Perché a cent’anni dalla morte Lenin è più attuale che mai?

La lezione di Lenin è ancora oggi decisiva in quanto rappresenta la migliore testimonianza che nella nostra epoca storica l’ambizione dei veri intellettuali non può limitarsi a una nuova interpretazione del mondo, ma consiste nel dare un contributo significativo alla sua trasformazione in senso rivoluzionario.


Perché a cent’anni dalla morte Lenin è più attuale che mai?

Perché ancora oggi è necessario portare avanti il processo di apprendimento dell’opera di Lenin? Perché, proprio al contrario di quanto ci vuole dare a intendere l’ideologia dominante, sempre espressione degli interessi della classe dominante – ideologia che hanno inconsapevolmente fatta propria molti esponenti della stessa sinistra radicale – non solo il pensiero di Lenin dopo oltre un secolo è ancora attuale, ma è indubbiamente non solo più attuale di quando fu scritto, ma più attuale che mai. Del resto, più in generale, la rilevanza dei grandi intellettuali non risiede tanto nella comprensione della propria epoca storica, compito al quale siamo in grado di adempiere persino noi epigoni, ma piuttosto nel delineare i tratti fondamentali del mondo futuro, cioè proprio nelle direttrici principali del nostro presente storico e nelle dinamiche essenziali del nostro futuro prossimo. A meno che non intervenga un altro grande personaggio storico universale rivoluzionario come Lenin che sia in grado di dirigere una radicale rivoluzione dell’attuale stato delle cose.

Del resto anche i pochi aspetti della sua analisi dell’attuale epoca dell’imperialismo che appaiono, in qualche modo, relativizzati dipendono essenzialmente proprio dalla capacità di Lenin di guidare un processo rivoluzionario che ha posto i principali bastoni fra le ruote nel processo di sviluppo necessario del tardo capitalismo. Da questo punto di vista la lezione di Lenin è ancora oggi decisiva in quanto rappresenta la migliore testimonianza che nella nostra epoca storica l’ambizione dei veri intellettuali non può limitarsi a una nuova interpretazione del mondo, ma nel dare un contributo significativo alla sua trasformazione in senso rivoluzionario.

Di tutto ciò possiamo trovare una emblematica conferma proprio prendendo in esame l’analisi di Lenin su l’imperialismo e la sua strenua lotta per rivoluzionarlo. In particolare il saggio popolare dedicato a L’imperialismo fase suprema del capitalismo nel modo più semplice e rapido ci consente di comprendere in modo critico la nostra epoca storica con tutte le sue contraddizioni, in funzione di un sempre più necessario superamento rivoluzionario. Proprio per questo l’ideologia dominante e ogni tipo di rinnegato, anche quello più inconsapevole, fa di tutto per fare apparire Lenin, la sua magistrale opera e persino il concetto di imperialismo storicamente superati. La verità, in effetti, come faceva notare proprio Lenin, è rivoluzionaria e, perciò, non deve essere conosciuta e l’efficacissimo opuscolo di Lenin non deve essere, quindi, nuovamente studiato e dibattuto. Proprio la sua pervicace denigrazione dimostra, dunque, che questa opera è essenziale per una comprensione critica del nostro mondo storico e costituisce ancora un fondamento ineludibile per la sua radicale trasformazione.

Per meglio dimostrare tale assunto facciamo un piccolo ma indicativo esperimento epistemologico che ci permetterà di comprendere come l’analisi di Lenin sia decisamente più utile alla comprensione del nostro presente e a un suo rivolgimento in senso rivoluzionario anche più di alcune dei più significativi e radicali paradigmi analitici contemporanei. Analizziamo a tal proposito alcuni dei più recenti e significativi editoriali di Giuliano Marrucci – i suoi mitici “pipponi” – indubbiamente il giornalista di inchiesta più critico, coraggioso e valente del nostro paese. In essi, se si tengono presenti i paradigmi interpretativi di Lenin, emergono chiaramente come i paradigmi ermeneutici più attuali e radicali non siano all’altezza né dal punto di vista della teoria, né dal punto di vista della prassi. Innanzitutto l’attuale crisi, la cui indagine è indispensabile alla comprensione del nostro mondo storico, viene descritta con lo pseudo concetto di “terza grande depressione”, una categoria giornalistica che, per quanto evocativa, si ferma a una descrizione fenomenica e, in ultima istanza, superficiale delle peculiarità delle contraddizioni fondamentali dell’attuale modo di produzione dominante. Non a caso si individua il suo cominciamento, sotto l’evidente egemonia della più significativa e “critica” ideologia dominante, nel 2008 con il crollo di Lehman Brothers. In tal modo, non si comprende che tale crisi è ben più ampia e profonda e inizia già a fine degli anni sessanta negli Stati Uniti per manifestarsi a livello internazionale nel 1973, con la crisi petrolifera che la ha fatta emergere definitivamente. Si tratta, a tutti gli effetti, dell’ultima e necessariamente più ampia e distruttiva crisi di sovrapproduzione, in primo luogo di capitali, della storia. Questa crisi, quindi, ha una natura peculiare e caratteristica non solo profondamente diversa ma, persino, opposta a tutte le depressioni economiche dei precedenti modi di produzione dovute essenzialmente al fatto che lo sviluppo delle forze produttive non è in grado di far fronte all’incremento della popolazione. A ulteriore dimostrazione di quanto siano ingenue e inefficaci le attuali interpretazioni critiche rispetto a quelle di Lenin, non considerate in quanto ritenute a torto del tutto superate, interviene la considerazione per la quale la grande novità del momento consisterebbe nel fatto che ormai la componente finanziaria e speculativa del capitale avrebbe preso il sopravvento sulla sua determinazione produttiva e industriale. Naturalmente tale analisi è inevitabilmente superficiale e fondamentalmente inefficace sia dal punto di vista della teoria che della prassi in quanto non ha metabolizzato il decisivo concetto sviluppato da Lenin di “capitale finanziario”. Quest’ultimo non va inteso, seguendo la vulgata ideologica dominante, come il mero opposto speculativo e monetario del capitale produttivo, ma come l’attuale forma sintetica del capitale, che ricomprende e sussume in sé i tre fondamentali momenti e le tre decisive determinazioni del suo sviluppo storico, cioè il capitale commerciale, il capitale produttivo (industriale) e il capitale monetario. Peraltro, in tale mono triade dialettica l’aspetto determinante, l’egemonico, è indubbiamente costituito, come aveva del tutto chiaro Lenin già ben oltre un secolo fa, nel capitale bancario. Quest’ultimo, dunque, non solo non è divenuto egemone solo ora, ma non costituisce l’antitesi speculativa del capitale industriale ma, piuttosto, il suo superamento dialettico, dal momento che il capitale finanziario ricomprende in sé, come momento dialetticamente tolto, il capitale produttivo e il capitale monetario.

In ultimo, ma non certo per importanza, in relazione a uno dei più significativi e avanzati intellettuali ed economisti critici dei nostri giorni (Michael Hudson), Marrucci utilizza spesso e volentieri, come in grado di descrivere, cogliendone l’essenza, l’attuale determinazione fondamentale del modo di produzione dominante, la categoria di superimperialismo. Tale categoria viene considerata una eccezionale novità teorica quando in realtà basterebbe conoscere la ben più significativa e cogente analisi leniniana per riconoscervi l’ennesima ripresa della categoria kautskiana dell’ultraimperialismo, dopo quella ben più significativa di capitale finanziario transnazionale e quella ancora più subalterna all’ideologia dominante di “impero”. Peraltro, persino i coniatori di quest’ultima, dopo aver cercato di sostituirla a quella di Lenin, hanno dovuto correre ai ripari dal momento che con l’ideologia diviene difficile comprendere la realtà e ancora di più cercare di rivoluzionarla.

Peraltro, a sua volta, la categoria kautskiana di ultraimperialismo, non è altro che una ripresa, in una chiave pseudo marxista, della originaria categoria liberal e democratica di imperialismo di Hobson. In entrambi i casi tali categorie, come già ampiamente dimostrato con dovizia di particolari da Lenin, ci danno una rappresentazione idealizzata della realtà e, di fatto, indirettamente apologetica del modo di produzione capitalistico. Si tratta del solito mito piccolo borghese di un capitalismo buono che tornerebbe all’altrettanto mitico capitalismo delle origini, rinunciando all’inutile sovrastruttura ideologica dell’imperialismo, recuperando e valorizzando il capitalismo produttivo buono, di contro al capitalismo finanziario speculativo (cattivo). Non a caso, seguendo questa impostazione, Marrucci reputa sostanzialmente irrazionale la politica di guerra di Israele, degli Usa della presidenza Biden e della stessa Unione Europea, illudendosi di un possibile ravvedimento, della possibilità di ritornare a un sano capitalismo produttivo.

Si tratta della consueta illusione piccolo borghese di Hobson e di Kautsky che non comprende come si vuole mantenere un modo di capitalismo maturo le politiche imperialiste divengono l’unico modo per poter aggirare e rinviare gli effetti più negativi delle crisi di sovraproduzione, scaricandoli sui più deboli a livello nazionale e internazionale. Anche in questo caso sarebbe stato molto più utile e produttivo fare propria l’interpretazione di Lenin, piuttosto che spacciare come grande novità teorica del momento, l’ennesima ripresa della categoria di Kautsky a sua volta mutuata dalla prima e più antica concezione borghese di imperialismo di Hobson.

Peraltro la categoria di superimperialismo, come quelle precedenti di ultraimperialismo, capitale finanziario transnazionale e impero non consentono di tener conto delle determinanti contraddizioni interimperialiste indispensabili non solo per comprendere realmente le dinamiche della nostra epoca storica, ma anche per poter contrastare efficacemente, in una prospettiva socialista, l’imperialismo. La concorrenza, superata dialetticamente dal monopolio, come comprende in modo ben più efficace Lenin sulla scia di Marx, non fa altro che riprodurre la stessa concorrenza al livello più ampio dei monopoli. Del resto, come aveva a ragione evidenziato Lenin, se non si conosce bene la logica di Hegel, non si può realmente comprendere neppure Marx. Come l’ultraimperialismo, anche il superimperialismo non comprende che la negazione della concorrenza da parte del monopolio sia una negazione determinata, dialettica, che supera conservando su un piano superiore, e non una negazione assoluta, nichilista che rischia di ricondurre alla notte in cui tutte le vacche appaiono bige.

26/01/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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