I movimenti oscillatori dei cicli produttivi, espansivi in alcuni momenti e stagnanti in altri, inducono, tra le altre cose, trasformazioni e spostamenti della popolazione lavorativa. L’emigrazione con le sue attuali e atroci sofferenze non è una questione di emergenza da gestire, ma un fatto strutturalmente legato al capitalismo.
...chillo 'o fatto è niro niro, niro niro comm'a cche ...
[Tammurrita Nera, di Edoardo Nicolardi]
di Maurizio Donato
Quando le cose per i padroni dell’economia vanno bene – è successo a lungo e ancora periodicamente accade, in luoghi e tempi diversi – allora l’emigrazione è, quando non proprio incoraggiata, almeno tollerata. Naturalmente i padroni dell’economia preferirebbero che a emigrare fossa mera forza-lavoro, non persone in carne e ossa che non avendo altro sono costrette a vendere le proprie capacità di lavorare a (quasi) qualsiasi condizione,ma quando le cose vanno bene, allora sì, è gradita un po’ di forza-lavoro a buon mercato e in quel caso una parte dell’esercito industriale di riserva viene impiegato, e una volta occupato spesso si mette in prima linea nella difesa di salario e diritti. Quando le cose vanno male – e adesso succede sempre più spesso - allora questa quota di popolazione viene respinta indietro, in tutti i sensi. Addirittura pensando a distruggere i mezzi di trasporto di fortuna con cui potrebbe spostarsi.
Nel capitolo 23 del I libro del Capitale Marx intitola un paragrafo Produzione progressiva di una sovrappopolazione relativa ossia di un esercito industriale di riserva. Certo che leggere un termine come sovrappopolazione può essere fastidioso, ma è normale che lo sia. Accade che – a cercare di ridurla all’osso – un macchinario sempre più potente, una tecnologia divenuta molto evoluta perché incorpora molto lavoro morto necessita, finché vigono rapporti sociali di tipo capitalistico, relativamente sempre meno operai. Scrive Marx: “Siccome la domanda di lavoro non è determinata dal volume di capitale complessivo, ma dal volume della sua parte costitutiva variabile, essa diminuirà .. con l’aumentare del capitale complessivo”.
Come a dire che, se pure una ripresa del ciclo ci fosse, e parliamo di cicli positivi considerando lo zero virgola, gli eventuali nuovi investimenti avranno bisogno relativamente (al capitale costante) di meno lavoro necessario rispetto al ciclo precedente, il che significa né più né meno che i livelli di disoccupazione sono destinati a crescere, nei paesi di vecchia più che in quelli di nuova industrializzazione. "Questa diminuzione relativa della parte .. variabile .. appare dall’altra parte, viceversa, come un aumento assoluto della popolazione operaia costantemente più rapido di quello del capitale variabile ossia dei mezzi che le danno occupazioni.. L’accumulazione .. produce una popolazione operaia relativa, cioè eccedente i bisogni medi di valorizzazione del capitale, e quindi superflua ossia addizionale".
Lo sviluppo delle forze produttive imprigionato dalle necessità della sempre più accelerata valorizzazione produce questo risultato: persone perfettamente in grado di lavorare e che potrebbero e vorrebbero contribuire a trasformare la natura con il proprio lavoro che sono però ciclicamente superflue dal punto di vista delle possibilità medie di valorizzazione del capitale. “Ma se una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario dell’accumulazione ossia dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa sovrappopolazione diventa, viceversa, la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni di esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera così completa come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese .. materiale umano sfruttabile sempre pronto”.
Questo quanto accade nei periodi “normali” del ciclo dell’accumulazione. Quando subentra la crisi, la dinamica della valorizzazione subisce un’accelerazione; depressione significa che una parte considerevole del capitale sta fermo, non circola, non si valorizza e questo vuol dire che ce n’è troppo, rispetto alle possibilità di ottenerne un profitto “soddisfacente”. E allora una parte – più o meno grande – del capitale deve essere svalorizzato, distrutto fisicamente, o deprezzato. In realtà queste diverse modalità si presentano spesso assieme, anche se la differenza nella “svalutazione” è cruciale. Per il capitale costante se ne distrugge la sostanza materiale e se ne riduce il valore, il denaro si deprezza fino a rendere interessi nulli o addirittura negativi, i prezzi non crescono più o si riducono, gli stessi debiti – abnormi e non solo e non tanto quelli pubblici – devono essere “svalutati” dando vita a creature psichedeliche come le “bad banks”, ma per quanto riguarda il valore della forza-lavoro le conseguenze sono drammatiche. Salario e occupazione si riducono, tutta l’occupazione regolare diminuisce, impoverendo i lavoratori che vivono nei paesi dominanti e quelli – già più sfruttati - che vorrebbero spostarsi dai paesi dominati dall’imperialismo.
In questo senso si può comprendere la metamorfosi che trasforma il problema dell’emigrazione, cioè l’attuazione pratica del divieto assoluto di emigrare tranquillamente in Europa, in una faccenda di guerra. Distruggendo e ricostruendo (magari qualcosa in più di qualche barcone, ma l’importante è cominciare) qualche nuova opportunità di profitto si crea; teoricamente ci sarebbe profitto anche nel trasporto regolare degli emigranti, ma è utile per il capitale mantenere una fascia “formalmente illegale” nella gestione degli affari per poter giocare sulla falsa dicotomia tra business legale e illegale. In questo modo una operazione in principio “umanitaria” diventa di guerra, cioè economica, travestendosi da “missione di giustizia”, cioè di polizia.
E sapere, capire che tutte queste tragedie, vite umane distrutte o sprecate, non servono a nulla non è una consolazione, piuttosto la sensazione del sacrificio inutile, perché se davvero l’economia capitalistica è entrata in una fase di “stagnazione secolare”, allora nemmeno un aumento notevole, notevolissimo, del tasso di sfruttamento è in grado da solo di far ripartire l’accumulazione di capitale. L’unico elemento positivo – ma dal sapore amaro - è che le condizioni sociali di chi lavora nei paesi di vecchia industrializzazione, lentamente e contraddittoriamente, tendono a convergere con quelle di chi vive nei paesi “emergenti” per effetto della diminuzione di salari e diritti dalle nostre parti e di un aumento (financo ovvio tenendo conto dei lontani livelli di partenza) nei paesi storicamente sfruttati e oppressi dal colonialismo e dall’imperialismo.
Il razzismo è roba di Stati [1], ed è nei confronti dello stato italiano e dell’unione europea che bisogna rivolgere la protesta per come viene gestita la questione dell’emigrazione a partire da come queste istituzioni del capitale rendono impossibile il diritto alla protezione per i richiedenti asilo. Se per ottenere il rispetto dei tuoi diritti non puoi rivolgerti – come sarebbe normale - agli uffici consolari dei paesi europei ma sei costretto a violare la legge o qualche regolamento, essendo poi obbligato a richiedere asilo nel “primo” paese in cui arrivi, questo significa solo che il governo italiano e quelli dei paesi aderenti all’unione europea violano sistematicamente il diritto internazionale alla protezione dei richiedenti asilo.
Sai che notizia.
Note
[1] Pietro Basso ( a cura di), Razzismo di stato. Stati uniti, Europa, Italia, edizione Franco Angeli, 2010. Per un giudizio sul tasso di disoccupazione dei lavoratori stranieri in Italia, si può vedere http://www.internazionale.it/opinione/nicolo- cavalli/2015/05/01/lavoratori-stranieri-colpiti-dalla-crisi