani dei governi nazionali. Il gran parlare che si fa sul declino dello Stato nazioanle è pura e semplice chiacchera. La nostra economia può essere popolata da un miscuglio eterogeneo di organismi internazionali [..] ma il momento decisionale democratico rimane saldamente in mano degli Stati nazionali» (Rodrick 2016:294).
La forza contrattuale del lavoro e con essa i margini politici per una espansione delle politiche di welfare non possono che provenire dalla lotta per la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario e il rilancio del conflitto su tempi, modi e organizzazione del lavoro. Con il ritorno alla centralità della contrattazione nazionale e il superamento della precarietà. Si tratta di un programma che insieme punta a migliorare la qualità del lavoro e a riconquistare quote di ricchezza nazionale che da decenni sono andate a fare ingrassare profitti e rendite. Avendo bene a mente che non esiste né analiticamente né politicamente alcuna possibile scissione tra la fase produttiva e quella riproduttiva e redistributiva.