Resoconto del convegno su salario e orario organizzato dal comitato di lotta per il lavoro milanese il 18 aprile scorso. Gli interventi del responsabile di Syriza per le politiche di lavoro, di Gianni Rinaldini di Democrazia e Lavoro e dei precarie e lavoratori in lotta della distribuzione, della conoscenza, bancari e metalmeccanici parlano con la stessa voce per riprendere forza nella contrattazione bisogna mettere al centro la riduzione di orario e il rilancio dei salari.
di Nadia Rosa e Massimiliano Murgo
“La crisi ha significato un’enorme svalutazione delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione greca, con il 40% delle persone che tocca o vive al di sotto della soglia di povertà, allo stesso tempo tuttavia ha rappresentato molto efficacemente un meccanismo di accumulazione capitalistica. Ad esempio il 10% dei greci più ricchi ha aumentato il proprio capitale del 7,5% negli ultimi quattro anni. Così che detiene oggi il 56,1% della ricchezza totale del paese. Le 500 società più redditizie nel 2013 hanno mostrato un utile operativo di 13,2 miliardi di Euro (in crescita del 121%). Tutto questo mentre il reale salario minimo è diminuito negli ultimi quattro anni del 23%. Questo processo di aumento delle disuguaglianze tra le classi nella crisi non rappresenta un paradosso greco. L’esempio della crescita economica tedesca si basa in gran parte su una politica di forte svalutazione del lavoro. I lavoratori tedeschi hanno subìto riduzioni dei salari reali nella misura del 11% durante il decennio 2000-2010. Attraverso l’ampia applicazione di mini posti di lavoro, quasi cinque milioni di salariati sono pagati sotto i 600 Euro mensili.”
Con queste parole il compagno Nasos Iiliopuolus, che si occupa di politiche del lavoro per la segreteria nazionale di Syriza, ha aperto il suo intervento di fronte alla platea di lavoratrici e lavoratori del territorio milanese.
Anche dalla sua testimonianza risulta evidente il consumarsi a livello europeo di uno degli aspetti più feroci del conflitto di classe: da una parte c’è chi sostiene e guadagna dalle ricette capitaliste di questi ultimi anni che hanno come obbiettivo centrale la competitività nei mercati attraverso l’abbassamento dei salari e un aumento di tempo e ritmi di lavoro; dall’altra chi subisce queste politiche ma coniuga il lavoro con il sostantivo “dignità” e che ha come riferimento la piena occupazione ovvero la drastica cancellazione di quell’esercito di disperati costretti ad offrirsi per pochi denari e a qualsiasi condizione di lavoro, nel gioco perverso della concorrenza tra sfruttati.
Ed è a quest’ultima parte del paese che questo convegno ha voluto parlare, proponendo un terreno di necessaria, e non più rimandabile, ricomposizione del movimento delle lavoratrici e dei lavoratori di tutti i settori. Ma non solo: anche tra settori di lavoro e non lavoro, studenti e pensionati, lavoratori immigrati e autoctoni, nell’ottica di riunire quello che decenni di politiche neoliberiste hanno diviso. Con l’obiettivo di attivare un percorso ampio e collettivo che non sia solo di rappresentanza, ma soprattutto di azione.
Se è vero infatti che, come spiegava bene nel suo intervento il coordinatore nazionale dell’Area CGIL Democrazia e Lavoro Gianni Rinaldini, il modello di relazioni sindacali al quale il Governo Renzi aspira è quello americano, è anche vero che “(...)ormai da parecchi anni, in Italia ed in Europa, è in atto una redistribuzione della ricchezza dal lavoro e dalle pensioni al profitto e alla rendita. Ed è in questo quadro che si collocano quelle che vengono pomposamente definite 'riforme di struttura', ma che in realtà lasciando inalterate strozzature di sistema, privilegi e disuguaglianze e colpendo pesantemente solo pensioni, accesso al lavoro e diritti contrattuali quali ad esempio l’orario di lavoro, rappresentano il completamento strutturale di un nuovo assetto sociale, politico ed istituzionale. L'equilibrio tra diritti politici e diritti sociali che ha caratterizzato la storia democratica dei paesi europei del dopo guerra, e che nel nostro Paese ha fondato la stessa nascita della Costituzione Repubblicana, viene travolto.
Le forme e le modalità negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Europa sono ovviamente diverse per storie politiche e contrattuali, per sovranità monetaria e ruolo delle banche centrali, ma sarebbe
miope non cogliere gli aspetti fondamentali comuni, quelli neo-liberisti del mercato, nella fase storica del capitalismo finanziario, assunto come valore assoluto, come regolatore sociale.
Il salvataggio del sistema finanziario a costo di recessione e disoccupazione, è il collante che tiene insieme il sistema delle grandi imprese, le istituzioni finanziarie e i Governi. Da qui deriva una evidente torsione autoritaria, una riduzione e svuotamento della democrazia occupata dalle multinazionali e dalla finanza, come sovranità internazionale. Questa dinamica ha scoperchiato tutti i limiti e le debolezze della costruzione europea, ormai pura identità monetaria senza una comune politica economica e fiscale capace di promuovere sviluppo e valorizzazione dei diritti sociali e contrattuali.”
Sta di fatto che il lavoro è ogni giorno di meno: la riduzione dell’orario “medio” è già in atto da decenni in tutti i paesi avanzati, ma si traduce in una crescente polarizzazione tra sottoccupati e sovraoccupati, con effetti drammatici per entrambi.
La diminuzione dell’orario medio, anziché essere ripartita equamente fra la totalità della popolazione attiva, è il risultato di una netta scissione fra una fascia di lavoratori che lavorano troppo e troppo intensamente e una fascia di lavoratori che lavorano troppo poco o che non lavorano affatto. Così oggi ci troviamo nella situazione in cui la retorica che ci siano dei lavoratori “privilegiati” rispetto ad altri serve soltanto a promuovere e istituzionalizzare il lavoro precario anche per quei lavoratori che precari non lo sono mai stati. Il lavoro si crea e si difende con investimenti e con una seria politica industriale e non con un ennesimo restyling al ribasso delle forme contrattuali.
Pensiamo al Jobs Act che non ha fatto altro che dare una forma giuridica alle continue sconfitte subite dai lavoratori e all’arretramento dell’azione sindacale. Pensiamo alla cancellazione de facto dell’art. 18. Oggi il reintegro in caso di licenziamento illegittimo è rimasto solo nel caso di licenziamenti a calci in culo davanti a testimoni, oppure se si riesce a dimostrare che il datore di lavoro ha inventato tutto di sana pianta. Pensiamo alla nuova indennità di disoccupazione, la NASPI, che riduce considerevolmente rispetto all’indennità di mobilità, il sostegno al reddito previsto fino ad oggi in caso di licenziamenti collettivi ed individualizza il trattamento economico di indennità di disoccupazione. Ci vorrebbero dunque soli, ricattabili, precari e malpagati.
A questo proposito Miguel Seclen, attualmente disoccupato ed ex lavoratore Esselunga in prima linea nelle lotte dei lavoratori della Grande Distribuzione, risponde nel suo intervento con un esplicito invito all’unità delle lavoratrici e dei lavoratori, che ritiene essere l’unica via per ribaltare i rapporti di forza che il capitalismo ha determinato e che hanno portato a decenni di continue sconfitte, massacrando chi vive del proprio lavoro.
Lavoratori del settore della conoscenza, comunicazione, sanità, metalmeccanici, bancari e studenti si sono alternati al tavolo della presidenza: uno dopo l’altro hanno descritto una situazione che, seppur diversa nella contingenza, ha come minimo comune multiplo la necessità di riprendersi quel potere contrattuale che solo uniti si può riconquistare. L’essere ricattabili e soli determina infatti l’impossibilità di opporsi in modo efficace alla sempre maggiore arroganza della controparte. Non a caso, da almeno una decina di anni, i provvedimenti messi in campo dai governi - ultimo in ordine di tempo il Jobs Act - mirano in primis a distruggere gli strumenti di resistenza organizzata dei lavoratori nei luoghi di lavoro (pensiamo ai continui attacchi allo statuto dei lavoratori, alla volontà di subordinare il contratto nazionale di lavoro alla contrattazione di secondo livello).
Lavorare di più, lavorare in pochi, senza diritti, precari a vita e con un salario da contrattare direttamente con il padrone. Questa la ricetta per rilanciare l’economia da parte di governi e padroni. Salario da fame, disoccupazione e precarietà non sono quindi caduti improvvisamente dal cielo: sono il frutto delle pesanti e continue sconfitte politiche subite dai lavoratori e dell’arretramento dell’azione sindacale.
Quindi, che fare?
Il Comitato di lotta nella sua conferenza, ha provato ad impostare un ragionamento proponendo come terreno concreto comune e fattore unificante per le lotte di tutti i lavoratori una redistribuzione equa del lavoro a parità di salario - un salario che ovviamente deve essere sufficiente a garantire una vita dignitosa alle lavoratrici ed ai lavoratori .
Ed ha sottolineato quanto sia importante che questo discorso parta proprio da Milano.
Milano infatti, con le deroghe fatte per Expo 2015, è diventata un vero e proprio laboratorio di “normalizzazione” del lavoro precario a tempo indeterminato: dall’aberrazione che rappresenta il lavoro gratuito all’abuso dei contratti a termine, dalla cancellazione dei diritti (a partire da quelli sindacali) alla deroga agli orari di lavoro distribuiti sulle 24 ore giornaliere.
Forse è questo il volano per l’economia del Paese di cui parla Renzi: si è riusciti infatti a dare continuità all’articolo 8 con il beneplacito dei sindacati accondiscendenti, accettando di fatto la morte del contratto a tempo indeterminato sacrificato sull’altare della speranza di nuova occupazione (che invece in questo contesto ha numeri marginali rispetto a quanto verrà tamponato grazie al lavoro dei volontari) recependo di fatto le richieste di maggior flessibilità che da Treu in poi hanno fatto capolino nel mondo del lavoro.
Il Modello Milano per Expo 2015 non è altro che un ulteriore passo avanti sulla strada della della precarietà permanente, del recepimento della flessibilità come assunto indispensabile per il rilancio dell’economia (a vantaggio dei padroni) e dell’accettazione dei contratti “atipici” come standard contrattuali per le lavoratrici e i lavoratori di oggi e di domani.
Le parole di Iliopoulus in conclusione fanno ben sperare in una necessaria convergenza delle lotte dei lavoratori anche a livello europeo: “Ora dobbiamo lottare per un 'New May Day' (un nuovo primo maggio). È venuta l’ora, all’interno della crisi, di passare all’offensiva. Per la prima volta nella storia le società umane hanno accumulato una tale quantità di ricchezza e allo stesso tempo tali disuguaglianze nelle classi. Ci sono tutte le possibilità, ora, affinché i lavoratori lavorino meno e godano di più. La riduzione del tempo di lavoro, ma con un aumento del salario reale è solo una parte di questa strategia. La seconda cosa altrettanto importante è quella di stabilire un salario minimo garantito che ci permetterà di vivere con dignità. C’è bisogno di parlare di nuovo di democrazia all’interno della produzione. Di parlare ancora di autogestione, per nuove forme di cooperative sociali che si basino sulla solidarietà e siano al servizio dei bisogni sociali e non inseguano concorrenza e diano la cacciaal lucro. Si è formata una grande forza lavoro che si muove continuamente all’interno di una zona grigia tra la disoccupazione e la precarietà, così che anche quando ci sia lavoro questo non può coprire i bisogni primari. Per questo la lotta alla disoccupazione deve essere legata organicamente alla limitazione di forme flessibili di lavoro che in realtà dissolvono i rapporti di lavoro e i diritti dei lavoratori. Se saremo in grado di muoverci in questa direzione sarà giudicato innanzitutto a livello di conflitto politico e sociale. Abbiamo bisogno di un movimento sindacale che agisca politicamente e che abbia come obiettivo l’egemonia nella società e non sia limitato alla logica corporativa. Oggi il nostro lavoro è scoprire la struttura organizzativa che permetterà alle associazioni di diventare di nuovo efficaci all’interno delle lotte e pericolose per i padroni. In conclusione, vorrei sottolineare che il più grande contributo che possono offrire i compagni all'estero, nelle lotte del popolo greco, è quello di continuare la loro lotta per il rovesciamento del neoliberismo in tutto il mondo. L’attacco che ricevono i lavoratori e le lavoratrici non conosce frontiere, la ristrutturazione capitalistica non rispetterà, né mai lo ha fatto in passato, nessun paese più o meno sviluppato che sia. L'unica possibilità per il mondo del lavoro per difendersi ed estendere i propri diritti sta nell’organizzazione, nella collegialità e nella solidarietà di classe ed internazionale.”