Un tratto caratteristico delle guerre contemporanee, delle guerre calde post guerra fredda, è certamente la demonizzazione dell’avversario, che tende a rendere permanente la mobilitazione bellica e a normalizzare il conseguente stato d’eccezione. In altri termini, questa compiuta ostilità rende più accettabile la guerra permanente che porta con sé la normalizzazione della sospensione dell'ordine giuridico. Dunque, lo stato d’eccezione, che eravamo abituati a considerare una misura provvisoria e straordinaria, sta oggi diventando sotto i nostri occhi un paradigma normale di governo, che determina in misura crescente la politica sia estera sia interna degli stati. Quando lo stato di eccezione tende a confondersi con la regola, le istituzioni e gli equilibri delle costituzioni democratiche non possono più funzionare e lo stesso confine fra democrazia e totalitarismo tende a sfumare. In effetti, nella politica interna degli stati belligeranti dalla logica della guerra globale sorge la mobilitazione politica totalitaria che mette sempre più pesantemente in discussione le tanto sbandierate “democrazie” occidentali.
Così, ad esempio, in nome della guerra globale al terrore si sono varate leggi restrittive in materia di ordine pubblico e si è al contempo rafforzato il potere esecutivo a discapito dei parlamenti, si sono potenziati i servizi di sicurezza e di intelligence, sempre più invasivi della privacy dei cittadini. Le nuove leggi che sono state prontamente varate su ordine pubblico e custodia dei dati personali, il potenziamento di polizie e servizi di intelligence, i rastrellamenti di "extra-comunitari", le riforme istituzionali che rafforzano i poteri governativi e le tendenze plebiscitarie in che misura possono essere giustificate in nome della lotta contro il "terrorismo internazionale"?
Perciò la guerra è oggi un evento sociale totalizzante da analizzare nell’influenza che esercita sui modi d’essere, sentire e comunicare. Tanto più che, a partire dalla guerra del Golfo, i conflitti sono entrati nelle nostre case grazie ai mass-media, contribuendo così a mutare il modo di “sentire” non solo delle popolazioni che le vivono, ma anche di chi ne è spettatore.
Del resto, per poter agire indisturbato l’apparato militare industriale ha sempre più bisogno del consenso dell’opinione pubblica, mediante la riformulazione in termini accettabili o almeno poco visibili di azioni eticamente problematiche, per chi la guerra la segue da casa dalle immagini televisive dai notiziari e dagli articoli di giornale. Il dominio militare porta con sé il dominio sul linguaggio, sulle menti e sui discorsi, cioè è funzionale alla creazione o al mantenimento del consenso dell’opinione pubblica e al controllo del senso comune, dell’orizzonte di senso entro cui percepire il reale. La guerra si combatte anche con le parole e per le parole, di cui chi vince ha il privilegio di stabilire il significato dominante e trova ovunque legioni di zelanti discepoli. Pensiamo, ad esempio, al significato da dare a termini chiave come “terrorismo”, “totalitarismo” e/o “democrazia”. Perciò si suol dire che la prima vittima della guerra è un’informazione imparziale e il peggior effetto collaterale è l’informazione sempre più embedded.
La cosiddetta lingua prodotta dal linguaggio collaterale agli eventi bellici contemporanei è, perciò, una lingua che svela – o meglio ribadisce – il suo ruolo di insostituibile alleata della guerra in alcuni dei suoi presupposti indispensabili: innanzitutto la trasformazione dell'”altro” in “nemico”. Anche perché chi oggi insieme al controllo militare pretende di avere il controllo sull’informazione dispone di mezzi potentissimi: il Pentagono, ad esempio, già venti anni fa aveva a disposizione un budget di 655 milioni di dollari per influenzare l’opinione pubblica.
Sempre più spesso le armi di distruzione di massa vanno a braccetto con le armi di distrazione di massa. Per cui la copertura offerta dai grandi mezzi di comunicazione sulle guerre contemporanee è stata sempre più fallimentare, fatta com’è di titoli strillati in prima con notizie false, di storie scomode trascurate, e così via. La guerra è sofferenza e distruzione, per cui, ricondotta alla cruda nudità del suo maleficio, in quanto tale è rigettata da ogni pensiero razionale, condannata da ogni coscienza morale. Il conflitto si nutre però di visioni, discorsi, narrazioni in grado di forzare la nostra consapevolezza, attingendo a pulsioni profonde e ingovernabili: il bisogno di "autenticità", che porta a contrapporre (e preferire) l'esperienza esaltante e inebriante della guerra alla banalità, al vuoto e all'insulsaggine della vita quotidiana. Si tratta di pulsioni che fanno parte, normalmente o in determinate situazioni, della stessa struttura psichica dell'uomo. Si assiste così all’estasi della violenza e alla seduzione irresistibile che deriva dall’illimitato potere di distruggere. Coscienza e cultura costringono a costruire ragioni per giustificare la guerra e, al contempo, per preparare il prossimo campo di battaglia.
In primo luogo abbiamo assistito all’estetizzazione delle sofferenze prodotte dalla guerra, che occulta l’aspetto doloroso della sofferenza mediante un complesso linguaggio visivo che preserva gli effetti da reality. Tale estetizzazione della sofferenza lascia apparentemente inalterato il tono di oggettività e imparzialità del messaggio, ma in realtà trasmette un messaggio subliminale a favore della guerra. Si cerca in tal modo di riabilitare l’antico mito di un legame d’amore fra uomini e guerra, dovuto all’attrazione fatale per il rischio e la gloria, nel perenne equilibrio fra eros e thanatos. Il fascino della guerra è per molti aspetti un prodotto artificiale, un mito che viene costruito ad arte dalla stampa, dallo stato, dagli intellettuali e che è quasi sempre alimentato, al prezzo di menzogne e amnesie collettive, dalla peste del nazionalismo o, più in generale, dall’invenzione di una “causa” a cui tutto dovrebbe essere sacrificato.
Occorre interrogarsi sulle plurime transazioni tra la parola e la violenza organizzata, sul ruolo della comunicazione nella genesi, nello sviluppo, e nella conclusione dei conflitti armati. Sarebbe necessario, inoltre, riflettere sul circolo vizioso di perversione e di morte che viene scatenato dall'esperienza del combattimento o dal compito di eseguire violenze e di uccidere; alle conseguenze devastanti che discendono, in guerra, dal collasso di qualsiasi universo morale; oppure ancora, e più in generale, all'eterno braccio di ferro tra Eros e Thanatos.
Un discorso analogo vale anche per le rappresentazioni artistiche o presunte tali della guerra. Le rappresentazioni artistiche della guerra sono centrali dall’Iliade all’Odissea ai poemi cavallereschi, fino a giungere al David di Michelangelo, arrivando a Guernica di Picasso e continuando sino ad arrivare ai nostri giorni. Se nei prodotti dell’industria culturale tende a prevalere un’immagine edulcorata del conflitto, che tende a estetizzarlo, se non a renderlo attraente, vi sono opere d’arte anche di massa, come i film di Spielberg, De Palma e Bigellow che ne indagano e mostrano anche gli aspetti più drammatici, che l’informazione mainstream tende a celarci. Al contrario vi sono altri prodotti che sebbene presentati come cinema d’autore, favoriscono oggettivamente l’estetizzazione della guerra e del combattimento che li rende paradossalmente “belli”, come nel caso emblematico di Apocalypse now.
D’importanza decisiva è perciò un sistema di comunicazione – tra vecchi media, come la stampa, la radio, la televisione, e nuovi media, come Internet e il cellulare – pervasiva nei mezzi, nei linguaggi e stili che riesce a mobilitare, in grado di filtrare e modellare la percezione degli eventi bellici.
Le immagini di morte della guerra, manipolate in vista della spettacolarizzazione da media compiacenti, si sono progressivamente trasformate in armi a disposizione di quello che è stato definito il complesso militare-visuale per la costruzione di un immaginario bellico planetario. A questo riguardo si è parlato di complesso mediatico-industriale, i cui protagonisti sono di dimensioni sempre più grandi ed esercitano un potere sempre più invasivo e diffuso a livello planetario, si pensi a tal proposito all’impero mediatico di Murdoch. Gli esperti andati in onda nei paesi occidentali per discettare sulle guerre contemporanee, sono in minima parte critici o contrari alla guerra. Limitandosi agli Stati Uniti siamo molto al di sotto anche del 3% di esperti contrari alla guerra che erano stati ospitati in televisione ai tempi della guerra del Vietnam.
La stessa interpretazione della storia diviene così un micidiale instrumentum regni, uno strumento nelle mani dei vincitori atto a fondare storicamente il loro dominio, cioè a trasmettere l’immagine del loro dominio che vogliono mediare e la dimostrazione della loro presunta superiorità. Fu Napoleone il primo a formulare esplicitamente il progetto di dirigere monarchicamente l’energia dei ricordi, proponendo la storia come instrumentum regni. La prima, la più formalmente coerente con la storia monarchica napoleonica, è la tendenza a rintracciare nella storia la conferma dell’immagine che la società attuale (più precisamente le sue classi dominanti) intende dare di se stessa.
Per il controllo dell’opinione pubblica ci si serve oggi del perception management (gestione della percezione), mediante cui l’apparato militare, sempre più indissolubilmente legato all’industriale, mira ad influenzare la percezione degli eventi. Si tratta di una strategia esplicitamente professata: la nuova dottrina dell’aviazione Usa, ad esempio, si propone esplicitamente l’obiettivo di “influenzare la percezione degli eventi, facilitare la comprensione da parte dell’opinione pubblica, orientare il dibattito pubblico”. Dietro la notizia non ci sono soltanto i fatti, ma anche l’ideologia. È l’ideologia condivisa che rende spesso così simili tra loro i titoli dei giornali su determinati argomenti. Così, ad esempio, se i mass media aprono su una “notizia” guerrafondaia, per quanto assolutamente inverificabile, i giornalisti di redazioni più piccole che faranno? Rischiano di bucare la notizia del giorno o si affrettano a proporla a loro volta come immagine di copertina? Da un punto di vista di etica dell’informazione la scelta dovrebbe essere ovvia: una notizia non verificabile non dovrebbe venir pubblicata, tanto meno in prima pagina. In realtà, però, succede il più delle volte l’esatto contrario, in quanto il fatto che tutti i grandi mezzi di comunicazione mettono in evidenza una notizia non verificata copre gli editori più piccoli nel momento in cui risulterà evidentemente inattendibile.
L’informazione è oggi tramite (e amplificatore) dell’ideologia dominante. Cosa significa questo in concreto? Che essa si basa sui luoghi comuni e sui cliché dominanti, sulle metafore influenti oggi egemoniche – e li rende ancora più dominanti e più influenti. La guerra è presto stata considerata il più significativo evento mediatico contemporaneo, anche se il fatto storico vissuto in diretta più che la guerra in quanto tale è stato certamente la sua spettacolarizzazione. In effetti la guerra in diretta è sempre meno vincolata alle regole del giornalismo e sempre più assoggettata alle leggi dello spettacolo.