La proposta politica avanzata da Landini è carica di aspettative. L’obiettivo non è banale: uscire, in un sol colpo, dalla crisi del sindacato e dalla crisi della sinistra.
di Dino Greco
Landini ha investito la sua Fiom in un progetto politico? Un po’ sì e un po’ no.
Un po’ sì, perché la “coalizione sociale” della quale si è fatto promotore si pone come diretta antagonista, non solo sociale ma, appunto, politica, del Partito democratico. E di tutto il Partito democratico, non soltanto della sua leadership attuale. Un po’ no, perché la Fiom è un sindacato e le due parti in commedia portano, fatalmente, o alla distruzione del sindacato o all’evaporazione del progetto politico.
Landini lo sa e prova a divincolarsi dalla contraddizione ricorrendo ad un escamotage dialettico, ricordando cioè che il sindacato di classe – almeno nella sua migliore stagione – si è sempre dato un programma fondamentale. Ora, prescindendo dal fatto che quel programma fondamentale, peraltro sbiaditosi alquanto nel tempo, nessuno – neppure nel ristretto gruppo dirigente della Cgil – se lo ricorda più, è noto che il sindacato divenne vero soggetto politico e un potenziale contropotere in una stagione, fra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta, nella quale esso crebbe, in forza e in efficacia, proprio come sindacato. Esso fu cioè immediatamente produttore di politica in quanto l’azione sindacale (e il prestigio sociale che ne derivava, anche oltre la sfera del lavoro dipendente) era talmente vasta e diffusa, nutrita di partecipazione e di uno sviluppo inedito della democrazia, da porsi oggettivamente come una contestazione radicale dei rapporti sociali esistenti.
Oggi, come ognuno sa, la situazione è rovesciata. Il sindacato tocca livelli assai bassi di potere contrattuale, di rappresentatività, di popolarità: tutti i punti di forza, le “casematte” sulle quali esso aveva nel tempo costruito il proprio insediamento sociale e la propria autonomia sono state espugnate: dal contratto nazionale al welfare, passando per la demolizione dei diritti individuali e collettivi dei lavoratori.
Quando l’esangue Camusso contesta a Landini - per usare un gergo antico – una propensione pansindacalista e gli ricorda che il sindacato non è un partito, dice dunque una cosa ovvia, se non fosse che proprio il sindacato è stato ridotto, anche con il personale contributo dell’attuale segretaria della Cgil, ad una povera cosa, ed il suo gruppo dirigente confederale, prodigo solo di schermaglie poco più che verbali, è del tutto subalterno al Pd.
Landini prova dunque l’azzardo, la “mossa del cavallo” con cui dribblare entrambe le impasse: la crisi del sindacato e l’assenza di un’alternativa politica a sinistra dotata di una massa critica.
Ma Landini dovrà scegliere. La “coalizione sociale” può diventare un incubatoio se include – senza preclusioni – gran parte di ciò che si muove nella sinistra antiliberista, se si evitano nuove gerarchie elitarie di stampo leaderistico, se si esce dall’improvvisazione propagandistica per darsi un vero programma politico condiviso. Allora una coalizione con baricentro sull’immenso terreno del lavoro eterodiretto e a cui possono concorrere in vario modo soggetti collettivi e singoli individui può prendere corpo e capacità attrattiva.
Ma a metà del guado non si sta. Altrimenti, diradato il polverone, resta solo la confusione.
Se la cosa non è chiara, se siamo all’ennesimo fuoco fatuo, sarà meglio che Landini e la sua Fiom si dedichino al sindacato (e solo a quello) per mettere in discussione linea politica e gruppo dirigente della Cgil e rilanciare il conflitto sociale. Non si è mai visto vero cambiamento nel disarmo sostanziale delle classi lavoratrici.