Crisi climatica, quel che non ci dicono

La crisi ecologica in atto, tale da mettere in pericolo la vita sul pianeta, non può essere affrontata senza la consapevolezza che il modello di produzione capitalista, egemone nel mondo, ne è strutturalmente la causa. Pertanto solo il superamento di quel modello produttivo basato sulla sfruttamento dell’uomo sulla natura e dell’uomo sull’uomo può prospettare una via d’uscita da questa crisi.


Crisi climatica, quel che non ci dicono

Il periodo che stiamo vivendo è caratterizzato da una profonda crisi ecologica [1], che è il risultato della devastazione delle matrici vitali e dell’alterazione antropica dei cicli biogeochimici con effetti profondi sul piano ambientale e sanitario, socioeconomico e geopolitico ai vari livelli della scala spaziale. Il riscaldamento globale, che è uno dei fattori più importanti della crisi ecologica, indica in climatologia il mutamento del clima terrestre caratterizzato in generale dall’aumento della temperatura media globale e da fenomeni atmosferici a esso associati (per esempio, incremento di fenomeni estremi legati al ciclo dell’acqua quali alluvioni, siccità, desertificazione, scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello degli oceani, e modifiche ai pattern di circolazione atmosferici con ondate di freddo, fenomeni ciclonici più intensi ecc.).

Fin dai primi studi [2] sui cambiamenti climatici in atto nei primi anni Sessanta, emerge come causa principale dell’aumento delle temperature medie mondiali la massiccia emissione di gas serra provenienti dalla combustione o immissione di idrocarburi fossili nell’atmosfera, a partire dalla rivoluzione industriale agli inizi del secolo. Emissioni, e di conseguenza temperature, che aumentano sempre di più negli anni, con lo sviluppo e la produzione di merci, fino a divenire massime e spaventosamente preoccupanti al giorno d’oggi, in cui il capitalismo è diventato egemone nelle società umane. Per fare un esempio, l’anidride carbonica in atmosfera viene attualmente stimata, in media, in 413 parti per milione; si tratta di una concentrazione che non si registra da almeno 650mila anni [3].

La comunità scientifica è concorde unanimemente nell’indicare come responsabili della crisi climatica le attività umane, in particolare oltre l’incremento dei gas serra nell’atmosfera, gli stravolgimenti della superficie terrestre come la deforestazione, lo sviluppo delle monoculture e degli allevamenti intensivi, le emissioni di aerosol tossici nell’aria da parte delle industrie ecc.

I giovani che riempiono le piazze mondiali del Fridays for Future manifestando per la salvaguardia del loro futuro e del pianeta Terra stanno assumendo chiaramente la consapevolezza che queste attività sono conseguenze inevitabili del sistema di produzione capitalistico, che diviene quindi causa prima delle crisi ambientali in atto. È infatti sotto gli occhi di tutti come il capitalismo con la produzione illimitata di merci, necessaria per il suo sostentamento, è totalmente incompatibile con le risorse limitate del sistema Terra.

Differentemente, altri diversi analisti o giornalisti (anche sedicenti di sinistra) seppur criticando il capitalismo sfrenato, imputano in modo del tutto astratto le responsabilità al genere umano, accettando quindi implicitamente l’impossibilità di questo a sviluppare un sistema di produzione differente, pianificato e non basato sui profitti e sullo sfruttamento dei lavoratori e delle risorse naturali. La crescita esponenziale della popolazione mondiale dell’ultimo secolo diventa quindi la causa prima del riscaldamento globale, lasciando spazio in questo modo anche a soluzioni neomalthusiane, prive di ogni scientificità. Ma le persone non “inquinano” tutte allo stesso modo. Sono gli Stati produttori di merci a immettere più carbonio nell’aria, e i paesi più ricchi e a capitalismo avanzato ad avere un’immissione pro capite più alta. Gli studi sulla Global carbon emissions inequality [4], stimano come l’1% più ricco della popolazione mondiale è responsabile del 16% delle emissioni globali di carbonio, oppure come solo un decimo della popolazione, quella più ricca, è responsabile della metà delle emissioni globali, oppure ancora come il 50% più povero emette appena il 12% del totale. (L'impronta di carbonio di ogni persona include le emissioni dei consumi domestici, gli investimenti pubblici e privati così come importazioni ed esportazioni di carbonio incorporato in beni e servizi scambiati con il resto del mondo).

Attualmente le organizzazioni intergovernative che si occupano di cambiamento climatico sono i gruppi di lavoro più importanti e titolati a livello internazionale. L’ IPCC (Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) è un foro scientifico formato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM) e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), allo scopo di studiare il riscaldamento globale [5].

Attualmente è organizzato in tre gruppi principali di lavoro:

- il gruppo di lavoro I si occupa delle basi scientifiche dei cambiamenti climatici;

- il gruppo II si occupa degli impatti dei cambiamenti climatici sui sistemi naturali e umani, delle opzioni di adattamento e della loro vulnerabilità;

- il gruppo di lavoro III si occupa della mitigazione dei cambiamenti climatici, cioè della riduzione delle emissioni di gas a effetto serra.

I “rapporti di valutazione” periodicamente diffusi dall’IPCC sono alla base di accordi mondiali quali la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e il Protocollo di Kyōto, che l'attua. L’IPCC non svolge direttamente attività di ricerca né di monitoraggio o raccolta dati: l’IPCC fonda le sue valutazioni e i suoi scenari principalmente su letteratura scientifica pubblicata in seguito a peer review e sui rapporti e dati forniti delle maggiori istituzioni mondiali. L’esperienza dell’IPCC è innegabile e molto preziosa quando si tratta di valutare i fenomeni geofisici e costruire modelli predittivi. Il merito principale è stato quello di riuscire a descrivere in modo organico e rendere noto all’opinione pubblica internazionale attraverso prove scientifiche schiaccianti, il cambiamento climatico in atto e le sue catastrofiche conseguenze a breve termine sulla vita nella terra.

Tuttavia le proposte dal terzo gruppo di lavoro dell’IPCC alle istituzioni mondiali sulle possibili strategie di stabilizzazione e contenimento sono distorte e difficilmente percorribili. Il contenuto del rapporto SR15 (Global Warming of 1.5°C) [6] svela attraverso simulazioni computazionali basate su dati scientifici certi le differenze sostanziali che si avrebbero limitando il riscaldamento a 1,5 °C (rispetto ai livelli preindustriali dalla metà del 1800) anziché mantenere il trend attuale valutato sui 2°C. Inoltre fornisce in maniera molto dettagliata le strategie da mettere in atto in tutti i settori, cambiamenti rapidi, di vasta portata e senza precedenti in diversi aspetti della società (550 pagine elaborate da 91 esperti provenienti da 40 paesi con oltre 6.000 referenze scientifiche citate e 40mila osservazioni). 

Purtroppo le proposte, rivolte ai politici internazionali, non minano alla base né mettono in discussione il sistema di produzione capitalistico, sebbene in alcuni casi siano incompatibili e in contraddizione con lo sviluppo storico di un sistema come questo basato sui profitti illimitati. Basti considerare che tutti gli accordi di contenimento presi tra gli Stati ad oggi non hanno prodotto nessuna mitigazione sul trend d’innalzamento delle temperature globali, che stanno portando inesorabilmente il sistema Terra a un punto considerato come di non ritorno. 

I limiti delle fonti energetiche alternative ai combustibili fossili sono ampiamente dibattuti e meriterebbero una trattazione a parte e le proposte di sviluppo sostenibile messe in campo hanno dato risultati opposti a quelli ipotizzati e sbandierati. Per esempio la strategia di bioeconomia messa in campo dall’UE è, ed è stata, fondamentalmente sostenuta dall’urgenza produttivistica delle imprese di sostituire le risorse fossili (petrolio e carbone) con risorse energetiche alternative basate principalmente sulla combustione di biomasse, di molto dubbia sostenibilità ambientale. Questa cruciale sostituzione sarebbe stata diluita nella narrazione di ricerca di soluzioni alle crisi ambientali globali. Ma recenti studi hanno messo in luce le conseguenze e i rischi futuri, sia a livello delle economie locali dei paesi periferici dell’UE sia in termini ambientali, di questa presunta economia verde che presenta forti contraddizioni rispetto agli stessi obiettivi che si pone, essendo essa stessa fondata sull’ossimoro della crescita sostenibile e sul paradigma riduzionista e tecnocentrico del superamento di ogni limite allo sviluppo [7]. Se calcoliamo quante volte la parola sviluppo sostenibile è citata nei lavori delle riviste scientifiche internazionali, queste sono andate crescendo esponenzialmente negli ultimi 20-30 anni con una curva che ha una forte correlazione con la curva della crescita delle emissioni di gas serra; una correlazione statistica e non di causa-effetto ma che rende bene l’idea di come l’esperienza dello sviluppo sostenibile sia del tutto fallita. Considerando che al mondo ci sono tanti bisogni essenziali non soddisfatti, è necessario ragionare su come modificare qualitativamente la produzione piuttosto che sulla crescita sostenibile fine a se stessa. La produzione di beni necessari al soddisfacimento dei bisogni non effimeri e in grado di determinare anche una crescita culturale e civile di tutti a scapito delle produzioni di lusso o di merce utile unicamente ad aumentare i profitti, di pochi.

A questo punto è necessario chiarire che tutti i dati sin qui riportati, sia quelli sulle principali attività umane responsabili del riscaldamento globale sia quelli del Global carbon emissions inequality nonché quelli alla base delle strategie di contenimento forniti dalle organizzazioni intergovernative e accessibili a tutti, sono incompleti e non ci aiutano a comprendere fino in fondo come il capitalismo sia la radice del problema. Il capitalismo richiede una potente industria militare per i suoi processi di accumulazione e imposizione del controllo sui territori e sulle risorse naturali, nonché tenta di risolvere le sue crisi strutturali con le guerre: ma il contributo della macchina della guerra al riscaldamento globale è celato, non viene calcolato. Attualmente, a causa dell’esistenza di una serie di norme internazionali, gli Stati non forniscono dati agli organi intergovernativi come l’IPCC sulle emissioni di gas serra o sull’acquisto e consumo di carburante dell’apparato militare. In alcuni lavori o report è presente la voce “military” ma ci si riferisce unicamente agli impatti dei militari impiegati all’interno dei confini nazionali e per la pubblica difesa. L’ultimo report dell’IPCC (Climate Change 2022: Mitigation of Climate Change) [8] di oltre 1.700 pagine, ancora in fase di studio da parte dello scrivente, cita la parola military e war appena 5 volte. Le rotte o gli spostamenti internazionali, le missioni all’estero non vengono mai calcolate. Fu il vicepresidente Al Gore e il suo staff nel 1997 a Kyoto a spingere a esentare dal Protocollo e da qualsiasi decisione in materia di emissioni (comprese le azioni di mitigazione) tutte le attività militari all’estero, inclusi gli spostamenti internazionali e le operazioni multilaterali. Protocollo che poi non fu ratificato comunque dagli Stati Uniti d’America, ma la norma piacque alla maggioranza degli Stati membri. Anche l’attuale Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (UNFCCC) non impone nessuna obbligatorietà sulla fornitura di dati delle emissioni di CO2 della macchina da guerra dei paesi imperialisti [9], dalla produzione delle armi e delle munizioni, la costruzione e manutenzione di basi militari, il trasporto aereo-spazio-navale, fino allo scoppio e distruzione di manifatture e di esseri umani. Per conoscere il contributo della macchina da guerra sul cambiamento climatico è necessario riferirsi a lavori di scienziati [10] [11] e organizzazioni indipendenti (come il CEOBS, il Concrete Impacts oppure Scientists for global responsibility ecc.) che fanno stime e ricostruzioni basandosi su dati difficilmente reperibili e resi noti in modo non organico dagli enti produttori di armi o dagli Stati. Infatti, semplicemente analizzando i pochi dati messi a disposizione dai governi si possono immaginare gli scenari e la portata del problema. Dal grafico di seguito si evince come nel 2016 il Pentagono (DoD) sia stato di gran lunga il principale ente consumatore d’energia del governo degli USA e probabilmente il maggior ente produttore di gas serra nel mondo [12].

Un recente studio [13] ha valutato le emissioni di gas serra dell’apparato militare globale attraverso la stima del costo energetico del personale militare, sia esso di Stati imperialisti o neutrali, di stanza o in missione, considerando i trasporti e le filiere. È stimato (su dati antecedenti alla guerra in Ucraina) che il settore militare emette circa 2.750 Mt di CO2 all’anno; tanto per avere un’idea del dato: se fosse stata una nazione l’apparato militare sarebbe stata al quarto posto dei paesi più inquinanti (dopo Cina, USA e India), con emissioni superiori a quelle dell’intera Russia. Gli autori ci tengono a precisare che le loro stime sono molto conservative già solo per il fatto che non tengono conto delle conseguenze dello scoppio delle munizioni o bombe: morte, distruzione di infrastrutture, inquinamento dei territori eccetera fino al pericolo nucleare che potrebbe determinare già di per sé un pianeta inospitale alla vita umana. Tuttavia queste ci danno un quadro abbastanza chiaro dell’entità dell’impatto dell’apparato militare sul clima, un ordine di grandezza molto diverso da quello presentato dalle organizzazioni intergovernative che poi elaborano i suggerimenti ai governi per contenere le emissioni. L’aumento della spesa militare a livello mondiale – per esempio l’Italia vorrebbe arrivare a spendere il 2% del PIL entro il 2028 ossia circa mezzo punto percentuale in più rispetto a oggi – oltre a preoccuparci direttamente per la possibile espansione dei conflitti, ci mostra la totale non volontà dei governi di impegnarsi minimamente per la salvaguardia del pianeta.

In questo contesto decisamente preoccupante abbiamo bisogno di mettere insieme tutti i nostri saperi e le nostre capacità per costruire un’alternativa reale. Se non vogliamo essere fatalisti e considerare irreversibili i pericolosissimi processi ambientali in atto, né tantomeno nascondere la testa sotto la sabbia ed eludere questo problema fondamentale per la sopravvivenza e lo sviluppo del genere umano, è fondamentale affrontare la crisi ambientale a partire dal modello produttivo, dall’organizzazione sociale della produzione e da come quest’ultima si intreccia e condiziona l’organizzazione politica degli uomini, dagli Stati alle entità sovranazionali. Esercitare una critica razionale a questo modello, ragionare sulle cause profonde che determinano la crisi ecologica, elaborare soluzioni credibili. Soluzioni che a nostro modo di vedere devono passare necessariamente per la fine del modello produttivo capitalista e per la soluzione immediata di tutti i conflitti. L’imperialismo è, come abbiamo visto, totalmente incompatibile con la vita sulla terra

Abbiamo la necessità di ridistribuire le risorse del pianeta, perché è impossibile parlare della fine dello sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali senza parlare della fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Dobbiamo impegnarci e lottare per costruire un sistema socioeconomico basato sulla pianificazione e cooperazione internazionale, dove la programmazione di cosa produrre e di come produrlo siano scelte fondamentali frutto di un intellettuale collettivo.
Possibile che riusciamo a immaginarci la possibilità di crisi ambientali antropogeniche tali da mettere in discussione la vita stessa sulla Terra e non riusciamo a immaginarci la possibilità di un cambiamento radicale delle società umane?

 

Note:

[1] Ci si riferisce all’accezione etimologica del termine, quindi che comprende anche la sua componente sociale oltre quella ambientale.

[2] Charles D. Keeling, The Concentration and Isotopic Abundances of Carbon Dioxide in the Atmosphere, in “Tellus”, vol. 12, n. 2, 1960, pp. 200–203, Bibcode:1960.

[3] Provisional State of the Global Climate in 2022 | World Meteorological Organization

[4] Global carbon inequality in WORLD INEQUALITY REPORT 2022.

[5] About — IPCC.

[6] An IPCC Special Report on the impacts of global warming of 1.5°C.

[7] A cura di M. Cervo; La strategia di bioeconomia è sostenibile? Territori, impatti, scenari., 256 pp SdT edizioni (2022) .

[8] https://www.ipcc.ch/report/ar6/wg3/downloads/report/IPCC_AR6_WGIII_FullReport.pdf 

[9] The Military Emissions Gap.

[10] Neta C. Crawford, Pentagon Fuel Use, Climate Change, and the Costs of War, Boston University (2019).

[11] Tamara Lorincz, Demilitarization for Deep Decarbonization: Reducing Militarism and Military Expenditures to Invest in the UN Green Climate Fund and to Create Low-Carbon Economies and Resilient Communities (2016); International Peace Bureau 

[12] U.S. Energy Information Administration, “U.S. Federal Government Energy Costs at Lowest Point Since Fiscal Year 2004,” 2 October 2017.

[13] Stuart Parkinson; Estimating the military’s global greenhouse gas emissions (2022).

 

31/03/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

Condividi

Pin It

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

Newsletter

Iscrivi alla nostra newsletter per essere sempre aggiornato sulle notizie.

Contattaci: