Il PD riparte dal Lingotto. Qualcuno potrebbe affermare che a ripartire da lì è Matteo Renzi, ma sarebbe un errore. Matteo Renzi è un prodotto del PD, non il segno di una mutazione genetica; Matteo Renzi rappresenta lo sbocco inevitabile della ragion d’essere del PD. Segretario uscente e presidente del Consiglio dimissionario, Renzi, per lanciare la sua candidatura per riprendere per sé la leadership del PD, sceglie lo stesso ambiente che fu di Veltroni dieci anni prima (quando il partito democratico era in fase di formazione) e dove quest’ultimo si presentò per candidarsi a guidare lo stesso partito.
Nel 2007, Veltroni era la conferma del progetto per cui il PD nacque: “Il Pd nasce per unire gli italiani”, disse in quell’occasione l’allora sindaco di Roma. Quello che Veltroni aveva in mente era un “partito del nuovo millennio e della libertà” che avrebbe dovuto sfidare “i conservatorismi di destra e di sinistra”, perché il partito che si apprestava a nascere doveva “unire ciò che oggi viene contrapposto”. Il discorso di Veltroni di dieci anni fa era, in sostanza, l’interpretazione autentica della ragion d’essere del PD. Matteo Renzi, in questo senso, pure con il suo atteggiamento da imbonitore, non fa altro che portare avanti ciò che Veltroni dieci anni prima diceva essere “la ragione, la missione, il senso del Partito democratico”. Non è un caso che quel personaggio istrionico che è Renzi e che quasi certamente verrà riconfermato segretario del PD, parli di superamento delle correnti e punti a quell’unità ricercata attraverso un interclassismo che è il marchio di fabbrica del suo partito.
Pertanto, non è un caso nemmeno che al Lingotto Renzi abbia tessuto gli elogi di Marchionne, perché oggi “ci sono uomini e donne che sono tornati in fabbrica a lavorare a Pomigliano, uomini e donne che sono tornati in fabbrica a lavorare a Melfi e uomini e donne che sono tornati a lavorare a Mirafiori”. All’ex segretario del PD devono essere sfuggite le intenzioni dell’Ad di FCA di spostare la produzione della Panda, da Pomigliano in Polonia senza reali garanzie sul futuro produttivo dello stabilimento campano. Ma anche in questo caso, Renzi non è un’anomalia interna del PD. Dieci anni fa, pochi mesi dopo che Veltroni tenne il suo discorso da futuro segretario del PD tutto incentrato sull’unità dei soggetti sociali, i lavoratori di Pomigliano cominciavano a sperimentare la “cura Marchionne”. Lo stabilimento venne chiuso per mesi affinché gli operai venissero “rieducati” alla nuova organizzazione del lavoro, che in diverse migliaia tutt’oggi continuano a subire e che si estende a molte altre realtà produttive. In quel periodo al governo c’era Prodi, padre nobile del PD, che considerando l’assenteismo “Il vero tarlo dello stabilimento napoletano” trovò quella rieducazione una “cosa molto utile, seria e intelligente”, in quanto “esperimento che doveva servire a ristrutturare la testa della gente”.
Quella dichiarazione, Prodi la fece tre anni dopo “quell’esperimento”, in occasione del referendum del 2010 sull’accordo di Pomigliano, quando anche Fassino si augurava che la ristrutturazione di Marchionne potesse avviarsi e Bersani si esprimeva molto timidamente in merito. Sappiamo cosa ha significato il metodo Marchionne, dove si è arrivati da “quell’esperimento” del 2007 e dopo l’accordo del 2010: turni massacranti, ritmi esasperati, reparti confino, messa al bando dei sindacati conflittuali, congelamento del conflitto. E’ il risultato, inevitabile, del patto interclassista che sta alla base della nascita del PD. O meglio, è il risultato inevitabile, anzi ricercato attraverso l'equilibrio nel conflitto tra le classi.
Gramsci appuntò nei suoi Quaderni che “i grandi industriali” non hanno “un partito politico permanente proprio”, ma “si servono” dei “partiti esistenti” dal momento che “il loro interesse è un determinato equilibrio, che ottengono appunto rafforzando coi loro mezzi, volta a volta, questo o quello dei partiti del vario scacchiere politico” con l’unica eccezione “del solo partito antagonista” [1]. Il problema che oggi si trova ad affrontare il PD, nel suo ruolo di partito maggiormente conseguente delle aspettative del grande capitale, è la crisi di egemonia di quest’ultimo, specie della sua fazione europeista. Il PD, nel suo compito fondativo di ricerca di mantenere un equilibrio nell’inevitabile scontro tra le classi, ha tentato di giocare il ruolo del soggetto politico riformatore che potesse alleviare le asprezze, le ingiustizie, le disuguaglianze prodotte dal capitalismo con le sue politiche neoliberiste messe in atto nell’UE; anzi, è stato raccontato che proprio dentro il quadro europeo si potessero trovare risposte alle istanze popolari. Evidentemente quel racconto oggi è in crisi, dal momento che si manifesta palesemente l’impossibilità di riformare il capitalismo e la natura padronale dell’UE.
Ecco che ora il PD prova a giocare un nuovo ruolo egemonico, sia chiaro, sempre mantenendo per sé la parte di soggetto politico dei grandi industriali, dal momento che nello scacchiere politico attuale (cioè con una destra xenofoba ed un populismo cialtrone che pure sono l’altra faccia della stessa medaglia padronale) il PD continua a mostrarsi come la migliore espressione del capitalismo europeista. Ed ecco che il Partito Democratico, con Renzi più velatamente, con Nannicini in maniera diretta, tira fuori Gramsci perché “va fatta una battaglia per l'egemonia culturale”. Ed in effetti bisogna essere davvero saldamente egemoni per continuare a far passare politiche che finora non hanno fatto che aggravare le già dure condizioni di lavoro e di vita delle classi popolari.
Il più recente dato in questo senso è la rilevazione Istat di questi giorni che registra una produzione industriale in calo (-2,3% a gennaio di quest’anno rispetto a dicembre e -0,5% su base annua), che appare un’ovvia conseguenza della deflazione salariale prodotta in anni di crisi gestita con politiche di austerità. D’altronde, come potrebbe essere altrimenti quando tutti gli indicatori confermano la crescente precarizzazione dei rapporti di lavoro, senza parlare dello smantellamento del welfare ed in generale l’utilizzo della crisi per sbilanciare ulteriormente i rapporti di forza in senso avverso alla classe lavoratrice? Ed in questo quadro, l’Unione europea è l’istituzione di classe che, come afferma l’economista Joseph Halevi, tiene insieme tutte le differenti componenti capitaliste per mezzo della deflazione salariale [2].
Ma, come si diceva, il discorso delle classi dominanti entra in crisi di egemonia e perciò, in questa fase di instabilità e con le pressioni euroscettiche ed antieuropeiste, quelle stesse classi dominanti provano a governare i processi senza egemonia e quindi attraverso il dominio (per stare alle categorie gramsciane). Un tentativo che non è riuscito pienamente, e la risposta popolare con il referendum costituzionale l'ha in parte dimostrato. Ora il PD, espressione di quei ceti dominanti, afferma la necessità di un nuovo discorso egemonico (già Renzi lo sta tentando, ad esempio con il cosiddetto lavoro di cittadinanza, e addirittura ammiccando a Salvini). Non stupisce, questa posizione del PD; dovrebbe piuttosto stupire che l'insegnamento gramsciano sull'egemonia sia così poco considerato dalla sinistra in generale e soprattutto dalla sinistra di classe.
In questo quadro, la soluzione che prospetta la sinistra indistinta, spesso inseguita dalla sinistra di classe, è del tutto politicista, così autoreferenziale, da farsi inghiottire dalla crisi di egemonia presente, anziché inserircisi per costruire un nuovo senso comune di superamento delle condizioni presenti. Manca un programma minimo di fase, manca un progetto politico di trasformazione, senza i quali la sinistra, pure opponendosi a parole e nei salotti al PD ed a Renzi, ne rappresenta un momento politico, in quanto incapace di una propria autonomia di analisi e di proposta.
Invece la sinistra di classe, il “partito antagonista” fuori dallo scacchiere politico che interessa le classi dominanti, dovrebbe riaffermare la propria autonomia proprio partendo da Gramsci, che contro soluzioni di chi promuove semplicemente “un accordo con i segretari delle federazioni e dei sindacati”, esortava a “studiare ciò che avviene in mezzo alle masse operaie ... la fabbrica capitalista come forma necessaria della classe operaia, come organismo politico, come ‘territorio nazionale’ dell'autogoverno operaio” [3].
Note:
[1] A. Gramsci, Note sul Machiavelli
[2] J. Halevi, intervistato dal collettivo Noi Restiamo, in Tempesta perfetta, Odradek, 2016
[3] A. Gramsci, L’Ordine Nuovo