Lavoro fluidificabile

Il prolungamento produttivo della giornata lavorativa, realizzato sia allungando sia diminuendo l’orario di lavoro, si attua mediante l’accorciamento del tempo che i lavoratori hanno da vivere, nell’usura incondizionata delle energie vitali pur di rendere liquida al massimo possibile la forza-lavoro.


Lavoro fluidificabile

Sollecitati dalla “Mozione conclusiva dell’assemblea dei lavoratori e delle lavoratrici combattive” tenutasi il 27 settembre 2020 a Bologna, cerchiamo di mettere a fuoco il 3° paragrafo della mozione, quello in cui si inizia “All’attacco a salari e diritti dobbiamo allora contrapporre una piattaforma generale di lotta…” con “parole d’ordine storiche del movimento operaio”.

Nell’ottica di sostanziare la potenzialità delle rivendicazioni proposte si cercherà di approfondire le modalità con cui il padronato ha fin qui condotto la sua lotta di classe nei confronti di un proletariato ormai mondiale, generato appunto dall’estensione planetaria del sistema di capitale impropriamente chiamata globalizzazione. Sapere o capire come viene fatto variare il salario, in base alle sole esigenze produttive dei capitali, significa poter poi lottare nella certezza di incidere significativamente sul sistema di sfruttamento non solo inarrestabile, ma programmato in continuo aumento dalla crisi strutturale raddoppiata da quella sanitaria sopraggiunta.

Cominciamo a considerare che una qualsiasi giornata lavorativa può essere variata a discrezione, sulla base della quantità di plusvalore prodotto (cioè ricchezza prodotta e non remunerata, di cui non si ha mai consapevolezza) dal lavoro superfluo. Questa quota di ricchezza va distinta da quella remunerata prodotta nella trasformazione lavorativa per la necessaria ricostituzione della forza-lavoro, e che si presenta nell’operare concreto del cosiddetto lavoro necessario. Questa distinzione, specifica del modo capitalistico di produzione, può diventare visibile solo se si ha accesso alla conoscenza teorica di questo modo di produzione, mentre invece rimane oscura nell’unificazione apparente della giornata lavorativa determinata dall’orario di lavoro in base a cui si percepisce un salario.

Ecco dunque che anche il salario allora nasconde la verità dello sfruttamento, in quanto equipara nell’indistinzione oraria il lavoro pagato e quello non pagato, la cui quantità gratuita deve sempre aumentare rispetto all’altra, differenza senza la quale resterebbe misteriosa l’origine dei profitti. Lo slogan che chiede la “riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario” non risolve il problema della riduzione comunque procurata della capacità d’acquisto, poiché non indica in quella riduzione quale parte viene ristretta. Ѐ ovvio, dunque, che il capitale riduce sempre la quota di lavoro necessario a favore di quello superfluo, che quindi aumenterà relativamente al salario precedentemente fissato, e se a questa operazione si fa seguire un’inflazione programmata, la capacità di spesa salariale risulterà inferiore a prima.

È così che si realizza un aumento dei profitti cui corrisponde una diminuzione relativa del salario, nonostante quest’ultimo sia restato nominalmente uguale a prima od anche addirittura aumentato, mentre realmente diventa inferiore nello scambio con i mezzi di sussistenza necessari a mantenere e riprodurre la forza-lavoro. La giornata lavorativa viene così sempre aumentata dal padronato che però è attento a non mostrare mai quale parte dell’orario lavorativo deve incrementarsi a discapito dell’altra. L’unico limite massimo al suo prolungamento è dovuto al limite fisico della forza-lavoro, oltre cui si incappa in limiti morali che dipendono però dall’elasticità dei tempi e dell’organizzazione sociale in questione.

Quando si lotta per la riduzione dell’orario, allora, si deve anche puntare al mantenimento dei ritmi lavorativi, con attenzione a che un’innovazione tecnologica, inserita nel processo lavorativo, non nasconda invece un’intensificazione comunque delle ore su cui equamente si ripartisce l’invisibile erogazione di pluslavoro. La regolazione della giornata lavorativa incarna dunque la lotta – se ancora si ha chiara la ineluttabilità del conflitto reale nonostante il suo depistaggio ideologico – per decidere dei suoi limiti, tra il capitalista collettivo o classe capitalistica e il lavoratore collettivo o classe lavoratrice.

Da ricordare subito che la “voracità di pluslavoro” padronale – ovvero la quantità di lavoro che non viene retribuita – sempre presente, aumenta allorché si determini una crisi di capitale, cui oggi si aggiunge pure quella pandemica, e quindi la ristrutturazione che ne consegue utilizza tutti i mezzi disponibili ora anche tecnologici per ottenere più lavoro dai propri dipendenti. Durante la crisi infatti si lavora a “tempo ridotto” solo in alcuni giorni la settimana (si rifletta subito sulla proposta attuale di ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni!), aumentando così la sola parte temporale del pluslavoro che assicura un plusvalore e poi un profitto altrimenti non appropriabile, attraverso eliminazione, spostamento o decurtazione di pause, intensificazione e condensazione lavorativa, uso tecnologico di azzeramento reale dell’orario mantenendone in astratto il diritto contrattuale, ecc.. I “piccoli furti del capitale sul tempo dei pasti e sul tempo di riposo dell’operaio” – in auge fin dal lontano 1860 come risulta dai documenti degli ispettori di fabbrica inglesi riportati da Marx [1] che parlavano di “meschino scroccare di minuti” (petty pilferings of minutes), o di “sgraffignare i minuti” (snatching a few minutes) – sono perennemente di moda. “Atomi di tempo sono gli elementi del guadagno” (Moments are the elements of profit) è una saggezza imprenditoriale sempre custodita e rafforzata.

Questi “furti” sono l’ossatura di tutte le moderne normative sul lavoro – quella del Jobs Act è solo l’ultima in ordine di tempo – mentre nel “Patto per la fabbrica del marzo 2018” relativo alle “relazioni industriali e contrattazione collettiva di Confindustria e Cgil, Cisl, Uil”, a cui si intende ritornare ultimamente, si evince che tutti gli obiettivi di “crescita della produttività aziendale, di qualità, di efficienza, di redditività, di innovazione” si basano sulla “digitalizzazione” e sulla “partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori”. Tralasciando per ora la digitalizzazione – peraltro non ancora possibile per limiti oggettivi – si fa sempre ricorso alla favola della “partecipazione” o per legare i salari agli utili aziendali o per evitare ogni forma conflittuale, dato che il TEM (trattamento economico minimo) cui ci si atterrà, sarà il veicolo di una diminuzione del salario reale in rapporto al programmato aumento dei prezzi.

L’intenzionale svuotamento dei contratti nazionali, poi, per rendere definitivamente operanti quelli aziendali, occultamente considerati, diminuirà complessivamente il salario sociale sia nella non difendibilità dei salari individuali (salari diretti) alla mercé dei ricatti aziendali, sia nella variabilità al ribasso del cosiddetto welfare (o salario indiretto), sia infine nella decurtazione pensionistica (salario differito) cui si è già messo mano in sede politica. Nessuna partecipazione è possibile nella realtà se le decisioni produttive – in quali direzioni, qualità, località, con quali modalità esecutive, con quali tempi, con quali remunerazioni, ecc. – vengono prese a perenne esclusione dei lavoratori.

Si ringrazia, per ultimo, dell’attenzione solo nominale o grammaticale al mondo femminile quando si parla di lavoratrici, sempre pagate meno, ma sarebbe più chiaro usare il maschile come neutro, analogamente al latino da cui proviene la nostra lingua, soprattutto perché formalmente quello che conta all’interno del sistema capitalistico è la funzione di classe rispetto alla proprietà produttiva, che ha priorità sul genere di chi è anche e sempre diversamente sfruttato. Specialmente in chi sembra schierarsi dalla parte lavorativa nell’unità contraddittoria col capitale, dovrebbe emergere la coscienza che l’appartenenza di classe non si basa su un sedicente essere comunista o un voler ricostruire un partito dei lavoratori, ma sul riconoscersi tutti eguali davanti al capitale come “semplice materiale ausiliario del mezzo di lavoro” [2], cioè forza-lavoro indifferenziata per la produzione incrementabile di plusvalore e indirettamente di profitti, senza alcuna identità della persona, come il sistema di capitale ha ridotto gli umani.

Possiamo essere persone solo nella lotta contro questo sistema che, nello sviluppo continuo delle forze produttive per potersi riprodurre, porta avanti distruttività sociale e naturale inarrestabile. Ma per essere persone che lottano, senza disperdere energie inefficaci, dobbiamo assumerci l’onere di capire tutte le innovazioni ultime con cui questo sistema reitera lo sfruttamento originario irrinunciabile. Bisogna capire che, da quando questo sistema si è affermato nella storia, l’unità contraddittoria capitale-lavoro (l’uno senza l’altro non ha esistenza) si riproduce usando la forza-lavoro – unica identità che è interessato a conoscere – per tutto il tempo disponibile della vita di quest’ultima, in quanto appartiene all’autovalorizzazione del capitale. Il prolungamento produttivo della giornata lavorativa, realizzato quindi sia allungando sia diminuendo l’orario di lavoro, si attua mediante l’accorciamento del tempo che i lavoratori hanno da vivere, nell’usura incondizionata delle energie vitali pur di rendere liquida al massimo possibile la forza-lavoro. Analogo però all’interesse per impedire il rapido logorio di una macchina, sembrerebbe interesse del capitale il fornire adeguati ammortizzatori sociali a tutela della durata della forza-lavoro utilizzabile.

Sono trascorsi ormai quasi sei secoli (dal XIV sec. in poi) di assuefazione del lavoratore “libero” a vendere volontariamente l’intero periodo attivo di vita, e nell’800 è stata effettuata una lotta per evitare l’isolamento del lavoratore nella vendita della sua forza-lavoro, dato che immancabilmente sarebbe stato sopraffatto dalla capacità di coercizione degli imprenditori. La “barriera sociale” che allora si riuscì a costruire fu la “legge delle 8 ore”, cioè un limite legale alla giornata lavorativa che permise all’operaio (maschio o femmina) di sapere in quale momento terminava il tempo lavorativo e si iniziava quello appartenente a lui. Oggi questa conoscenza i lavoratori l’hanno persa, la memoria storica è stata fatta sparire perché sparisse l’efficacia di una lotta di classe contro il potere di comando sul lavoro. I contratti nazionali sarebbero ancora questa barriera legislativa se non fossero sapientemente aggirati da contratti aziendali, in grado di ripristinare una giungla normativa in cui i lavoratori non possono né riconoscersi come classe né difendere diritti rimovibili con l’ausilio anche di avalli o silenzi sindacali, la cui rappresentatività venga accertata e “certificata”.

Oggi il capitale-covid-19 ha scoperto che la introduzione generalizzata dello smart-working,oltre all’ulteriore divisione dei lavoratori, può contribuire a incrementare il bramato pluslavoro con un orario lavorativo sfumato o evanescente, in cui urgenze immediate possono richiedere tempi lavorativi supplementari non più catalogabili in termini di straordinari, ma automaticamente gratuiti in quanto accreditati sulla responsabilità del dipendente. La priorità del risultato, nel lavoro cosiddetto agile, propone infatti una nuovissima versione del vecchissimo lavoro a domicilio, indotta dalla necessità imperativa del distanziamento fisico, senza evidenziare però che si tratta in sostanza della forma del cottimo, che fornisce l’illusione di una maggiore autonomia e libertà di gestione lavorativa a fronte di un maggiore sfruttamento, mediamente assicurato dall’autocoercizione necessaria se si vuole essere pagati o rimanere in servizio.

La tecnologia al servizio del capitale diventa così un’arma ulteriore nell’indebolimento dei diritti del lavoro, la cui precarizzazione, flessibilità, fluidificazione in base all’esigenza improvvisa o programmata della “ripresa” economica, senza la quale l’occupazione può perfino scomparire, pone anche un dilemma ineludibile. O il sistema si riprenderà e allora dovrà usare l’imposizione di un comando assoluto sullo sfruttamento oltre qualunque limite fisico, sociale o morale, che troverà però le opposizioni sorte dai bisogni materiali primari; o invece l’alternativa alla sua permanenza, dovuta anche al degrado naturale incombente, potrà costituirsi in qualche modo nel suo auspicabile superamento, e allora richiederà grande attenzione alla individuazione delle modalità possibili o dei tempi necessari alla sua attuazione per promuovere un intervento cosciente nel processo.

Note:

[1]  K. Marx, Il Capitale, I, 8, §2.
[2]  Ivi. Children’s employment commission. 1863. Nota degli ispettori di fabbrica dell’epoca in cui il lavoro infantile era stato equiparato a quello delle macchine, cui si fornisce carbone e acqua, sapone o olio, ecc.

06/10/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Carla Filosa

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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