I soldi veri si fanno col lavoro (degli altri)

L’intervista di papa Bergoglio al Sole 24 ore parla, da buon amico, ai capitalisti incoraggiandoli a fare soldi, ma con il lavoro degli altri.


I soldi veri si fanno col lavoro (degli altri)

La lunga intervista che papa Bergoglio ha rilasciato al Sole 24ore è stata molto ripresa dai principali mass media, ma uno straccio di atteggiamento critico è difficilissimo trovarlo. Proviamo noi a discuterne.

Il testo è molto lungo e non c’è lo spazio qui per riferire e commentarne tutti i contenuti che vanno dalla competizione economica, alla critica – un po’ reazionaria per la verità – del progresso tecnologico, all’allarme per le sofferenze degli esclusi, gli “scarti” umani, e per “il grido di dolore degli altri”, al bisogno di solidarietà, amore, compassione, misericordia, tenerezza... e così via spalmando miele. Poi si trovano passi a proposito delle ingiustizie su scala mondiale, del problema ecologico, dei migranti, dell’Europa ecc. Ma il filo conduttore di tutto è il solito interclassismo cattolico, la cooperazione e la concordia fra sfruttati e sfruttatori.

Le critiche alla gestione non etica di alcune aziende si ferma nel deprecare tali disvalori e nel sollecitare altro: “Tenere unite azioni e responsabilità, giustizia e profitto, produzione di ricchezza e la sua ridistribuzione, operatività e rispetto dell'ambiente diventano elementi che nel tempo garantiscono la vita dell'azienda. Da questo punto di vista il significato dell'azienda si allarga e fa comprendere che il solo perseguimento del profitto non garantisce più la vita dell'azienda”.

Insomma tenere insieme il diavolo e l’acqua santa, visto che lo scopo unico delle imprese, nella nostra società è indiscutibilmente il profitto. Punto. E poi poteva mancare la sviolinata verso il terzo settore, tralasciando di invocare i doveri sociali dello stato, senza cui, i diritti sociali dei cittadini, pur evocati, vanno a farsi, in questo caso non solo metaforicamente, benedire? Comprendiamo la pulsione all’autotutela del volontariato cattolico che poi, tramite organismi quali la Compagnia delle opere, si relaziona brillantemente con il “mercato”, il capitalismo e i boiardi di stato, ma poteva essere dato un colpo al cerchio e uno alla botte. No, Francesco ha preferito la botte piena e la moglie ubriaca, che è cosa impossibile senza l’ausilio di un’entità superiore una e trina di cui egli è stato eletto, dai porporati, rappresentante in terra.

Costante è l’ammiccamento alla collaborazione fra le classi sociali (“l’umanità è un’unica famiglia”), partendo però da una visione opposta a quella individualista – e ciò lo condividiamo – secondo cui gli uomini non vivono isolati, come Robinson Crusoe nella sua sconosciuta isola, ma interagiscono e insieme costruiscono la società. Basterebbe aggiungere che anziché i singoli individui occorrerebbe considerare le classi sociali, che un buon cristiano dovrebbe schierarsi a favore di quelle sfruttate, che alle imprese bisogna porre dei vincoli, come dice la nostra Costituzione e non solo auspicare un modo diverso di “pensare l’azienda”, ma ciò sarebbe una rivoluzione rispetto alla dottrina sociale della Chiesa, e questo Papa, al di là dell’immagine costruitagli intorno, non è proprio un rivoluzionario, può al massimo dettare qualche raccomandazione perché si sfrutti con un po’ più di umanità, sapendo bene che queste raccomandazioni non possono che cadere nel vuoto. Ma allora niente di nuovo sotto il sole, almeno dalla Rerum novarum del 1891!

O meglio, una novità c’è perché questa dottrina viene declinata per corrispondere alla fase attuale del capitalismo. Per comprendere il significato del suo messaggio penso che sia fondamentale discutere l’affermazione non a caso maggiormente riportata dagli organi di informazione: L'attuale centralità dell'attività finanziaria rispetto all'economia reale non è casuale: dietro a ciò c'è la scelta di qualcuno che pensa, sbagliando, che i soldi si fanno con i soldi. I soldi, quelli veri, si fanno con il lavoro”.

Questo brevissimo passo contiene due importanti concetti: la critica alla finanziarizzazione dell’economia e il lavoro come unica fonte della ricchezza. Allora tutto bene? Vediamo.

Per quanto riguarda la critica alla finanziarizzazione il peccato (mi si perdoni, ma anche i papi si confessano, quindi peccano) è veniale in quanto Francesco è in buona compagnia e può vantare al suo fianco il fior fiore di economisti e politici “di sinistra”. La finanziarizzazione sarebbe una malattia dovuta alla cupidigia umana che dovrebbe essere se non combattuta – perché i papi combattono solo contro il comunismo – almeno riprovata, senza la necessità di mettere in discussione il capitalismo, in modo che le risorse finanziarie possano essere reindirizzate verso le attività produttive. Noi cocciuti comunisti, però, abbiamo sostenuto che a monte della finanziarizzazione c’è l’inceppamento del meccanismo di accumulazione del capitale, che non trova sufficienti margini di profitto nell’economia reale e che pertanto si dirotta verso la finanza. E se ai capitalisti, manovrando la finanza, tornano i conti, dal loro punto di vista non c’è niente di “illusorio”, e le loro aziende hanno “garantita” la vita, salvo produrre danni sociali e deficit di democrazia, cosa che non riguarda i capitalisti. Se non si interviene a monte, sulle cause, cioè se non si supera il meccanismo dell’allocazione delle risorse guidato dalla sola bramosia di accumulare profitti e se non si demandano, quantomeno, le decisioni strategiche di investimento al pubblico o, come direbbe Marx, ai “produttori associati” e non alla classe dei capitalisti, ci si comporta come chi pretenderebbe di curare con un’aspirina la febbre provocata da una grave infezione.

Più grave, perché più subdolo e – mi si consenta – più gesuitico, è l’altro peccato. Del resto il papa di sinistra nell’intervista afferma che bisogna essere più astuti del demonio, che bisogna associare “la furbizia del serpente con la bontà della colomba”. Per quanto riguarda la bontà non ho elementi e non mi pronuncio, ma in questo passo, la demoniaca astuzia c’è tutta. Infatti che il lavoro sia l’unica fonte della ricchezza materiale e anche di quella “astratta” rappresentata dal denaro, è un fatto sul quale Marx ha già detto abbastanza [1]. E aggiungervi che i soldi si possono fare con il lavoro sans phrase, senza una precisa qualificazione del lavoro, è un comportamento omissivo. Perché ogni lavoratore medio sa che con il solo lavoro si campa e si riproduce la propria prole, ma non si fanno i soldi.

Certo i più fortunati per qualifica e struttura contrattuale del lavoro o per condizioni familiari favorevoli possono mettere da parte un gruzzoletto. Ma questo gruzzoletto per lo più servirà a differire i consumi, ad affrontare le necessità che sorgeranno quando un figlio deve andare all’università o deve sposarsi, o quando dobbiamo curarci o mettere una protesi dentaria, o per le ingenti spese che l’insufficienza di adeguati servizi ci costringerà ad affrontare affrontare quando, molto anziani, non saremo più autosufficienti. Tutti questi sono i consumi facenti parte del costo di riproduzione della forza-lavoro, servono appunto a campare, non sono accumulazione di ricchezza. Sì, in alcuni casi col gruzzoletto e un buon mutuo si può anche mettere su quattro mura. Ma anch’esse fanno parte del costo di riproduzione della forza-lavoro, servono a campare, specie quando i fitti a equo canone sono un miraggio.

Allora i soldi non si fanno con il lavoro? Sì e no. Perché se è vero che il lavoratore medio non fa i soldi, “quelli veri”, è anche vero che solo il lavoro, o meglio il pluslavoro, il lavoro sfruttato, è la fonte che alimenta i profitti, sia quelli del capitalista industriale, che sfrutta il lavoro direttamente, sia dei capitalisti mercantili, finanziari ecc. che prelevano nella sfera della circolazione una parte del plusvalore creato dai lavoratori produttivi. La qualificazione necessaria del motto bergogliano avrebbe dovuto farlo suonare, pertanto, così: i soldi si fanno con il lavoro degli altri, ma quando mai la Sacra Romana Chiesa ha disvelato l’arcano del capitalismo?

E così l’auspicio di Francesco è che i capitalisti continuino a sfruttare per fare i soldi, quelli veri, però con le buone maniere. E infatti non batte ciglio quando l’intervistatore parla di “creazione” di valore da parte dell’imprenditore, della simpatia di Gesù per gli imprenditori che rischiano, e apologie varie, limitandosi a rievocare la “passione e progetti, fatica e genialità” degli imprenditori confindustriali con cui ha avuto di recente modo di incontrarsi. Per poi proseguire: “Credo sia importante lavorare insieme per costruire il bene comune ed un nuovo umanesimo del lavoro, promuovere un lavoro rispettoso della dignità della persona che non guarda solo al profitto o alle esigenze produttive ma promuove una vita degna sapendo che il bene delle persone e il bene dell'azienda vanno di pari passo”.

E più avanti: “Le imprese possono dare un forte contributo affinché il lavoro conservi la sua dignità riconoscendo che l'uomo è la risorsa più importante di ogni azienda, operando alla costruzione del bene comune, avendo attenzione ai poveri”.

Quindi la giustizia sociale e la salvaguardia del nostro pianeta possono andare di pari passo con il capitalismo. Che bello! Ci voleva un gesuita “furbo come il serpente” per annunciare questa lieta novella.


Note:

[1] Marx nella Critica al programma di Gotha scrisse appunto che “La natura è la fonte dei valori d'uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che a sua volta, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana. I borghesi hanno i loro buoni motivi per attribuire al lavoro una forza creatrice soprannaturale; perché dalle condizioni naturali del lavoro ne consegue che l'uomo non ha altra proprietà all'infuori della sua forza-lavoro e deve essere, in tutte le condizioni di società, e di civiltà, lo schiavo di quegli uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro. Egli può lavorare solo col loro permesso, e quindi può vivere solo col loro permesso”.

15/09/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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