Conoscere e combattere la legge che restaura il potere padronale assoluto. La lotta contro il Jobs Act continua, anzi è appena iniziata.
di Pietro Antonuccio
1. La scorsa settimana il Governo Renzi ha approvato il decreto legislativo che contiene la seconda parte del così detto “Jobs Act”, denominazione con cui si designa l’insieme dei provvedimenti che hanno lo scopo di cancellare i diritti dei lavoratori faticosamente costruiti nei decenni di lotte successive all’ultimo dopoguerra.
La motivazione, divulgata con ogni mezzo, è che la cancellazione dei diritti servirà alla ripresa economica, a creare nuova occupazione: gli imprenditori non avrebbero assunto finora perché i lavoratori erano troppo tutelati; ora invece rilanceranno investimenti ed assunzioni perché avranno “mano libera” nell’imporre le condizioni contrattuali (e i licenziamenti).
È una motivazione inconsistente: la disoccupazione dipende dall’arretramento dei margini di profitto in tutta l’economia reale, a beneficio delle rendite finanziarie, e non sarà il minore costo del lavoro ad invertire questa tendenza.
È chiaro invece che l’intera manovra serve semplicemente, a fronte della crisi in atto, a ridurre i redditi e il potere contrattuale delle classi lavoratrici per salvaguardare i margini di manovra delle classi proprietarie e imprenditrici.
Non sarà l’abolizione dei diritti a creare nuovi investimenti o nuovo lavoro; il suo effetto sarà solo di creare un lavoro più conveniente per l’impresa a scapito della sicurezza e della dignità di chi dovrà comunque continuare a lavorare, anche con minor reddito e in un contesto di degrado e arretramento di tutto il tessuto sociale.
2. Di fronte al dato di fatto dell’avvenuta approvazione della seconda parte del Jobs Act (sulla prima parte, il famigerato Decreto Poletti sui contratti a tempo determinato, abbiamo già scritto sul primo numero de “La Città Futura”), la cosa più necessaria è anzitutto conoscere l’esatto contenuto di questo nuovo provvedimento governativo.
Per questo pubblichiamo qui, nella sua versione integrale, il decreto legislativo approvato il 24 dicembre scorso, con il contributo decisivo - non bisogna dimenticarlo - della cosiddetta “opposizione di sinistra” interna al PD che, al di là di inutili dichiarazioni, ha votato la legge delega che, con i suoi emendamenti, e in tal modo ha consentito al governo di emanare questo decreto legislativo.
Il primo e fondamentale punto è enunciato nell’art.1: a tutti i lavoratori assunti a partire dalla data di entrata in vigore del decreto, anche in aziende che impiegano più di 15 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo non si applicherà l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori bensì le “disposizioni di cui al presente decreto”.
Si tratta, in particolare, di quanto disposto dai successivi articoli 3 e 4 del decreto.
E significa che, anche quando il Giudice avrà accertato la illegittimità del licenziamento, non potrà comunque essere stabilita la prosecuzione del rapporto di lavoro, cioè il lavoratore non potrà comunque essere reintegrato nel suo posto di lavoro. Il licenziamento, anche se riconosciuto illegittimo, resta comunque una specie di “atto sacro”. È intangibile, in quanto emanato dall’impresa sovrana: anche se è riconosciuto come illegittimo (cioè contrario alla legge) non si torna indietro, il licenziamento non può essere cancellato. Il lavoratore resta comunque fuori, illegittimamente licenziato, ma legittimamente disoccupato.
A fronte del licenziamento riconosciuto illegittimo, il Giudice comunque “dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento”, così recitano gli articoli 3 e 4, e condanna il datore di lavoro ad una indennità per il veniale peccatuccio dell’illegittimo licenziamento: due mensilità (ridotte a una se il vizio era di tipo procedurale) per ogni anno di “servizio” svolto dal lavoratore ingiustamente licenziato. Festa finita, si può tornare a casa.
3. Il congegno con cui viene determinata l’indennità per il licenziamento illegittimo (due o una mensilità per ogni anno di anzianità lavorativa) ha dato modo di denominare i contratti di lavoro che saranno stipulati da ora in poi come “contratti a tutele crescenti”.
Questo perché, più si è lavorato e maggiore diventa l’indennità che si percepisce in caso di licenziamento illegittimo: indubbiamente è una grande tutela quella di avere una o due mensilità in più per ogni anno di lavoro svolto, quando in cambio viene tolto il diritto a mantenere il proprio lavoro e ad avere tutto il risarcimento del danno maturato a causa dell’ingiusto licenziamento, come previsto dall’art.18 dello Statuto!
Soltanto l’ipocrisia della propaganda da cui siamo bombardati poteva trovare una tale denominazione per la nuova realtà di precariato a vita a cui vengono così condannati tutti i nuovi assunti.
Il fatto di avere un contratto a tempo indeterminato non vorrà dire più nulla in termini di stabilità del rapporto di lavoro, perché il lavoratore a tempo indeterminato potrà essere liberamente licenziato in qualsiasi momento, non esistendo più il diritto alla reintegrazione in caso di licenziamento contrario alla legge e ai contratti collettivi. In questo contesto, parlare di “tutela crescente” ha l’amaro sapore, oltre che dell’ipocrisia più sfacciata, di una indegna presa in giro delle persone, con le loro famiglie, che dal proprio lavoro dipendono.
4. Viene, però, sbandierato, come grande concessione, il mantenimento della applicabilità dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori in caso di licenziamento discriminatorio o in caso di licenziamento disciplinare, cioè motivato da un accusa rivolta al lavoratore per fatti specifici (come un furto in azienda) allorché risulti del tutto inesistente il fatto materiale di cui il lavoratore era stato accusato.
È chiaro, invece, che non è affatto una grande concessione, ma solo una piccola “foglia di fico”, perché l’onere della prova del carattere discriminatorio del licenziamento è a carico del lavoratore, ed è noto che si tratta di una prova difficilissima da fornire in giudizio, essendo molto più facile per l’impresa “mascherare” il vero motivo del licenziamento con altri pretesti a partire da quello meramente economico o della necessità di “ristrutturare l’organizzazione produttiva”, e la stessa insussistenza materiale del fatto addebitato rimane applicabile in una piccolissima percentuale dei casi di licenziamento.
In ogni caso, il fatto di poter impunemente licenziare per motivi economici o procedurali, come da oggi espressamente induce e incoraggia a fare questo “Jobs Act”, fornisce una comodissima soluzione per i datori di lavoro che vogliono sbarazzarsi dei dipendenti scomodi o semplicemente non graditi. Nessuno licenzierà con motivazioni espressamente discriminanti o basate su addebiti disciplinari: sarà molto più facile e tranquillo licenziare per asseriti motivi economici, tanto - pure in caso di ritenuta illegittimità - la conseguenza sarà solo una piccola indennità.
E si può ben pagare una multa pur di … fare ordine in azienda!
5. Gli effetti micidiali di queste nuove disposizioni normative, anche in termini di azzeramento delle possibilità di rivendicare diritti in azienda, non hanno bisogno di altro commento per essere capiti.
Più che commentare, dovremmo cercare insieme di capire come si può contrastare questo percorso reazionario degno delle destre più aggressive sul piano sociale in appoggio alla restaurazione del potere assoluto delle classi padronali. A partire dalla mobilitazione di tutto il mondo del lavoro che, dopo le manifestazioni e gli scioperi dello scorso autunno, deve tornare quanto prima a far sentire la sua presenza e il suo antagonismo.
Sul piano giuridico, dovremo certamente pensare a tutte le forme in cui sollevare il problema della flagrante incostituzionalità delle “riforme” renziane del diritto del lavoro e studiare anche - quanto prima - la praticabilità del percorso, già suggerito da Piergiovanni Alleva, di promozione di un referendum abrogativo che cancelli la “controriforma”, facendo rivivere, anche per i nuovi assunti, l’art.18 dello Statuto.
È una battaglia decisiva in cui dobbiamo gettare tutte le nostre forze. Diversamente, il diritto del lavoro sarà ridotto a una “riserva indiana” sempre più ristretta in cui i “vecchi assunti” permarranno fino a esaurimento e sotto la spinta selvaggia di un ricambio finalizzato alla loro sostituzione con la manodopera “più flessibile” e costretta a lavorare senza tutele. E le condizioni di lavoro peggioreranno per tutti.
Non possiamo e non dobbiamo permetterlo.