Il capitale ha riconquistato piena padronanza del sistema bancario (Parte seconda)

Le regole europee e le misure anti-covid non consentono di esercitare un controllo pubblico dell’economia. Lo Stato dovrebbe riappropriarsi del sistema bancario per poter indirizzare le risorse finanziarie verso obiettivi economici e sociali pianificati.


Il capitale ha riconquistato piena padronanza del sistema bancario (Parte seconda)

Segue dalla prima parte.

La provvista e i “prodotti” finanziari

Tradizionalmente la raccolta di denaro degli operatori finanziari avveniva in prevalenza acquisendo i depositi dei risparmiatori o emettendo obbligazioni, oltre che, in misura minore, attraverso il ricorso al cosiddetto mercato interbancario, cioè a prestiti fra banche o della Banca centrale. Una delle forme più diffuse di tali prestiti era il risconto di cambiali presso la banca centrale [3]. Oggi il mercato interbancario assume maggiore importanza e si dota di strumenti più sofisticati, spesso connessi con il mercato dei capitali, quindi con la speculazione, ricorrendo a prodotti “innovativi”. Compare così il cosiddetto mercato parallelo, costituito dall’insieme di mercati, istituzioni e intermediari finanziari che operano nel settore ma non sono sottoposti alle leggi e ai requisiti patrimoniali previsti per le banche e sono esenti anche dalla vigilanza della Banca d’Italia. Rientrano fra questi operatori i fondi pensione che raccolgono risparmi dei lavoratori indotti dallo scippo del sistema previdenziale retributivo. I fondi raccolti vengono investiti in borsa e in modo più o meno diretto finanziano le imprese o le banche stesse. Il profitto realizzato è dato dal differenziale dei tassi attivi e passivi praticati e (sempre di più) dalle commissioni.

Uno dei modi più comuni con cui le banche si procurano liquidità è il contratto “pronti contro termine” con cui una banca vende a pronti, cioè all’istante, dei titoli in suo possesso, ricavando così il denaro che le occorre impegnandosi a riacquistarli a una data scadenza (a “termine”) a un costo maggiorato. L’importo di questi contratti nell’eurozona sfiorava i 10 trilioni di euro a fine 2007. Il rischio principale di questi contratti sta nelle oscillazioni dei prezzi dei titoli. A ciò si aggiunga la volatilità dei patrimoni e della solvibilità degli istituti di credito che ha determinato anche una crisi di fiducia fra le stesse banche, tanto che, dal 2007, questi contratti sono stati “collateralizzati”, cioè forniti di garanzie collaterali: il compratore a pronti, che in sostanza è colui che presta denaro, pretende, per mitigare il rischio, che la banca venditrice fornisca garanzie, di norma mettendo una sorta di pegno a favore del finanziatore su altri titoli posseduti dal venditore, prevalentemente titoli del debito pubblico, ritenuto meno rischioso. Le garanzie vengono aggiornate per lo più giornalmente e possono essere “cartolarizzate”, cioè rappresentate in un titolo che il finanziatore può vendere in caso di insolvenza del debitore.

Considerata la crisi di fiducia fra banche questi espedienti non destano sorpresa. Ma quando ci sono di mezzo i soldi la fantasia non ha freni. Ecco allora che compaiono le Abs (asset backed security), una sorta di assicurazione “sostenuta da risorse”, ovvero da crediti in garanzia, che accorpa i rischi di diversi crediti per spostarli in uno special purpose vehicle (Spv). Questo “veicolo” non figura nei bilanci delle banche. Sulle Abs possono essere emessi dei Cdo (collatelarized debt obligation), obbligazioni garantite da un assemblamento di prestiti, altre obbligazioni o Cds (credit default swap, un’altra assicurazione che trasferisce a terzi il rischio di solvibilità di un credito). Questi “prodotti” possono essere impacchettati in un altro contenitore cedibile che ne incorpora una notevole varietà. Se vi siete persi, è umano: il titolo del debito viene posto a garanzia di un altro debito che viene trasformato in un altro prodotto finanziario (ancora debito) con possibilità di costruire anche impacchettati di impacchettati, e alla fine nessuno ha un’idea precisa di cosa compri. Però si affida al rating di agenzie in conflitto di interessi, visto che sparano sentenze che influiscono decisamente sulle quotazioni dei titoli oggetto della loro speculazione. Sì, perché queste agenzie a loro volta speculano in borsa. Se poi i maggiori crack del 2007-8 non erano stati previsti da queste agenzie, c’è da domandarsi se si sia trattato di incapacità o di malafede.

L’economista keynesiano in buona fede dirà allora, avendo buoni argomenti, che lo scoppio delle bolle finanziarie sono il prodotto della deregolamentazione della finanza, cogliendo solo la manifestazione fenomenica di un problema meno visibile. I guadagni finanziari – che crescono anormalmente mentre l’economia ristagna – non sono altro che, come diceva Marx, “buoni sul plusvalore futuro” e alla resa dei conti, quando diviene palese che l’economia reale non riuscirà a produrre quote di plusvalore sufficienti a soddisfare questi buoni, le bolle scoppiano in maniera fragorosa trascinando nel fallimento alcune banche, anche prestigiose e ben quotate.

Sempre Marx aveva trattato, negli abbozzi per il terzo libro del Capitale, il capitale fittizio [4], cioè costituito da castelli di carte dietro a cui non ci sta niente di reale. Il Moro non poteva ai suoi tempi immaginare in dettaglio gli attuali sofisticati prodotti della fantasia umana, ma poté invece intuire la tendenza di fondo alla finanziarizzazione dell’economia, come illusorio espediente per dare sbocco alla sovrapproduzione di capitale.

Se prescindiamo da questi eccessi, il ricorso al mercato interbancario può essere molto vantaggioso per le banche. Attualmente le misure espansive in materia monetaria hanno generato un tasso dei prestiti interbancari negativo (-0,50%) cioè si viene ricompensati, anziché sostenere un costo, per prendere a prestito soldi presso le banche centrali. Alle banche, anziché rischiare nell’economia reale, conviene investire in comodi titoli del debito pubblico che un tasso positivo, seppur moderato, lo assicurano. Esse ottengono così un margine di guadagno o possono utilizzare questi titoli acquistati per nuovi contratti pronti contro termine (nuova raccolta). Non è compito della banca, l’impresa capitalistica per eccellenza, domandarsi da dove provenga questo utile o porsi domande sull’utilità sociale del loro operato. Sarebbe però compito dello Stato, se non fosse legato mani e piedi ai voleri del capitale finanziario, intervenire in questo mercato e prevenire fallimenti o drenaggio delle risorse ai danni dell’economia reale.

 

Le banche, l’Unione europea e il debito pubblico

Le politiche e le regole dell’Unione Europea, ispirate alle teorie monetariste, hanno inciso fortemente su sistema bancario e hanno determinato la svendita del patrimonio pubblico per accrescere gli spazi del capitalismo, nostrano e non, come nel caso delle privatizzazioni dei servizi pubblici essenziali, nonostante l’esito dei referendum del 2011.

L’osservanza rigorosa di tali regole ha determinato anche crescenti disequilibri nelle bilance dei pagamenti con l’estero e l’arretramento dei salari, ove si considerino anche quelli indiretti e differiti (servizi pubblici essenziali e previdenza), a vantaggio dei profitti e delle rendite. Il deficit di capacità di spesa delle classi lavoratrici conseguente a questo arretramento è stato in buona parte controbilanciato dal credito al consumo, fenomeno non solo made in Usa. Quando è esplosa la crisi del 2008 le difficoltà dei consumatori e delle imprese indebitati e quelle delle banche sono comparse simultaneamente.

Anche l’asimmetria nell’economia reale fra i vari paesi dell’eurozona si ripercuote nei rispettivi sistemi bancari. L’imperativo di ricapitalizzare le banche per avere un patrimonio commisurato ai rischi non ha le medesime conseguenze nei diversi paesi. Non solo per il differente andamento del sistema delle imprese, ma anche per la diversa sostenibilità del debito pubblico. Le banche infatti, pur detenendo anche titoli del debito estero, possiedono in maggior misura quelli dello stato di appartenenza. Quando è stato loro chiesto di contabilizzare i titoli del debito pubblico ai prezzi di mercato – e non, come avveniva precedentemente, al loro valore nominale – sono rimaste maggiormente penalizzate quelle che detengono i titoli meno “performanti”, cioè degli stati che soffrono il “mal di spread”. Queste ultime hanno dovuto registrare in bilancio delle minusvalenze consistenti a differenza delle banche dei paesi forti che hanno registrato plusvalenze o nella peggiore ipotesi minusvalenze meno importanti.

La strategia dell’Ue di privilegiare il salvataggio del sistema bancario attraverso l’intervento pubblico che ha provocato l’incremento del rapporto tra debito pubblico e Pil, e quindi la sostenibilità di tale debito, si è quindi ripercossa sul sistema bancario che lo detiene. L’errore è stato quello di voler salvare le banche anziché i paesi membri. Alcune vie di uscita individuate, la collocazione dei titoli sul mercato, l’intervento del paese d’appartenenza e il Mes, presentano tutte delle evidenti criticità.

Viene proposta, da parte dei liberisti, anche una diversa soluzione. I bilanci delle banche troppo esposte verrebbero ripuliti conferendo i crediti cattivi, privi di valore di mercato, a una “bad bank” a un prezzo dettato da alcune regole contabili. La contraddizione è lampante. Se i liberisti considerano il mercato infallibile perché c’è bisogno di stabilire dei prezzi che il mercato non è in grado di riconoscere? Ovvia risposta: per salvare le banche! Se questi crediti valgono quanto il 2 di picche e si deve salvare la banca, bisogna che essa possa realizzarci qualcosa, trasferendo i rischi a un altro soggetto. Alla fine dei conti, per salvare il sistema bancario bisogna tirare fuori tanti soldi. Sono graditi quelli pubblici.

Per le banche a rischio di default le regole europee prescrivono un altro strumento, il “bail-in”. Esso prevede una gerarchia di creditori da soddisfare in misura totale o parziale, in analogia alle procedure fallimentari o di concordato preventivo, trasferendo quindi le perdite sui risparmiatori. Questo meccanismo è stato imposto alle banche relativamente piccole, ma non al Monte dei Paschi, “too big to fail”, la cui ricapitalizzazione è avvenuta con l’intervento dello Stato ed è una delle cause dell’aumento del debito pubblico. Debito che viene collocato prevalentemente presso il sistema bancario. Quindi, mentre lo Stato si indebita per salvare le banche, altre banche si arricchiscono sul suo debito e vi destinano una quota rilevante dei loro impieghi, sottraendoli agli investimenti produttivi. Nel contempo rischiano di vedere svalutato il proprio patrimonio a causa della crescente insostenibilità del medesimo debito [5]. Questa spirale perversa potrebbe essere arrestata solo da un’Europa solidale… se esistesse.

È noto che il debito pubblico, è fortemente legato alle regole europee. Abbiamo già visto che divorzio fra Banca Centrale e Tesoro ha messo il debito pubblico alla mercé dei mercati, impedendo il controllo dei tassi di interesse. Ma la sostenibilità di un debito dipende in larga misura dal tasso di interesse a cui viene contratto. Gli economisti in genere concordano su un criterio: il debito è sostenibile se la crescita del Pil è superiore al tasso di interesse. In tempi di stagnazione i paesi col mal di spread sono costretti a avanzi primari paurosi per non venire avvolti nella spirale del debito. Ma ciò produce ulteriore recessione e alla fine dei conti si rivela inutile.

Le regole Ue incidono sul debito anche per una via meno diretta. La perdita di sovranità monetaria toglie alle economie meno competitive lo strumento della svalutazione monetaria per rendere più a buon mercato le proprie produzioni nel mercato mondiale e più onerose le importazioni. Mancando questa possibilità, i conti con l’estero si aggiustano, specie se l’innovazione latita, solo abbassando il costo del lavoro. In tal modo non solo le nostre merci divengono più competitive, ma si riducono i consumi interni e quindi il fabbisogno di importazioni. Purtroppo anche i paesi più competitivi praticano il dumping salariale e così i massacri sociali compiuti da Maastricht in poi dai più deboli non impediscono che i “frugali” abbiano crescenti avanzi nelle partite correnti con l’estero, di cui i disavanzi dei cosiddetti Piigs sono il riflesso speculare [6].

Dobbiamo di conseguenza considerare il rapporto fra fra la sostenibilità del debito pubblico e i conti con l’estero. Se un paese importa più di quanto esporta, è perché consuma più di quanto produce e quindi ha un risparmio interno negativo o comunque insufficiente ad assorbire il debito pubblico. Lo Stato quindi si indebita maggiormente verso operatori stranieri. Se non si riesce a contenere la forbice dei conti con l’estero, il paese debitore potrebbe essere costretto a uscire dall’euro e riacquistare la sovranità monetaria per poter svalutare la propria valuta. Potrebbe decidere anche di ridenominare il proprio debito nella nuova valuta e con ciò anche i detentori stranieri (prevalentemente banche) vedrebbero ridurre il valore del loro portafoglio. Lo spread non è solo un premio che i creditori richiedono per il rischio di default dello stato debitore, ma anche per il rischio, più plausibile, che lo stesso stato decida di denominare il proprio debito in una valuta destinata a essere svalutata. Questo spiega perché paesi come il Giappone, avente un debito pubblico in percentuale al Pil doppio del nostro, circa il 250%, non sono sotto attacco della speculazione, mentre lo sono paesi che hanno un rapporto debito/pil molto inferiore, addirittura, al 60% stabilito a Maastricht.

Esiste un ulteriore rapporto fra debito pubblico e conti con l’estero. I pagamenti internazionali si effettuano attraverso addebiti e accrediti fra le banche passando per le banche centrali. Nel complesso il sistema bancario di un paese in strutturale disavanzo con l’estero risulta perciò indebitato verso le banche straniere, sia pure al netto degli investimenti degli operatori stranieri in quel paese. Per fare fronte alla regolazione dei saldi passivi si preleva dalle riserve di valuta estera che garantiscono i depositi, riserve che in tal tal modo si assottigliano. Qualora parte dei crediti concessi ai clienti non rientrasse, le banche andrebbero a rischio di insolvenza. Se poi ne vengono a conoscenza i depositanti, questi ultimi si affretteranno a ritirare i depositi, approssimando il fallimento delle banche stesse. A questo punto, per salvare il sistema bancario, deve intervenire lo Stato trasformando il debito privato in debito pubblico.

Pertanto gli squilibri crescenti non sono il risultato di situazioni contingenti, ma strutturali e consequenziali alle regole europee. Il Quantitative Easing di Draghi e il recente accordo sul Recovery Fund tentano di mettere una piccola pezza a questa grande lacerazione. Il primo ha permesso di togliere dalla pancia del sistema bancario titoli pubblici a rischio, di prevenirne così il collasso e di ridurre lo spread. Ma non ha colto l’obiettivo, se non in minima parte, di elevare il tasso di inflazione e anche i risultati nell’economia reale sono stati di scarso rilievo perché la maggior parte della liquidità immessa è andata a finire nel sistema bancario che poi, con un’economia che non tira, ha preferito investire in borsa piuttosto che nell’economia reale. Solo che i profitti realizzati in tal modo sono frutto di bolle destinate prima o poi a scoppiare o comunque prelievi dal plusvalore complessivo prodotto o futuro; quindi sottrazione di ricchezza a qualcun altro, specialmente ai paesi più fragili, alle classi più povere e agli stati indebitati. A differenza dei monetaristi, noi non crediamo che le banche centrali da sole, neppure con gli strumenti “non convenzionali” siano in grado più di tanto di guidare il sistema bancario, che si muove secondo la propria convenienza. Da qui l’importanza di un controllo pubblico del sistema bancario.

Non è un caso che di fronte all’emergenza Covid le risposte più appropriate sono venute, per esempio, dalla Cina che – qualunque opinione si abbia del suo sistema economico – esercita uno stretto controllo pubblico sul sistema bancario ed è stata in grado di indirizzare i flussi finanziari in funzione degli obiettivi economici e sociali pianificati, cosa che Federal Reserve e Bce non hanno potuto fare, nonostante la massiccia immissione di liquidità. Pur essendo la prima nazione colpita dal Covid, che quindi ha dovuto affrontarlo meno preparata, la Cina registra una crescita economica del 3,2% (11,5 nel secondo trimestre) e un calo della disoccupazione, mentre in Occidente le percentuali del Pil sono negative (talvolta a due zeri) e la disoccupazione è in crescita.

Per quanto riguarda il Recovery Fund, siamo di fronte a un intervento concepito come eccezionale e limitato nel tempo per mitigare i danni indotti dal Covid-19. Di conseguenza è ignorata la natura strutturale della crisi. Sono preoccupanti le condizionalità che vi sono previste, l’enorme aumento del debito pubblico che porterà con sé e la quasi certa chiamata dei lavoratori a fare ulteriori sacrifici per rimettere in ordine i conti , una volta terminata l’emergenza. Non siamo di fronte all’inizio di un nuovo corso dell’Unione Europea ma a cambiamenti divenuti indispensabili per fronteggiare sia la situazione emergenziale, sia l’oggettiva perdita di egemonia dei paesi che hanno seguito l’impronta monetarista a vantaggio di quelli che hanno adottato un modello di sviluppo a forte direzione statuale. Ma questi cambiamenti avvengono per tutelare gli interessi del grande capitale: cambiare tutto per non cambiare niente. Un ruolo più pregnante dello Stato nel nostro paese – se si eccettuano i pochi decenni di parziale attuazione della Carta costituzionale, sotto la spinta di grandi lotte di classe – si è affermato nel ventennio fascista, in vista di una terribile guerra.

La proprietà pubblica e l’intervento dello Stato sono una condizione necessaria ma non sufficiente per una reale inversione di tendenza. La partecipazione finalizzata al solo salvataggio, escludendo rigorosamente che lo stato gestisca le imprese, non può cambiare i meccanismi economici. E neppure la sola gestione pubblica, per altro esplicitamente esclusa dal nostro governo, se essa avviene con criteri privatistici.

Occorre però ammettere e denunciare che, nelle more della costruzione dell’Unione bancaria europea, non tutti i paesi europei sono inerti come il nostro. Il Regno Unito, che ormai è fuori dall’Ue, partecipa a ben tre banche pubbliche; la Francia partecipa con 40 miliardi alla Banque Publique d'Investissement, la gemella della nostra Cassa Depositi e Prestiti a cui però il nostro stato partecipa per soli 20 miliardi; l’omologa banca tedesca Kreditanstalt für Wiederaufbau, è interamente pubblica (80% Stato e 20% Länder) e viene utilizzata per praticare ciò che è vietato ai governi: aiuti di stato alle imprese per promuovere le eccellenze tecnologiche. Tra i compiti della banca tedesca c’è anche l’emissione di biglietti di banca, un vero e proprio surrogato della moneta.

Se la nostra opinione rimane che il problema vero sia la gabbia dell’Ue e la soluzione vera sia uscirne, quanto meno il nostro governo potrebbe andare un po’ più in là del galleggiamento nel breve termine e provare a indicare una prospettiva di uscita dalla crisi.

 

Note:

[3] Il credito a breve avveniva sovente attraverso lo sconto di cambiali. Il cliente cedeva alla banca cambiali in suo possesso, emesse da (o tratte su) propri creditori. La banca gli anticipava il valore attuale del titolo, detraendo dal suo valore nominale uno sconto calcolato al tasso vigente per il tempo intercorrente dal momento dello sconto alla scadenza del titolo. L’istituto di credito che ne ne veniva così in possesso poteva presentare questi titoli alla Banca centrale per farsi anticipare a sua volta il valore detratto uno sconto al tasso di riscontro, un indicatore preso a base per determinare, maggiorandolo opportunamente, tutti gli altri tassi praticati. La banca poteva così lucrare sulla differenza fra il tasso di sconto da essa praticato al cliente e il più basso tasso di riscontro.

[4] K. Marx, Il Capitale, Libro III, a cura di M. L. Boggeri, Ed Riuniti, 1989, sez. quinta, pp. 561-609.

[5] È di questa estate la notizia che Unipol Sai “con grande rammarico” venderà massicciamente titoli di stato italiani, “privilegiando titoli di altri paesi […] Non possiamo fare diversamente perché il nostro mandato è amministrare al meglio i soldi degli assicurati e degli azionisti”. Anche questa società ha ritenuto che tenere in pancia troppi titoli del debito italiano fosse a rischio di svalutazione patrimoniale.

[6] Acronimo che sta per Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna.

06/10/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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