Sulla guerra sono in molti a banchettare: industrie di armi, stati che dai conflitti traggono vantaggi economici e politici assurgendosi a potenze egemoni o piccole potenze regionali emergenti, multinazionali e speculatori finanziari.
La lista sarebbe assai lunga. Ci siamo fermati ai principali beneficiari delle guerre, ma qualche ulteriore riflessione si rende pur sempre necessaria.
A distanza di un anno e mezzo dall’esplosione della guerra in Ucraina i fatturati delle imprese belliche sono schizzati alle stelle e ancor più le azioni quotate in borsa e l’insieme dei derivati. E l’Unione Europea si muove verso la produzione di armi, in sinergia con la Nato ma sperando di conquistare spazi autonomi di mercato. Per questo in molti paesi si vanno modificando le regole che fino a oggi disciplinavano le esportazioni di armi: un po’ di sana liberalizzazione aprirà le porte a vendite vantaggiose verso paesi che non si fanno scrupoli a calpestare i diritti civili e umani.
L’Ucraina era tra i principali produttori di cereali. Alla lunga la Russia ha continuato a esportare grano, intensificando la produzione e il commercio verso paesi come Egitto, Iran e Turchia. Alcuni paesi Ue dell’Est europeo hanno condotto una battaglia senza esclusione di colpi per salvaguardare i loro prodotti a discapito degli aiuti comunitari verso l’Ucraina. Eppure le stesse nazioni sono in prima fila nel sostegno alla Nato come nel caso della Polonia. La dialettica politica è ormai lo specchio di interessi finanziari e di posizionamenti a fianco dei vincitori di turno. In questo caso sono proprio i paesi tradizionalmente conservatori e sovranisti, pur con qualche eccezione, a sostenere l’offensiva della Nato salvo poi accorgersi che questa guerra ha ripercussioni negative sulle loro stesse economie, e da qui derivano posizioni di tutela del loro sistema produttivo che determinano contrasti non con la potenza egemone (gli Usa) ma in seno alla comunità europea.
La guerra in corso, alla fine, ha favorito la produzione ed esportazione di cereali russi ma nel contempo ha reso instabile il Mar Nero da cui partivano le esportazioni di entrambi i paesi. Innumerevoli prodotti finanziari hanno perfino scommesso sui tempi di sminamento del porto di Odessa. L’andamento globale dei prezzi dei cereali è stato oggetto di speculazioni finalizzate ad alzarne i prezzi come è accaduto peraltro con gas e petrolio. È stato interesse degli istituti finanziari e degli Usa impedire in sostanza la ripresa delle esportazioni di cereali dall’Ucraina e dalla Russia.
Un autentico convitato di pietra aveva tutto l’interesse a sfruttare la guerra per elevare i prezzi di prodotti agricoli ed energetici, senza dimenticare che ci sono pur sempre le esportazioni di grano da Usa e Canada a giocare un ruolo dirimente.
Quando si parla di conseguenze economiche della guerra dovremmo conoscere meglio la speculazione finanziaria che fa lievitare o all’occorrenza abbatte drasticamente i prezzi (dipende se si è scommesso al rialzo o al ribasso), mentre i produttori continuano a ricevere le stesse cifre.
Una lunga catena di prodotti finanziari speculativi fa ormai il bello e il cattivo tempo e la guerra è da sempre terreno fertile per queste operazioni. Sarebbe sufficiente ricordare come siano stati gli strumenti speculativi finanziari su energia e beni alimentari ad avere avuto un ruolo determinante nelle impennate dei prezzi. Abbattendosi le esportazioni di cereali dai paesi in guerra, anche i paesi che meno dipendevano da queste esportazioni hanno visto raddoppiare o quintuplicare i costi perché altri paesi hanno a loro volta bloccato le esportazioni vuoi per soddisfare la domanda interna vuoi per evitare di cadere vittime delle continue oscillazioni di prezzi in un mercato drogato dagli effetti speculativi.
Sarebbe interessante comprendere come un paese un tempo a vocazione agricola come l’Italia oggi produca meno della metà del grano della vicina Francia e in quantità del tutto insoddisfacente a soddisfare il proprio fabbisogno interno. A questa domanda dovremmo rispondere con qualche riflessione sulle politiche agricole comunitarie che alla fine hanno depotenziato l’industria agroalimentare di alcune nazioni per favorire importazioni a basso costo favorite da una serie di accordi commerciali.
La guerra in corso dimostra come nel mondo globalizzato anche la semplice soddisfazione della domanda interna sia ostacolata da regole comunitarie e di mercato e da logiche speculative, le stesse che hanno impoverito molti paesi africani piegandoli alla produzione di un ristretto ventaglio di prodotti, necessari questi alle multinazionali occidentali, anche quando tradizionalmente la loro economia era stata assai variegata.
Se aumento il costo dell’energia e in contemporanea quello dei cereali finisco con il paralizzare interi rami produttivi perché il trasporto della farina subirà i rincari derivanti dall’aumento della benzina o del gasolio e perché i prodotti da lavorare avranno costi irraggiungibili.
È alquanto bizzarro che la produzione agricola italiana sia in continua discesa mentre invece la domanda industriale di tali prodotti è in leggero aumento. Non si mettono a coltura aree un tempo agricole mentre in tempi pandemici la crisi alimentare aveva spinto lo Stato e gli enti locali a ricorrere ai bonus in aiuto alle famiglie. Sono domande semplici a cui occorrerebbe dare una risposta.
A ciò si aggiunga che in ogni paese a capitalismo avanzato si è ridotta la progressività delle imposte premiando i redditi elevati da parte di un fisco generoso con i ricchi ma assai severo con i poveri e le classi medie; una politica che finisce per depotenziare il welfare anche perché contemporaneamente si intende destinare maggiori risorse da investire nella ricerca e nello sviluppo dei nuovi sistemi di arma. È accaduto negli Usa ai tempi di Reagan e presto accadrà anche nella Unione Europea dove i partiti conservatori e di destra sono favoriti alle prossime elezioni dei Parlamento comunitario.
Questa polarizzazione sociale tra ricchi e poveri, per banalizzare il discorso ma renderlo comprensibile a chiunque, è anch’esso uno dei risultati della guerra combattuta negli ultimi quarant’anni neoliberisti che alle guerre hanno fatto ampio e massiccio ricorso.