La vittoria elettorale di Donald Trump alle elezioni presidenziali del 2016 ha riacceso il dibattito politico sullo stato di salute della potenza nordamericana, del suo sistema politico e delle conseguenze economiche, politiche e militari di questo sulla popolazione mondiale.
Tralasciando bellamente il dibattito che si è sviluppato sui media cosiddetti mainstream (che somigliava più a un bombardamento propagandistico per farci credere che avrebbe vinto la guerrafondaia Hillary Clinton), in realtà fra gli studiosi e gli “addetti ai lavori” questa discussione va avanti da circa trent’anni. Da una parte vi sono i cosiddetti “declinisti”. Alcuni, partendo dalla convinzione storica che tutte le grandi potenze hanno avuto un’ascesa e un declino, ritengono che quello americano sia dovuto alla cosiddetta “sovraesposizione imperiale” e alla impossibilità (o incapacità) di mantenere in piedi il proprio impero, come già è successo nel passato per Spagna, Portogallo, Province Unite, Francia e Gran Bretagna [1]. È un declino che parte da lontano, addirittura dalla rivolta giovanile del 1968, passando poi per la guerra del Vietnam e acuendosi infine a partire dal 1989 e poi dal crollo delle Torri Gemelle nel 2001 [2]. Secondo alcuni, quello statunitense sarebbe ormai ridotto a una specie di imperialismo “mordi e fuggi” [3], in piena crisi di egemonia e che, sfidato da nuovi Paesi “concorrenti”, in breve tempo lascerà il ruolo di potenza dominante alla Cina [4]. Visioni un po’ più “estreme” – diciamo così – ritengono che, in un mondo in cui altre aree geopolitiche sono in piena espansione, gli USA come superpotenza siano già scomparsi e che per mantenersi si costruiscano dei nemici immaginari per mettere in scena un “micro-militarismo teatrale” [5].
Di contro si trovano coloro che invece sostengono ci si trovi di fronte a una nuova fase di ascesa della potenza nordamericana, sulla scia della tesi elaborata da Francis Fukuyama subito dopo il crollo dell’URSS [6]. Secondo questi autori, gli Stati Uniti continuano a essere una potenza senza rivali: infatti, quando si analizza il livello di forza di un grande Stato, non bisognerebbe guardare solo al potere militare (“hard power”) e a quello economico, ma anche alla sempre più importante dimensione di quello che Joseph Nye chiama il “soft power”, cioè la capacità di esercitare la propria egemonia (qui ci sono degli echi che rimandano a Gramsci) sugli altri Paesi [7]. Vi sono poi una serie di autori dalle teorie un po’ “colorite”: il portoghese Valladao contesta le tesi decliniste che paragonano gli USA all’Impero Romano del 300-400 dopo Cristo, sostenendo che l’Impero Americano si trova in una situazione analoga alla Roma di Giulio Cesare, perché sta perdendo (sic) il suo carattere democratico ed entrando nella loro fase imperiale, mentre per Munkler il modello è il Sacro Romano Impero, cioè un soggetto poliarchico come strada per vivere liberamente e pacificamente [8].
La riflessione più interessante fra quelle recentemente proposte è, però, forse quella di John Ikenberry, perché testimonia una maggiore aderenza all’evoluzione (o forse sarebbe meglio dire involuzione) del ruolo degli USA nel complesso sistema di relazioni internazionali attuali. All’inizio del XXI secolo Ikenberry invita a rivedere le teorie sull’equilibrio di potenza: il nucleo di queste teorie è che quando si forma una potenza egemonica di regola sorge, per reazione, una coalizione controbilanciante che ha lo scopo di tenere a bada il potenziale Stato egemone. Ora, dalla fine degli anni ’80 a oggi, gli USA sono stati indubbiamente un attore egemone (anzi forse l’unico), ma di contro, almeno fino alla seconda guerra del Golfo non si era ancora formata una coalizione controbilanciata. Secondo Ikenberry ciò era dovuto al fatto che L’America si rappresentava come potenza “rassicurante”, che in linea di massima cercava di agire secondo la cosiddetta “legalità internazionale” (cioè, possiamo dire, utilizzando di fatto l’ONU come esecutore, per procura, delle sue decisioni di politica internazionale, in primis gli interventi militari all’estero) e quasi sempre agiva in maniera multilaterale, cercando di coinvolgere altre potenze regionali in ampie coalizioni [9]. Sei anni dopo, all’esplodere della crisi dei mutui subprime, Ikenberry fa una virata secca e critica aspramente gli USA, i quali hanno cessato di essere una potenza rassicurante (con la guerra all’Iraq del 2003). Così, secondo il politologo statunitense, mentre prima gli USA risolvevano i problemi del mondo, ora li creano. Ecco perché, a suo avviso, adesso può formarsi una nuova coalizione controbilanciante (fra Russia, Cina e India) che possa far fare agli USA la stessa fine di Guglielmo I, Napoleone o Hitler [10].
Le manovre militari russo-cinesi nel Mediterraneo del maggio 2015, lo schieramento apertamente filo-russo della Cina sulla questione ucraina, l’annuncio di esercitazioni militari congiunte indo-russe a luglio di quest’anno, ma soprattutto il prepotente inserimento della Russia di Putin nello scacchiere mediorientale (con l’intervento diretto in Siria a fianco del governo di Bashar Al-Assad), sembrano decisamente dare ragione ad Ikenberry, almeno sul fronte geopolitico. La politica militarista e di aggressione portata avanti dall’ex Segretario di Stato Hillary Clinton (e poi dal suo successore John Kerry) sotto la presidenza Obama, ci consegna un imperialismo nordamericano in evidente difficoltà, si può pacificamente dire in declino, rispetto anche solo a una dozzina d’anni fa. L’ultimo chiaro segnale è la “insubordinazione” del “sultano” turco Erdogan, che, perseguendo una sua autonoma politica di potenza, non si fa scrupolo di siglare un accordo con l’ex nemico Putin e di prendere letteralmente a pesci in faccia (l’ex?) protettore a stelle e strisce.
Questa situazione di evidente difficoltà, unita al crescente debito con Giappone ma soprattutto Cina, ha portato Trump a incentrare parte del suo programma elettorale sul vecchio tema dell’isolazionismo americano, che caratterizzò la politica estera USA almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale, tirando nuovamente fuori dalla soffitta la vecchia Dottrina Monroe: intrattenere rapporti economici con l’Europa (è quindi probabile che sul TTIP, quelle di Trump siano state solo dichiarazioni puramente elettoralistiche), ma distanziarsene nettamente sul piano politico. Quanto questa intenzione di Trump di rivalutare Monroe per non fare la fine di Guglielmo I sia vera, solo il tempo ce lo dirà: i dubbi sono fortissimi, visto che la globalizzazione del mercato mondiale e le sempre più ridotte risorse energetiche e materiali sul territorio nordamericano renderanno difficilissime, se non impossibili, politiche ultra-protezionistiche o autarchiche. Quello che è certo, è che una parte delle élites e della classe politica di governo non vedrebbero troppo negativamente un periodo di maggior disimpegno. È altrettanto certo che ci troviamo di fronte a uno snodo storico-politico pieno di chiaroscuri e di insidie, che non fanno essere ottimisti su un futuro di pace sul pianeta.
Note:
[1] P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, 1999 (ed. orig. 1987).
[2] I. Wallerstein, Il declino dell’America, Feltrinelli, 2004.
[3] N. Ferguson, Ascesa e declino dell’impero americano, Mondadori, 2006.
[4] Z. Brzezinki, L’ultima chance: La crisi della superpotenza americana, Periscopio, 2008; S. P. Huntington, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 2000 (ed. originale 1996).
[5] E. Todd, Dopo l’impero, Net, 2005.
[6] F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, 1992.
[7] J. Nye, Bound to Lead: The Changing Nature of American Power, Basic Books, 1990.
[8] A. G. A. Valladao, Il XXI secolo sarà Americano, il Saggiatore, 1994; H. Munkler, Imperi. Il dominio del mondo dall’antica Roma agli Stati Uniti, il Mulino, 2012.
[9] J. Ikenberry, America Unrivaled: The Future of the Balance of Power, Cornell University Press, 2002.
[10] J. Ikenberry, T. J. Knock, A. M. Slaughter & T. Smith, The Crisis of American Foreign Policy: Wilsonianism in the Twenty-first Century, Princeton University Press, 2008.