Nello scorso fine settimana, in molti balconi della Spagna, che lentamente sta uscendo dal confinamento, sono apparsi drappi e bandiere rosse e repubblicane per ricordare la scomparsa di Julio Anguita. I social network si sono riempiti di ricordi, commemorazioni, frasi celebri e video dell’amato dirigente comunista. La stampa e i media che non gli hanno mai risparmiato critiche e colpi bassi hanno dovuto dare grande risalto alla sua scomparsa, perché troppo forte era il legame affettivo tra il vecchio leader comunista e il popolo di sinistra. Bisogna ritornare indietro almeno di quindici anni, ai funerali di Álvaro Cunhal, o molto più indietro alla tragica morte di Berlinguer, per ricordare in Europa occidentale un evento simile, un dirigente comunista così amato e così popolare.
Julio Anguita Gonzalez, nato a Fuengirola (Malaga) nel 1941 ma cordobese di adozione, insegnante laureato in storia, si iscrisse nel 1972 al Partito Comunista spagnolo ancora clandestino. Nel 1979, divenne sindaco di Cordoba, primo sindaco comunista di una città capologuo di provincia nella transizione. Fu sindaco di Cordoba dal 1979 al 1986, prima in coalizione coi socialisti del PSOE e poi con un monocolore, avendo ottenuto la maggioranza assoluta alle elezioni del 1983. Durante i suoi due mandati, si distinse per la difesa delle imprese municipalizzate e del suolo pubblico contro le privatizzazioni e la speculazione edilizia spesso in contrasto con i socialisti e con il governo centrale di Felipe Gonzalez. In quegli anni, la sua figura comincia a diventare nota a livello nazionale e si guadagna il soprannome di “califfo rosso”.
Nel 1986 si candida alla presidenza della regione Andalucia e ottiene il diciotto per cento dei voti con Izquierda Unida. Nel 1988 diventa segretario generale del Partito Comunista spagnolo (PCE), un partito organizzativamente indebolito e in crisi ideologica dopo la sbandata eurocomunista di Santiago Carrillo e il caos che ne segue.
Nello scenario interno, il PCE, che pur ha avuto un ruolo fondamentale durante la clandestinità, nell’organizzazione delle Comisiones Obreras sindacali e nel processo di transizione alla democracia negli anni Ottanta, non riesce a trovare uno spazio di azione adeguato nei primi anni dopo la fine della dittatura. Gli elettori, in parte delusi nella speranza di cambiamenti più radicali nella transizione e in parte attratti dalle sirene del rinnovato PSOE di Felipe Gonzalez, penalizzano il Partito Comunista, visto forse come un partito del passato, più necessario in clandestinità che tempi di democrazia; il PCE viene superato abbondantemente in termini elettorali dal partito socialista, schierato apparentemente ancora nel campo della sinistra, ma sempre più indirizzato verso politiche liberiste.
Al di fuori della Spagna, intanto, crollano prima le repubbliche popolari dell’Europa dell’Est e poi l’Unione Sovietica, e si autoscioglie il Partito Comunista Italiano, tragica storia che purtroppo conosciamo bene. In questo scenario complesso, Anguita è segretario del PCE per dieci anni fino al 1998. Il partito, anche se indebolito non scompare, non si divide, non si scioglie a differenza del PCI, e riesce in qualche modo a mantenersi vivo anche se confluisce nella federazione di Izquierda Unida. Questa scelta organizzativa, sicuramente discutibile e ambigua per sovrapposizione di incarichi e ruoli (e che mostrerà i propri limiti soprattutto con le dirigenze successive alla sua), permette però di rilanciare il partito in termini elettorali in contrapposizione ai socialisti. Dal punto di vista ideologico, si comincia a uscire dalle nebbie eurocomuniste ed è proprio Anguita uno dei dirigenti comunisti più lucidi nel capire e denunciare che dall’Europa di Mastricht sarebbe venuta la distruzione dello stato sociale. Apprezzato per la sua coerenza, fece della difesa del programma politico come asse di costruzione dell’unità popolare (sua la frase ormai famosa in Spagna “programma, programma, programma”) e dell’applicazione della seppur debole Costituzione i suoi cavalli di battaglia contro il PSOE di Felipe Gonzalez.
È stato probabilmente l’uomo politico più apprezzato in Spagna alla fine degli anni Ottanta. Si pose l’obiettivo di contendere l’egemonia della sinistra ai socialisti, candidandosi due volte alla presidenza del governo; perse questa sfida, ma portò Izquierda Unida ai suoi migliori risultati elettorali sopra il dieci per cento dei voti e come deputato al Congresso fu uno dei pochi baluardi contro le politiche neoliberiste dei socialisti. “Pensare che sulla base del PSOE si possa costruire una politica sociale avanzata è un errore, significa non aver appreso nulla dall’esperienza, dalla storia degli ultimi decenni, e non capire niente dell’essenza della socialdemocrazia”: anche per questo fu attaccato dalla stampa di regime, che lo accusò di fare il gioco della destra di Aznar.
Sempre attivo in campagne contro le guerre imperialiste, perse il figlio Julio, corrispondente di guerra in Iraq, colpito da un missile nel 2003. Il suo impegno politico è stato più volte ostacolato da problemi cardiovascolari, e nel 2000 i suoi problemi di salute lo costrinsero ad abbandonare ruoli istituzionali e di dirigente. Non per questo abbandonò la militanza attiva, e negli ultimi anni ha sfruttato le sue grandi doti di comunicatore, utilizzando con abilità, nonostante l‘età ormai avanzata, le occasioni e gli spazi aperti dai nuovi social network per lanciare una campagna a favore della terza repubblica. Orgoglioso della sua professione di insegnante, rivendicò sempre l’importanza della cultura nell’emancipazione di un paese che usciva dall’ignoranza imposta da quarant’anni di dittatura (“La Spagna è un paese che si mette davanti a un toro, ma se vede un libro scappa”).
Veniva spesso chiamato in televisione, nonostante fosse un personaggio scomodo, perché esempio di coerenza e onestà. Con la sua schiettezza e simpatia assicurava sempre buoni ascolti. I suoi video, in cui brillava per un linguaggio semplice e diretto, sono tra i più condivisi in Spagna. “Chiedere più democrazia dentro il capitalismo è come chiedere a una tigre che diventi vegetariana”; “Io sono rosso. Sono a favore della rivoluzione. Non assumo i valori del sistema. Sono un antisistema”; “In Spagna ci sono soldi in abbondanza, però bisogna andarli a cercare. Stanno nei conti in Svizzera”: queste alcune delle sue frasi più popolari in rete.
Oggi piangono la sua scomparsa i comunisti spagnoli, ma anche i dirigenti della nuova sinistra di Podemos come il vicepresidente del governo Pablo Iglesias. Ci lascia un referente imprescindibile per la giustizia sociale, i diritti e l’uguaglianza nel vecchio continente.