Il generale iraniano Qassem Suleimani assedia Tikrit occupata dall’Isis, suscitando le apprensioni dell'Arabia Saudita. Il segretario di Stato John Kerry apre ad Assad, mentre il capo della Cia John Brennan lancia moniti all'Iran per il dossier nucleare e per la presenza in Iraq. Segnali contraddittori che nascondono interessi contrastanti tra gli stessi alleati degli Usa, ma anche la necessità di giustificare gli interventi americani nell’area.
di Stefano Paterna
Un generale iraniano dal nome evocativo e con una vaga rassomiglianza con Sean Connery tiene sotto assedio Tikrit, alla testa di un esercito di 45mila uomini. La presenza di Qassem Suleimani, e per mezzo di lui della Repubblica Islamica, al comando delle forze irachene-sciite nella battaglia per strappare all'Isis la città natale di Saddam, era ed è fonte di inquiteudine e sospetto per molte paia di occhi.
L'ultimo arrivato: il capo della Cia John Brennan ha esplicitamente ammesso il 22 marzo in un'intervista a “Fox News Sunday” che l'attitudine aggressiva del capo delle forze d'elite iraniane e più in generale delle milizie sciite, sta complicando la “guerra” condotta dagli Stati Uniti contro lo Stato Islamico. Brennan è andato anche oltre, affermando che “non considererei l'Iran ora un alleato in Iraq”. Si tratta dello stesso Brennan che ha ricordato come Teheran pagherebbe un costo altissimo e subirebbe conseguenze enormi se proseguisse nella realizzazione di una sua bomba atomica, assicurando che a prescindere da eventuali accordi nei negoziati in corso a Losanna, gli Usa manterrebbero la loro pressione sull'Iran.
Difficile non mettere in relazione queste esternazioni con le crescenti preoccupazioni dell'Arabia Saudita sull'espansione della presenza iraniana in Iraq (ma anche in Yemen e in Siria), espresse all'inizio di marzo dal ministro degli Esteri Saud Faisal direttamente a John Kerry.
Tutte queste preoccupazioni appaiono come il riflesso posticipato di una nuova situazione sul terreno perché il 17 marzo il governo di Baghdad ha in effetti annunciato la sospensione dell'offensiva su Tikrit. Ufficialmente per l'elevato numero di vittime che si stavano provocando. Ma sullo sfondo si delinea la sagoma di un “grande gioco” in versione mesopotamica: solo due giorni prima della sospensione delle ostilità a Tikrit, il segretario di Stato John Kerry aveva esplicitamente ammesso la necessità di negoziare con il presidente siriano Bashar Al Assad (alleato storico dell'Iran) per mettere fine alla sanguinosa guerra civile in corso nel paese dal 2011.
La politica americana nell'area (e dei suoi alleati più o meno recalcitranti) continua a dare l'impressione di una marcata schizofrenia. Uno zig-zag in cui prima si prende Assad come nemico principale in Siria; poi si decide la guerra allo Stato Islamico, ma senza trattare con Damasco; infine, si chiede di trattare con “l'innominabile”.
E così anche sul fronte iracheno: ad agosto 2014 Kerry escludeva l'impiego di truppe americane in Iraq; a settembre il presidente Obama annunciava l'invio di truppe nel paese solo come sostegno alle forze irachene. A febbraio 2015 il medesimo Obama inviava al Congresso Usa una richiesta di autorizzazione all'uso della forza, nell'ambito della campagna militare contro l'Isis in Iraq. Gli osservatori internazionali addebitano queste contraddizioni ai presunti limiti della leadership statunitense o alla complicazione della situazione mediorientale. Tutti elementi che di certo hanno un peso nello spiegare i capovolgimenti di fronte che hanno però una sistematicità assolutamente evidente. C'è del metodo in questa follia.
All'inizio dell'800 inglesi e russi diedero vita per tutto il secolo a quello che fu definito appunto il “Grande gioco”, al fine di accaparrarsi l'Afghanistan tra guerre e continui capovolgimenti di alleanze. La situazione attuale tra il Mediterraneo e il Golfo Persico è diversa perché di grandi potenze mondiali coinvolte ci sono solo gli Usa, ma le complicazioni geostrategiche e i ribaltamenti di fronte non sono assolutamente da meno.
E' pertanto da prendere in considerazione l'ipotesi che al di là del fumo delle dichiarazioni e (purtroppo) delle battaglie vere, ci sia la volontà americana di ritagliarsi uno spazio di presenza costante sul terreno di un'area geografica piena di risorse preziose (gas e petrolio). Se questo è vero, l'Iran nonostante i venti di pace che soffiano da Occidente rimarrà nel mirino dell'imperialismo occidentale. La vittoria di Nethanyau in Israele e le preoccupazioni dei sauditi ci parlano di questo. Forse queste forze non sono disponibili a rinunciare al ruolo oscuro che l'Isis svolge tra Siria e Iraq. Di certo, lo stivale di Suleimani su Tikrit non li fa dormire.
Solo un nuovo protagonismo dei popoli dell'area, sull'esempio dei curdi del Rojava, può scongiurare un allargamento del conflitto. Sitografia:
Sitografia:
Sulle dichiarazioni di John Brennan sul nucleare iraniano:
http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/ nucleare-iran-brennan-diverse-opzioni-usa-per-impedire-bomba-atomica-009ac2f3-69e9-40d6- 9fbe-52da721ce606.html
Sulle dichiarazioni di John Brennan sulla presenza militare iraniana in Iraq:
http:// www.theguardian.com/world/2015/mar/22/leader-of-iranian-force-fighting-isis-is-complicating-us- efforts-says-cia-chief
Sulle preoccupazioni saudite:
http://arabpress.eu/lamerica-e-il-golfo-chi-tranquillizza-chi/58995/#