Recovery Fund: noi non brindiamo

Il compromesso sul Recovery Fund è tutt’altro che una vittoria. Aumenteranno il debito pubblico e la dipendenza del Paese dai poteri europei. Senza una mobilitazione dei lavoratori ci aspetta solo un nuovo massacro sociale.


Recovery Fund: noi non brindiamo

La natura dell’Unione europea è emersa nitidamente dalle estenuanti trattative sul Recovery fund. Nemmeno la grave emergenza sanitaria ha consigliato le istituzioni europee e i governi dei paesi membri di adottare prontamente misure solidaristiche. Dopo numerosi incontri preliminari e rinvii, che hanno ritardato di diversi mesi l’accordo, sono state necessarie cinque giornate di full immersion per concludere la trattativa e giungere a un misero compromesso fra gli stati cosiddetti “frugali”, e le “cicale” mediterranee. I primi, vengono denominati in tal modo del tutto impropriamente in quanto protagonisti di politiche mercantiliste a mezzo di dumping sociale e fiscale (a quest’ultimo proposito si veda il caso dell’Olanda, la più ostica nelle trattative e non a caso scelta come sede legale dalla Fca e di molte altre multinazionali). Gli altri paesi, denominati cicale e considerati sperperatori, in realtà, sono stati protagonisti, almeno per quanto riguarda il nostro paese, di decennali avanzi primari di bilancio che hanno determinato un massacro sociale.

Ma più che il percorso è importante vedere il contenuto dell’accordo, vedere se è giustificata la soddisfazione manifestata da Conte, Mattarella e perfino da Berlusconi. Quest’ultimo, significativamente, ha affermato “quella di stanotte è una notizia positiva per l'Italia che toglie argomenti ai nemici dell’Europa” e subito dopo ha messo i piedi nel piatto affermando che il piano di riforme “accettato” (meglio sarebbe dire imposto) dall’Ue è “un piano improntato al futuro e non di tipo assistenziale o statalista e questa volta chiediamo al governo che l’opposizione sia davvero coinvolta nelle decisioni”. Già l’entusiasmo di questi liberal liberisti dovrebbe insospettire e anche far riflettere anche chi, scegliendo ogni volta il “voto utile” per allontanare le destre dal governo, ha determinato la formazione di governi che oggettivamente e con assoluta regolarità aprono praterie alle destre.

I punti dell’accordo

Veniamo al contenuto. La dotazione del fondo sarà di 750 miliardi di cui 390 (il 52%) di sussidi. La copertura di questa spesa sarà garantita emettendo eurobond sul mercato. Nemmeno l’emergenza ha consentito di derogare al divieto di acquistare titoli del debito pubblico direttamente presso l’Ue da parte della Bce. Il bilancio Ue dei prossimi anni sarà quindi appesantito dal servizio del debito e dai relativi interessi, che verrà coperto sia con nuove imposte che saranno per lo più di carattere regressivo, se si esclude una (solo ipotizzata con un bel condizionale però) imposta sulle transazioni finanziarie, sia con contribuzioni degli stati membri che nel primo anno saranno pari al 1,4% del Pil. Per l’Italia saranno oltre 23 miliardi.

I paesi “frugali” però avranno uno sconto sulle loro contribuzioni che nel corso della trattativa è lievitato: per la Danimarca da 222 a 322 milioni annui, per l’Olanda da 1,576 a 1,921 miliardi, per l’Austria da 287 a 565 milioni e per la Svezia da 823 milioni a 1,069 miliardi. Quindi ci sarà da fare conti complicati per capire quale sarà il beneficio o la perdita netta di ciascuno stato. Il saldo comunque sarà di entità ben minore degli sbandierati 200 miliardi, perché in Ue anche la solidarietà si eroga con frugalità. E, tanto per mettere i puntini sulla “i” Il documento sottolinea l’eccezionalità del Recovery fund dovuta alla natura eccezionale della crisi, e che l’assunzione di prestiti da parte della Commissione è limitata nella misura, nella durata e nello scopo. Non può soccorrere i paesi per i debiti contratti prima del Covid-19 e non riguarderà quelli dopo l’emergenza, finita la quale tutto tornerà come prima, compreso l’obbligo di fare rientrare il debito, alla barba delle ovazioni in Parlamento e degli entusiasti che vedono nell’accordo la nascita di una nuova Europa in cui l’Unione si indebita per venire incontro alle esigenze dei popoli e quindi “inizia ad assumere alcune caratteristiche di vera e propria statualità” (Corriere della Sera dixit e purtroppo anche diversi esponenti della cosiddetta sinistra radicale dixerunt).

Con questo non intendiamo sostenere che niente è cambiato. È cambiato il quadro complessivo a livello globale, non solo per via della pandemia. Il fallimento delle politiche liberiste e la perdita di egemonia degli Usa e dei paesi occidentali in genere, sopravanzati da alcuni paesi emergenti, con la Cina in testa, che al contrario stanno praticando un modello a forte trazione statale, hanno rimescolato le carte in tavola. L’accentuarsi delle disparità in Europa ha raggiunto probabilmente un limite oltre il quale la costruzione dell’Ue potrebbe cadere a pezzi e di questo immaginiamo sia consapevole la leadership della Germania, principale beneficiaria di questo impianto. Quindi, quello che vogliamo sostenere è che i cambiamenti, il nuovo ruolo degli stati e una parvenza di solidarietà dalle parti dell’Eurozona si declinano come un supporto al grande capitale. Cambiano i mezzi, ma non i fini, i soggetti premiati e la strategia generale.

L’Italia sarà la prima “beneficiaria”, e quindi il principale paese sotto osservazione, come vedremo, ma la trattativa ha visto ridursi di 3,8 miliardi le somma a fondo perduto spettantele, portandola a 81,4 miliardi mentre ha incrementato quella a prestito, portata a 127 miliardi. Per avere i soldi bisognerà aspettare. Verranno assegnati a partire dalla seconda metà del 2021 sulla base di programmi presentati al Consiglio europeo. Tali programmi potranno includere anche le spese sostenute nel 2020 se compatibili con gli obiettivi del fondo.

Per la resistenza del premier olandese Mark Rutte, il quale chiedeva una sorta di diritto di veto, è stata peggiorata la proposta della Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen di demandare alla Commissione stessa l’assegnazione dei fondi. Si ricorda che la Commissione è composta da un Commissario per ogni stato membro avente la massima indipendenza decisionale nei confronti del governo nazionale, a differenza del Consiglio, composto invece dai premier o dai capi di Stato che devono rispondere al rispettivo paese. Quindi tale ipotesi poneva il meccanismo di assegnazione al riparo da un’eccessiva ingerenza di governi diffidenti. La soluzione di compromesso, indicata al punto A19 dell’accordo, prevede che la Commissione valuti i piani per la ripresa entro due mesi dalla presentazione, dando priorità al criterio della “coerenza con le raccomandazioni specifiche per paese” e al “rafforzamento del potenziale di crescita”, che in territorio liberista significa anche riduzione del costo del lavoro e delle relative tutele, detassazione dei profitti ecc. Si prevede anche un via libera allo “snellimento” delle procedure per realizzare le grandi opere. A quest’ultimo proposito al punto A12 delle conclusioni finali c’è un invito alla Commissione europea a presentare entro ottobre delle raccomandazioni ai governi su come diventare più efficienti nell’approvazione e esecuzione dei lavori pubblici, dimenticando un problemino spinoso per l’Italia: quello delle pratiche corruttive.

La valutazione della Commissione deve essere approvata entro il successivo mese dal Consiglio, a maggioranza qualificata di 15 membri che rappresentino almeno il 65% della popolazione dell’Unione, sulla base di piani nazionali di riforme. Già sappiamo che la parola “riforme” suona sinistra in zona Ue, perché significa liberalizzazioni, tagli alla spesa sociale, perdita dei diritti dei lavoratori, tanto per avvantaggiare il capitale. Per l’Italia le riforme riguarderanno pensioni, lavoro, giustizia, pubblica amministrazione, istruzione e sanità. Quanto alla maggioranza qualificata, è sufficiente che 14 stati o un numero inferiore di essi che rappresenti il 35% della popolazione europea pongano un veto per bloccare tutto. Tale soglia è raggiungibile se si uniscono nel voto Germania e i paesi frugali. Diciamo la verità, non siamo nelle mani della Troika, ma poco ci manca.

Ma non è tutto, in quanto, sempre nel punto A19 è inserito il cosiddetto “freno di emergenza” voluto da Rutte. In cosa consiste? La Commissione, per dare corso alle varie tranche di finanziamento deve chiedere “il parere del comitato economico e finanziario in merito al soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali”. Quest’ultimo organismo è il summit dei ministri delle finanze dei paesi membri. In questa sede si deve cercare prioritariamente l’unanimità ma se anche un solo componente denuncia “gravi scostamenti dai target intermedi e finali”, può richiedere la sospensione dei pagamenti e che la cosa venga rinviata al Consiglio, che quindi può intervenire non solo in sede di assegnazione ma anche successivamente. In pratica l’Italia potrebbe diventare osservato speciale. Si nota qualche somiglianza con il Mes?

Un occhio di riguardo c’è stato invece nei confronti dell’Ungheria di Orbàn (e anche il nostro Salvini ne ha gioito) edulcorando, fino a renderlo ininfluente, il requisito del rispetto dei diritti umani. Infatti all’art. 122 si recita genericamente che i finanziamenti “saranno soggetti alle norme sulla condizionalità, anche per quanto riguarda il rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale”.

Conclusioni

Dopo questa panoramica emergono nettamente i due principali elementi negativi. Uno riguarda il fatto che buona parte del fondo è a prestito e quindi andrà ad aumentare il debito pubblico e con esso lo spread gli interessi passivi. L’Italia quest’anno ha già incrementato il suo debito pubblico dal 134,8% del 2019 al 158,9%, secondo le stime ufficiali. Se si aggiunge che anche gli altri “aiuti” dell’Ue, quali il il Sure e il Mes, consistono in prestiti, il rischio è che il debito divenga ingestibile e lo scenario greco, finita l’emergenza e ritornati in funzione i criteri contabili europei ordinari, potrebbe ripetersi in casa nostra.

Come si risponderà a tale difficoltà? Già i decreti cura Italia e rilancio hanno chiaramente evidenziato da che parte sta il governo che ha destinato il grosso delle cifre stanziate a ristoro dei profitti e solo le briciole in elemosine ai lavoratori. In questi giorni nella stampa di regime e nel talk show si parla insistentemente di pensioni. Ma essendo quelle future già abbondantemente tosate, potrebbero entrare in ballo anche le attuali. E poi si dice già che, finita l’emergenza, la spesa sanitaria andrebbe ridotta, come se le difficoltà affrontate durante la pandemia non siano dipese in larga misura dai precedenti tagli alla servizio sanitario nazionale.

La vera soluzione sarebbe invece la tassazione delle grandi ricchezze, il taglio delle spese militari e il superamento del tabù del divieto alla Bce (e alle banche centrali) di acquistare titoli pubblici nel mercato primario previa emissione di moneta. Il tutto per dare luogo a importanti investimenti pubblici nei campi della tutela dell’ambiente, dei servizi pubblici e delle industrie strategiche, facendo tornare in mano pubblica il volano della ripresa.

L’altro enorme problema è costituito dalle condizionalità. Il piano di interventi deve essere conforme ai criteri stabiliti dalla Commissione, uno solo o pochissimi paesi possono intralciare l’erogazione nel tempo dei sussidi e mettere il paese sotto osservazione affinché non si discosti dal sentiero delle riforme-mannaia imposte: pensioni, diritti dei lavoratori, salari, sanità ecc. La “sorveglianza” sui singoli Paesi, e in particolare su quelli, più distanti dal rispetto dei parametri di Maastricht, Grecia, Italia, Spagna in primis, ne esce potenziata.

Contrariamente alle proclamazioni in voga, l’impianto del Recovery fund, dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che l’Ue rappresenta ormai un polo imperialista interstatale in cui si mediano gli interessi contrastanti dei paesi membri sull’altare della massima tutela dei profitti e del grande capitale transnazionale. E a pagare sono le classi subalterne. Per questo urge che venga ricostruita la soggettività sindacale e soprattutto politica di tali classi a partire dai conflitti che inevitabilmente si proporranno a breve e che dovranno essere unificati da una consapevole direzione, pena disperdersi in approdi corporativi e in un sovranismo di destra.

25/07/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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