Quale ripubblicizzazione? Un augurio per il 2020

Dopo la sbornia liberista e i relativi disastri crescono le spinte alla ripubblicizzazione. Ma, per potersi orientare nelle lotte politiche, è indispensabile capire le insidie della nuova fase che potrebbe aprirsi.


Quale ripubblicizzazione? Un augurio per il 2020 Credits: https://cdn.pixabay.com/photo/2018/09/06/18/11/bridge-morandi-3658884_960_720.jpg

Abbiamo salutato il 2019 che ci ha portato poche novità: storie di ordinaria repressione nei confronti di lavoratori, dei movimenti solidali e degli attivisti sociali o ambientali. La chiusura, come di consueto è stata con una manovra di Bilancio piena di ricchi premi e cotillon per alcuni fortunati all’interno delle consuete scelte economiche e politiche di fondo.

Per decenni ci hanno fatto credere che il conflitto sia un male da estirpare con ogni mezzo, non una necessità per progredire verso rapporti sociali più equi. Anche le occasioni delle celebrazioni degli anniversari dei movimenti del ‘68 e del ‘77 sono state utilizzate per inculcare in intere generazioni i luoghi comuni del liberismo predatorio, e disarmare ideologicamente la classe lavoratrice.

Non siamo in Sud America e per tenere a bada il conflitto non servono i colpi di stato. Basta la mano del Fmi. I morti non sono causati dalla furia delle armi, ma dalle politiche economiche imposte e mascherate da “aiuti” condizionati all’attuazione di devastazioni sociali. I paesi destinatari si sono ritrovati a stentare per restituire i prestiti usurai concessi e sono stati accusati, per di più di essere spendaccioni.

Partiti della “sinistra moderata”, sindacati compiacenti e intellettuali distratti hanno abbracciato l’inganno del secolo: “privato è bello e conveniente”. I lavoratori che dovevano essere fiancheggiati da questi soggetti hanno subito così la contrazione dei loro salari e dell'occupazione, l’aumento dell'età pensionabile, la riduzione del potere contrattuale e degli spazi di democrazia.

Il capitalismo predatorio ha raggiunto i suoi obiettivi più ambiziosi: da una parte l'indebitamento dei privati è stato scaricato sul pubblico, dall’altra l’indebitamento delle famiglie per integrare i salari insufficienti a mantenere adeguati consumi individuali. Marx, in un passo dei Grundrisse, aveva già sottolineato che l’interesse di ogni singolo capitalista è che i lavoratori degli altri siano buoni consumatori “ad eccezione dei suoi propri”, che invece devono ridurre la loro capacità di consumo al minimo indispensabile. Questo sogno di avere bassi salari e buoni consumatori si è realizzato temporaneamente con la concessione di prestiti anche a quanti avevano ben poche possibilità di onorare il debito. Salvo il crollo del settore finanziario una volta scoppiata la bolla del business immobiliare.

La tremenda crisi del 2008, che si sta trascinando fino ai giorni nostri, ha contribuito a fare rinsavire qualcuno, anche se prevalgono ancora gli ultimi giapponesi postisi a guardia del vuoto bidone. E lo fanno negando l'evidenza dei fatti e riproponendo ideologicamente privatizzazioni, libero mercato e riformismo d'accatto. Niente a che vedere col riformismo dei primi centrosinistra che nazionalizzava l'energia elettrica, investiva nell'ammodernamento del paese e, sotto la spinta delle lotte popolari ampliava i diritti sociale e gli spazi di partecipazione.

Guardando all’Europa, balza agli occhi la differenza fra il compromesso del Trattato di Roma del ‘57 che si proponeva responsabilizzare socialmente i detentori dei monopoli di servizi pubblici, contando, magari astrattamente, di contenere gli appetiti speculativi del capitale a tutela dei cittadini e dei consumatori, e, 40 anni dopo, il Trattato di Maastricht in cui queste preoccupazioni sono del tutto assenti e a prevalere sono gli interessi del libero mercato e il contenimento della spesa pubblica, giudicata come la causa di ogni male. Cioè l’affermazione dello “stato minimo”, come ebbe a definirlo Guido Carli.

Le privatizzazioni si sono affermate sconfiggendo le classi lavoratrici: nel Cile di Pinochet con le politiche dei Chicago boys imposte con le armi, in Usa con Reagan che licenziava gli operatori di volo in sciopero e in Gran Bretagna con la Tatcher che reprimeva le lotte dei minatori. In Italia furono decisive la svolta dell’Eur, l’austerità, e la sconfitta operaia a partire dallo scontro in Fiat.

Il declino della classe operaia e l’avvio della stagione liberista è iniziato con queste sconfitte. I processi di ristrutturazione capitalistica e l’affermazione di una nuova ideologia dominante sono stati possibili grazie a questo mutato rapporto di forza, complici i compromessi al ribasso e il trasformismo politico.

Il crollo del Muro di Berlino ci ha messo la sua, ma sbaglia chi fa partire tutto da lì. Certamente la crisi dei paesi dell’Est Europa, che risale a ben prima dell’89, ha favorito l’offensiva liberista. Ma questa inizia negli anni ‘70, con la crisi del sistema monetario di Bretton Woods, la crisi petrolifera, la caduta a livello mondiale del saggio del profitto e della conseguente accumulazione capitalistica, proprio durante il culmine delle lotte operaie.

La sconfitta del mondo del lavoro ha consentito che si affermasse il capitalismo della sorveglianza, la repressione accanita delle avanguardie e delle lotte sindacali e sociali. Ci hanno persuasi che le privatizzazioni, le esternalizzazioni e le rilocalizzazioni delle attività siano l’unica alternativa alla inefficienza burocratica dello Stato e che salari e organici nel settore pubblico siano da contenere al massimo per impedire l'inflazione.

La forbice della ricchezza si è allargata. Mentre le rendite e i profitti, gli utili e i dividendi tra gli azionisti hanno sottratto risorse alle comunità, si è arrestata la mobilità sociale, sono aumentati i tempi e i ritmi di lavoro. Tutti i settori dell'economia fondamentale sono stati soggetti a feroci processi di privatizzazioni, dall'acqua all’energia, dai cosiddetti beni comuni ai trasporti. Perfino la scuola e l’istruzione ha seguito modelli privatistici e ha accresciuto la selezione di classe.

Il prodotto di questi processi predatori, imposti dai veri decisori, gli agenti del capitale, è sotto i nostri occhi e spinge anche settori borghesi a rimettere in discussione le privatizzazioni invocando l'intervento dello Stato. Un intervento però finalizzato prevalentemente a socializzare le perdite, non già a mettere in discussione il meccanismo unico del profitto.

In ogni caso un tabù si sta sbriciolando. Paesi che, a causa della crisi finanziaria hanno visto devastare lo stato sociale e crescere la miseria, paesi che hanno subito la predazione da parte delle potenze imperialistiche, stanno ricercando, violentemente osteggiati, un riscatto a partire dalla riappropriazione delle risorse naturali, a cui sono connesse quasi sempre le loro prevalenti attività economiche. In Italia, i privati hanno individuato un business senza dare niente in cambio. Sono emblematiche la vicenda delle acciaierie di Taranto che il privato ha saccheggiato seminando morti e disoccupazione e il caso delle autostrade, dei ponti e delle strade, che si stanno sbriciolando, talvolta con vittime, come nel caso del ponte Morandi. Il loro ritorno a una gestione statale si rende necessario per operare investimenti e manutenzione, una sorta di ciclicità dei processi, dopo anni di speculazione finanziaria e profitti privati si deve tornare alla gestione diretta, pubblica e statale. Ma la cosiddetta “efficienza” dell’impresa privata si vede anche in molti servizi, primo fra tutti la sanità, che stanno perdendo in qualità e soprattutto nella loro universalità. Ciò rende evidente che le privatizzazioni sono consistite prevalentemente di economia predatoria, fatta di servizi pubblici scadenti e di forza-lavoro sottopagata.

Lo stesso Pil, quale unico indicatore di benessere è ormai messo in discussione da diversi economisti mentre viene auspicato l’uso di altri indicatori che hanno a che vedere con la qualità della vita (disponibilità di acqua e cibo, salute, istruzione, ambiente, lavoro, mobilità, abitazioni ecc.). Così come si va affermando l'idea che siano stati proprio gli affari e la speculazione la causa dell'impoverimento progressivo nei paesi a capitalismo avanzato e della crisi ambientale.

Rivendicazioni di rinazionalizzare o rimunicipalizzare alcuni servizi, quale l’acqua, alla luce dell'impoverimento sociale, cominciano a farsi strada. La nozione di pubblico, di welfare e di lavoro e la stessa contraddizione tra capitale e lavoro stanno assumendo nuove configurazioni. Il rischio attuale è di cadere nuovamente vittime dell'ideologia dominante, che questa volta potrebbe sostituire ai dogmi delle privatizzazioni la richiesta di nuovi sacrifici per consentire il rilancio del ruolo del pubblico, che poi pubblico non sarà almeno nella definizione propria del termine, ma solo un puntello per Monsieur le Capital.

Pubblico dovrebbe essere sinonimo di controllo e indirizzo, di ridistribuzione degli utili a fini sociali, di politiche occupazionali e contrattuali improntate alla ricerca di lavoro stabile e adeguatamente retribuito. Per anni invece ha significato aziende, utili e profitti, rincaro delle tariffe e mancato reinvestimento degli utili, deregolamentazione del lavoro, precarietà diffusa. Si sono ceduti ai privati i beni comuni e la gestione di settori economici strategici. Il capitale ha fatto affari demandando al pubblico il compito di calmierare le disuguaglianze o di assicurare ammortizzatori sociali. Più crescevano gli appetiti speculativi e i redditi da capitale (e con essi anche la vendita di prodotti finanziari tossici), maggiori erano le richieste allo Stato di assicurare la ripresa degli investimenti facendo leva sulla riduzione delle tasse, non sull'aumento della spesa pubblica che continua a essere assoggettata a tetti ai limiti imposti dai dettami europei. E così lo stato si è trasformato in agente al servizio della distruzione dell'economia fondamentale e di quel principio, pur vagamente egualitario, che prevedeva una tassazione progressiva senza le scappatoie degli sgravi fiscali.

Qui sta la contraddizione che si cela dietro ad alcuni fautori del pubblico. Talvolta sono gli stessi neoliberisti e privatizzatori pentiti a celarsi dietro alla nuova richiesta di ripubblicizzazione, perché nella nuova fase ciclica stanno attrezzandosi per garantirsi la gestione dei cicli economici e dei profitti. E lo faranno facendo propri, retoricamente, i contenuti delle vecchie battaglie contro le privatizzazioni alimentando confusione e smarrimento in seno al popolo.

Si capisce allora perché si vadano affermando la sanità e la previdenza integrativa, o si continui ad investire nella politica dei bonus secondo una logica clientelare: un sorta di welfare “fai da te”.

Conoscere bene i processi in atto e rilanciare il conflitto per affermare i conseguenti obiettivi della classe lavoratrice diventa quindi indispensabile. Questa riconquista di un’autonomia di pensiero, presupposto necessario per l’iniziativa politica, è il nostro augurio per il 2020.

04/01/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Federico Giusti

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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