Segue da “Il programma minimo” pubblicato nello scorso numero di questo giornale (n. 293 del 25 luglio)
La determinazione del salario come categoria sociale concerne anche la posizione di una regione e di un paese nella divisione nazionale e internazionale del lavoro e, quindi, la lotta per il salario si lega immediatamente alla lotta per difendere e rilanciare la struttura produttiva italiana mirando a rendere competitiva l’industria del nostro paese facendo crescere la produttività del lavoro dal punto di vista tecnologico e non continuando ad aumentare i ritmi di lavoro, comprimendo le pause.
La lotta in difesa del salario di classe concerne anche la questione del cosiddetto “reddito”, dal momento che il salario come categoria sociale deve consentire la riproduzione non solo della forza-lavoro attiva, ma anche dell’esercito industriale di riserva nelle sue tre forme: disoccupati, sottoccupati – forme indispensabili ai capitalisti per mantenere al minimo il prezzo della forza-lavoro occupata – e lavoratori in formazione, ad esempio gli alunni e studenti che rimpiazzeranno gli attuali occupati. Inoltre la battaglia per il salario diretto è anche propedeutica a ogni battaglia per la limitazione o riduzione dell’orario di lavoro, in quanto se la busta paga non è sufficiente, il lavoro straordinario – che dilata l’orario di lavoro – diviene indispensabile. Dunque la lotta per il salario diretto è anche indispensabile per diminuire la disoccupazione, che riduce i salari, in quanto con una significativa crescita dello stipendio gli occupati non sarebbero più costretti a straordinari sempre più lunghi e frequenti – spesso non pagati come tali o addirittura gratuiti nel caso di lavoro a cottimo.
Il secondo aspetto essenziale è la lotta per il salario indiretto: ovvero tutto quanto è necessario alla riproduzione della forza-lavoro e che non è retribuito nella busta paga. Rientrano in tale categoria l’equo canone, i trasporti (necessari per andare al lavoro e riprodurre la forza-lavoro), il diritto allo studio, la sanità, luce, gas, acqua (i cosiddetti beni comuni) a prezzi politici calmierati, ovvero pagati principalmente dalla fiscalità generale con una tassazione diretta e progressiva sulla base dei patrimoni mobiliari e immobiliari. Alla lotta per il salario indiretto si legano e si unificano le lotte nei territori, per i “beni comuni”, per il diritto all’abitare, le lotte studentesche, ma anche per una tassazione diretta e fortemente progressiva, a partire da una lotta senza quartiere all’evasione fiscale – rendendo nominali e tracciabili tutte le rendite – e al lavoro nero.
Rientra nella lotta per il salario indiretto anche la lotta per la patrimoniale, contro le spese militari e le tangenti pagate dai privati per assicurarsi, a prezzi vantaggiosi, gli appalti per le grandi opere, la questione degli interessi sul debito pubblico, che drena quote sempre crescenti del patrimonio nazionale nelle tasche dei creditori privati. Infine, sono indispensabili non solo le lotte alle privatizzazioni, ma anche per la rinazionalizzazione di settori pubblici svenduti o appaltati ai privati. A quest’ultima questione si lega la necessità di approntare forme di controllo dal basso, dei lavoratori sull’intero settore pubblico, che in un paese capitalistico è altrimenti posto interamente al servizio della borghesia.
Altro aspetto essenziale della lotta per il salario sociale di classe è la lotta per una pensione e un TFR dignitosi che consentano di vivere, per un certo numero di anni, quando non si è più in grado di lavorare. Va diminuita in primo luogo l’età pensionabile, per far vivere di più i lavoratori, perché più tardi si va in pensione e più aumentano i rischi di non arrivarci o di arrivarci troppo tardi per godersela. Vanno aumentate le pensioni dei lavoratori salariati. Per far ciò è indispensabile: a) tornare al precedente sistema in cui i lavoratori attuali pagavano le pensioni a vecchi e invalidi, eliminando l’attuale sistema anti-sociale in cui ognuno deve pensare alla propria pensione, difendendola dall’inflazione e dai fondi pensioni che se la giocano, a profitto di altri, nelle borse; b) separare la gestione delle pensione dei lavoratori da quella di padroni e artigiani, costantemente in rosso, che si pagano le loro pensioni con le pensioni dei lavoratori; c) diminuire le pensioni d’oro dei boiardi di stato, burocrati necessari a subordinare il pubblico al privato; d) separare la gestione delle pensioni, sempre in attivo, con la gestione di altri settori, a partire dalla cassa integrazione, che la porta in passivo; e) dare la cittadinanza a tutti gli extra-comunitari e contrastare così il lavoro in nero, per far aumentare la base contributiva e arginare il calo della natalità fra gli italiani – che andrebbe contrastato aumentando i salari diretti e indiretti e combattendo la precarietà.
A ciò si aggiunge la difesa dell’indispensabile contrattazione collettiva e la lotta contro la precarietà e ogni forma di lavoro a cottimo. La precarietà rappresenta la riduzione e il rendere flessibile l’orario di lavoro a favore del capitale. A questo proposito occorre non solo contrastare ogni forma di precarietà, ma anche impedire che si formi una classe ancora più sfruttata del proletariato, i nuovi schiavi, precari e immigrati, che trasformano il proletariato moderno, potenzialmente rivoluzionario, in una nuova plebe. Occorre contrastare ogni razzismo e ogni forma di lotta fra poveri, battersi per il permesso di soggiorno per tutti i lavoratori e le relative famiglie e per il diritto di cittadinanza, quantomeno per gli stranieri nati in Italia che la richiedono. Occorre, infine, portare avanti la lotta per la casa, per l’istruzione pubblica, gratuita, di qualità e la lotta per servizi accessibili anche ai meno abbienti. Tutti aspetti del conflitto sociale generale che vanno unificati in un’unica piattaforma di lotta. La lotta per il salario sociale ha il vantaggio di unire la classe, connettendo molte lotte parziali: da quelle per il salario diretto sui posti di lavoro a quelle nei territori e quartieri proletari, nelle scuole e università per il salario indiretto; da quelle dei pensionati per la salvaguardia del salario differito, a quelle degli immigrati e dei precari in nome di “uguali mansioni, uguale salario, uguali diritti”.
D’altra parte tale lotta, oltre certi limiti, non può andare senza rischiare di divenire controproducente. Non solo perché, come insegna Marx, il salario in una determinata epoca storica è, entro certi limiti, determinato e, dunque, la crescita eccessiva di un settore viene pagata dalla diminuzione del salario in altri, ma in quanto tale crescita finisce per ripercuotersi negativamente sugli stessi settori che godono degli aumenti. Il capitale impiegato in essi o non sarà in grado di riprodursi su scala allargata, soccombendo di fronte alla concorrenza, o dovrà delocalizzare la produzione. Perciò le lotte per il salario debbono mirare a coinvolgere, quanto meno, tutti i lavoratori impegnati in un settore e, tendenzialmente, anche quelli impiegati in altri rami della produzione o nello stesso settore in altri paesi.
Ciò richiede che i sindacati siano legati a un partito che difenda gli interessi della classe nel suo complesso, altrimenti nel sindacato prevarranno, come negli ultimi anni in Italia, rivendicazioni di carattere corporativo. Quest’ultime sono, non a caso, sostenute dall’ideologia dominante, che tende a contrapporre i giovani ai vecchi, i lavoratori autoctoni ai lavoratori immigrati, i lavoratori di paesi a capitalismo avanzato a lavoratori di paesi arretrati, etc. Inoltre la lotta per il salario produrrà tanti più risultati, quanto più le concessioni in tal senso appariranno alla controparte padronale un indispensabile male minore. E infatti, non si è mai verificato che norme e diritti vantaggiosi per la classe operaia siano arrivati per spontanea concessione di governanti “illuminati”, ma solo per la paura della borghesia di perdere il potere. Ecco perché aveva ragione Lenin nel sostenere che non vi sono riforme senza movimento rivoluzionario. In altri termini, la lotta per il salario produrrà tanti più risultati, quanto più le concessioni in tal senso appariranno alla controparte borghese un necessario male minore, ovvero le riforme sono per lo più conquistate da partiti che si danno obiettivi rivoluzionari. La borghesia tenderà, infatti, a concessioni sul piano salariale funzionali a rompere il fronte di lotta, staccando le masse dalle avanguardie, diminuendo la conflittualità sociale dei subalterni.
Paradigmatico, in tale prospettiva, è il caso del sedicente “stato sociale” posto al centro delle rivendicazioni dei subalterni a partire dal socialismo di Stato di Lassalle. Mediante il sedicente welfare state il capitale sottrae ai privati – accollandolo alla fiscalità generale finanziata per il 90% dal lavoro dipendente – l’onere del salario indiretto, con cui è retribuita una parte del valore della forza-lavoro. In tal modo, in primo luogo la più parte dei benefici dello “stato sociale” tende a essere il prodotto di una redistribuzione interna al proletariato del salario, in quanto sono, comunque, gli occupati che sostengono con il loro lavoro i malati, i disoccupati, i pensionati e i giovani in formazione; in secondo luogo lo Stato borghese si presenta così nella forma mistificante, interclassista, di Stato del benessere generale, ovvero welfare state, e l’asocialità dello Stato imperialista, in cui i rapporti di produzione ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, appare come “Stato sociale”.
Dinanzi al sorgere delle Società Operaie di Mutuo Soccorso – le quali avevano l'obiettivo di creare delle prime forme di solidarietà autorganizzata fra la classe operaia – lo Stato borghese (in Italia con la complicità del fascismo che le ha fisicamente distrutte) ha progressivamente cooptato queste forme istituzionalizzandole, assumendo di conseguenza il controllo della loro gestione, universalizzando un passo alla volta i “servizi” erogati. Il punto è capire se, dal punto di vista del proletariato, si tratti realmente di un progresso, oppure di un regresso, o di un rafforzamento della borghesia, che poi è lo stesso. Non a caso a patrocinare la prima realizzazione dello “Stato sociale” è stato un reazionario come Bismarck.
In effetti, se da un lato lo “Stato sociale” ha permesso il costituirsi di una generalizzazione delle forme di sicurezza sociale, dall'altro ha tolto alla classe operaia la spinta materiale – fondata sui bisogni insoddisfatti – e i conseguenti percorsi di lotta che generano coscienza di classe, depotenziando così la stessa capacità dei subalterni di autorganizzarsi. Tale condizione ha creato una contraddizione interna che ha contribuito a porre la classe operaia in posizione subalterna rispetto alle rivendicazioni e alla capacità di esprimere istanze autonome e alternative. Il problema non riguarda tanto l'imborghesimento presunto o reale che ha subito la classe operaia come conseguenza di una diffusione dello Stato sociale, quanto piuttosto l'inibizione di quelle condizioni che inducono alla ribellione, che produce la passivizzazione della classe operaia, attraverso la perdita dell'autonomia organizzativa. Una condizione che ha in parte contribuito a inibire la possibilità di formare una coscienza di classe fondata su percorsi di lotta sviluppati in piena autonomia.
D’altra parte è stata la mancanza di una visione politica di lungo respiro che ha impedito l'amplificarsi e il diffondersi della coscienza di classe fra i proletari. Tanto più che la forma mistificante dello “Stato sociale”, celando la componente indiretta del salario, favorisce la perdita della coscienza di classe su un punto decisivo, ovvero sulla funzione dello Stato, di cui non si riconosce più la natura di classe, ma lo si tende a considerare, idealisticamente, super partes. Con lo “Stato sociale” anche ciò che è dovuto al proletariato nel modo di produzione capitalista, ovvero una parte del valore che produce con il lavoro necessario, indispensabile al suo riprodursi come classe, appare come una concessione dall'alto, una elargizione dello Stato borghese imperialista. Non è un caso che tale prospettiva fosse assente nella concezione liberale classica anglosassone e sia stata introdotta da forme di cesarismo regressivo, come nel caso di Bismark, Napoleone III, Roosevelt e in forme apertamente fasciste in Italia e Germania.