Per comprendere realmente la guerra, sempre più occultata dalla propaganda, è oggi più che mai necessario considerarla per quello che è effettivamente, cioè per quello che è effettivamente divenuta: un evento sociale totalizzante, di cui occorre analizzare gli effetti che produce sui modi d’essere, sentire e comunicare e nelle sue connessioni con il conflitto sociale, la produzione culturale, economica e politica della società. È, quindi, indispensabile prendere la necessaria distanza critica dalla tenebra dell’immediato, del quotidiano e sviluppare la capacità di risalire al concetto dei fenomeni analizzati. Naturalmente il concetto non può più essere considerato un universale astratto, ma un universale reso concreto attraverso la ricostruzione del suo essere un risultato provvisorio di un certo sviluppo del mondo storico. Perciò comprendere la guerra oggi, come più in generale comprendere ogni altro aspetto significativo della odierna realtà, significa non considerarla, come tende a fare l’ideologia dominante, come qualcosa di completamente nuovo, ma come il prodotto – in qualche modo necessario – del suo peculiare processo di sviluppo. A tale scopo diviene assolutamente indispensabile prendere decisamente le distanze dalle cronache e dai reportage di mera propaganda, spacciati come informazione dai quotidiani in questi ultimi sei mesi, da quando l’imperialismo italiano è entrato di fatto nella guerra civile ucraina in atto da ormai circa dieci anni a seguito della controrivoluzione “colorata” di Maidan, realizzata, come di consueto – dopo la fine della guerra fredda – sotto la supervisione e la regia più o meno occulta dell’imperialismo transnazionale. Al contrario i mezzi di comunicazione di massa fingono di scoprire solo ora le atrocità e la profonda irrazionalità della guerra, che sarebbe il prodotto dell’odio russo per i grandi valori occidentali, quali la democrazia, la libertà e i diritti umani. Così l’imperialismo transnazionale può tranquillamente giustificare il suo intervento a favore dell’integrità nazionale dell’Ucraina proprio mentre sostiene apertamente l’indipendentismo che mina l’integrità nazionale della Serbia e della Repubblica Popolare Cinese, continuando a spargere i semi di un terzo conflitto mondiale [1]. Una terza guerra mondiale che, in realtà, come ha dovuto riconoscere persino il papa, è già in atto attraverso una molteplicità in continua espansione di conflitti apparentemente “locali”, di cui i grandi mezzi di comunicazione tendono da alcuni mesi a illuminare il solo fronte ucraino. Anche perché si tratta del fronte in cui è sempre più direttamente coinvolto l’imperialismo transnazionale in generale e l’imperialismo italiano in particolare, in quanto terreno di scontro con il maggiore competitore internazionale, quantomeno sul piano militare, del suo strapotere acquisito dopo la vittoria nella “guerra fredda”. In effetti, l’imperialismo transnazionale a trazione anglo-americana ha preparato nel modo più accurato la trappola in cui è caduta, colpevolmente, in modo diretto la Russia, in modo indiretto l’imperialismo europeo a trazione franco-tedesca. Una volta che la Russia è caduta nel clamoroso errore di farsi carico del ruolo, destinatole dall’imperialismo con continue provocazioni e minacci, di paese invasore e occupante, presunto principale responsabile della situazione di conflittualità internazionale, l’imperialismo italiano non ha perso un momento a presentarsi come il più fervente sostenitore della politica guerrafondaia anglo-americana all’interno della “vecchia Europa”. Con il governo di unità nazionale capeggiato da Draghi e con il pieno supporto dell’unica significativa opposizione parlamentare il nostro paese ha cercato di rivendicare la propria tradizione di maggiore sostenitore dell’imperialismo transnazionale a trazione anglo-americana attraverso lo strumento rilanciato in grande stile del Patto atlantico. La Nato – entrata seriamente in crisi a seguito della politica unilaterale e particolarmente irrazionale dell’imperialismo statunitense a guida Trump – è stata rianimata e ulteriormente espansa dalla politica di crociata umanitaria delle democrazie contro i totalitarismi, politica rilanciata su larga scala sotto la direzione “democratica” di Biden. Tutto ciò ha favorito l’affermazione di un pensiero sempre più unico, sul piano internazionale e nazionale, volto a mistificare le reali cause, in primo luogo strutturali, della guerra.
Ma torniamo alla dimensione progressivamente totalizzante che è venuta assumendo la guerra, sempre più globale nella nostra epoca, che ha le sue origini al livello internazionale nella dissoluzione dell’Unione Sovietica e a livello nazionale nello scioglimento del Partito Comunista Italiano. Lo scenario antitetico a ogni forma di multilateralismo che si è prodotto sul piano internazionale ha favorito il progressivo sfumare del confine tra sfera militare e civile, tra combattenti e non combattenti, attraverso la mobilitazione delle energie economiche e intellettuali della società e l’impiego intensivo di tecnologie di distruzione. Perciò oggi si corre il rischio, più che mai, di una guerra totale, innanzitutto per la totalità dei mezzi impiegati, che rischia di assumere sempre più una dimensione totalizzante in quanto sembra non conoscere e rispettare più limiti di ordine giuridico o morale. Il concetto di guerra totale designa, in primis, una tipologia di lotta armata nella quale l’intera economia nazionale e occidentale è impegnata fino all’ultima risorsa materiale e umana.
I conflitti odierni sono sempre più caratterizzati dalla guerra aerea e asimmetrica per cui i tradizionali teatri di guerra e istituti giuridici come l’occupatio bellica perdono quella centralità che il diritto internazionale loro assegnava, con il conseguente venir meno di un insieme di garanzie dello jus in bello che si riferivano alla distinzione tra combattenti e popolazione civile. La guerra totale mondiale è, prima di ogni altra cosa, dal punto di vista geopolitico, una guerra tra potenze che esercitano la loro sovranità su grandi spazi. Solo l’impiego di mezzi di distruzione aerei permette la conduzione di un tipo siffatto di guerra, in grado di coinvolgere, con una velocità che non ha precedenti nella storia, l’intero pianeta. Più progredisce la tecnica bellica che rende arduo centrare il nemico, più si tende a colpirlo tagliando le linee di comunicazione e le infrastrutture o a demoralizzarlo colpendone e l’apparato produttivo. Come è stato teorizzato da un eminente teorico della guerra totale: "la grande offensiva non deve esercitarsi sulle truppe avversarie, le quali sono difficili da colpire e possono ripararsi; la grande offensiva aerea deve esercitarsi a tergo, nelle linee di comunicazione dell’avversario, là dove l’avversario non ha mezzo di ripararsi; là dove l’offesa ha la massima efficacia" [2]. Si tratta di una tecnica di combattimento sperimentata per la prima volta su larga scala anche nel continente europeo mediante la blitzkrieg (guerra lampo) nazista, un modello che ha in seguito assunto il ruolo di stella polare per ogni nuova aggressione militare imperialista.
Queste considerazioni mostrano come, paradossalmente, la guerra combattuta sul fronte ucraino sia la meno tipica e la più distante fra quelle in atto negli ultimi decenni da questo modello e, quindi, dalla dimensione totalizzante che ha assunto la guerra sul piano internazionale. Nonostante il ruolo di “cattivo” che ha sconsideratamente assunto la Russia nella fase attuale del conflitto ucraino – per quanto miopi possano essere gli attuali dirigenti liberisti del paese, degni e designati eredi di Eltsin – non può che essere chiaro anche a loro che l’attuale guerra non si trasformerà in un secondo Afghanistan (come vorrebbero le potenze imperialiste, già principali registe a distanza del primo Vietnam russo) solo nella misura in cui i russi saranno in grado di tenere testa nella lotta per l’egemonia sulla posizione russofona agli sciovinisti ucraini, che non a caso hanno come stella polare il nazista Bandera. Da qui gli aspetti apparentemente irrazionali e retrò che ha assunto (agli occhi degli osservatori e analisti “occidentali” – termine propagandista utilizzato per non dire filoimperialisti) il modo di condurre la guerra dell’esercito russo. Quest’ultimo (per quanto pessimamente e sciovinisticamente diretto dall’attuale classe dirigente russa, la quale, ancora fino alla terribile provocazione prodotta dal colpo di Stato di Maidan, era a ragione considerata come filo occidentale e come principale ostacolo al ritorno al governo dei comunisti) non può certo portare avanti una guerra totale in cui tendono a venir meno le classiche e necessarie distinzione tra militari e civili. In effetti, più i nazionalisti russi colpiscono i civili ucraini e più contribuiscono a fare, di quello che storicamente è stato il loro principale partner e alleato, un nemico mortale, proprio secondo il copione che le potenze imperialiste hanno sempre cercato d’imporre. Naturalmente la non distinzione tra civili e militari non può, nel modo più assoluto, essere praticata anche dai più miopi nazionalisti e sciovinisti russi nei confronti della popolazione russofona dell’Ucraina, la più grande e importante minoranza del paese, potenzialmente filorussa. Non a caso il governo ucraino – sempre più filoimperialista e filoccidentale, altro brillante risultato della miope posa nazionalista e sciovinista della classe dirigente russa – ha finito con il mettere in atto la deportazione forzata della popolazione civile russofona dai territori in procinto di essere occupati/liberati dalle milizie indipendentiste o dall’esercito russo. Si tratta di quella stessa pratica di deportazione di civili su base etnica, tanto vituperata quando fu utilizzata in Unione Sovietica come misura eccezionale per poter tenere testa alla grande invasione a sorpresa del più grande e potente esercito della storia messo in campo dai nazi-fascisti e dai loro alleati.
Note
[1] Del resto, anche l’unico quotidiano italiano che si propone di contrastare il pensiero unico e che è rimasto relativamente indipendente, in quanto cooperativa, dai poteri forti, intende sempre più il suo essere radicale non in senso marxiano, cioè come necessità di risalire alla radice concettuale degli eventi, ma come radicalizzazione dell’ideologia dominante.
[2] Douhet, Giulio, Scritti inediti, Scuola di guerra aerea, Firenze 1951, p. 118.