Nella loro configurazione attuale le modalità di organizzazione del lavoro ispirate a flessibilità e precarietà hanno la loro origine, genesi e preistoria nel cosiddetto ohnismo, da Ohno il primo teorizzatore di tali nuove forme di lavoro, e nel toyotismo, dal nome dell’impresa in cui per la prima volta sono stati, nel secondo dopoguerra, sistematicamente sottoposti tutti i fattori produttivi alla flessibilizzazione della produzione e della forza-lavoro secondo la logica del just in time, riducendo al minimo sprechi di tempo, assenze, porosità lavorative, numero di addetti e, di conseguenza, salari. Il toyotismo mira a rilanciare la produzione mediante l’adeguamento dell’organizzazione del lavoro alla flessibilità, ovvero alla multifunzionalità dei più moderni macchinari che è frutto dell’automazione del controllo, il risultato principale della sedicente “rivoluzione informatica e telematica” del processo produttivo. In altri termini, la rigenerata flessibilità sociale della forza-lavoro ha potuto cominciare a trasporsi in flessibilità lavorativa grazie alla mediazione della flessibilità del nuovo sistema di macchine. La portata epocale della rivoluzione dell’automazione del controllo fa leva più sulla nuova organizzazione, che rende più flessibile e efficiente il lavoro vivo, che sull’innovazione tecnologica. Ai mandatari del potere borghese si prospettò la necessità di ricreare condizioni idonee al processo di produzione e di accumulazione, attraverso i necessari termini medi, sociali, organizzativi e tecnici volti alla piena restaurazione del comando sulla forza-lavoro da parte del capitale. Solo su tali basi, in effetti, può realmente fondarsi – come loro ricaduta – la flessibilità del salario. In altri termini il sistema di capitale è riuscito a realizzare il proprio obiettivo mediante l’introiezione, entro la tecnologia e l’organizzazione sociale e contrattuale, di tutti gli ulteriori meccanismi relativi al controllo totalizzante dell’uso della forza-lavoro.
Sono apparsi superabili, così, i vincoli posti dalla rigidità della grande fabbrica dell’automazione del moto: taylorismo e fordismo non avevano potuto aggiungervi nulla di qualitativamente nuovo, se non le condizioni pratiche per il raggiungimento della soglia estrema consentita da quel particolare sistema di macchine. La rigidità del sistema di macchine della linea di montaggio taylorista, nel mondo intero, si è consumata in qualche decennio. D’altronde – proprio a causa di quell’incoerenza tra i limiti imposti dalla rigidità meccanica e l’esigenza categorica della flessibilità lavorativa – la classe operaia riuscì via via a bloccare la forzosa flessibilità lavorativa corrispondente alla grande fabbrica. Il compito operaio fu relativamente facile sul piano tecnico. Tutte le difficoltà vertevano sulla costruzione sociale di una rigidità di classe, antagonistica e di massa. Ma una volta raggiunta, nel resto del mondo imperialistico, essa concorse a porre termine all’ultimo ciclo di sviluppo postbellico, nella seconda metà degli anni sessanta. Solo allora gli esiti della lotta di classe evidenziarono le difficoltà di controllo capitalistico sulla crescente rigidità operaia. Il superamento del taylorismo tradizionale, in effetti, si fonda precisamente e unicamente sulla possibilità di rottura della rigidità della trasferta di linea. Per il resto, tutti i principî del taylorismo-fordismo – e anche i precedenti smithiani della divisione del lavoro – sono completamente mantenuti nell’ohnismo-toyotismo.
Se il risultato principale della prima rivoluzione industriale è l’automazione del moto, che trasponeva nelle macchine il lavoro manuale, la seconda rivoluzione informatica e telematica traspone nelle macchine il lavoro fisico cerebrale mirando all’automazione del controllo, cui corrisponde una modalità di lavoro che delega ai lavoratori il controllo del processo lavorativo.
La flessibilità del nuovo processo di lavoro è la parola con cui è stata caratterizzata questa realtà con cui fare i conti a livello planetario. Per la prima volta nella storia dell’industria moderna, in effetti, la flessibilità del nuovo processo di lavoro rende possibile la simultaneità della doppia flessibilità di lavoro e macchine. Per cui è errato considerare solo gli aspetti di discontinuità racchiusi sotto il nome debole di post-fordismo. Per tale via, il plusprodotto viene estorto tramite un sistema di consensualità basato sulla lealtà e senso del dovere nei confronti dell’autorità – oggi gestito da un’aristocrazia proletaria garantita e gerarchicamente strutturata a protezione del padronato nei confronti di una classe lavoratrice inferiore.
Il fenomeno del lavoro precario in Giappone è ormai così rilevante che si usano due termini differenti per i due tipi di lavoro: shigoto è il termine classico che implica impegno e partecipazione, di contro ad arubaito che è il neologismo di derivazione tedesca per il lavoro inferiore, sempre più ricattabile e asservibile, che costituisce il cosiddetto “mercato mercenario”, ovvero il lavoro non garantito.
Questa maggiore “partecipazione” agli interessi del capitale fa sì che esso disponga anche di un tendenziale annullamento delle scorte. La sola grande produzione diviene così più flessuosa, elasticizzata nell’eleganza della “personalizzazione” dei gusti, nell’abbraccio-tipo con una domanda-qualità degli individui che contano.
Il toyotismo giapponese della ristrutturazione postbellica si è esteso, secondo le differenze storiche delle legislazioni mondiali. Flessibilità informatica e tecnologica per piegare la forza-lavoro a una riorganizzazione che appaia tecnicamente dominata dalle macchine. Dominata dal progresso dunque, non dal capitale che può disporre incontrastato del lavoro.
Le condizioni di lavoro e del lavoro sono perciò caratterizzate dal contesto generale di questa ristrutturazione del processo lavorativo. La precarietà diviene un cardine del sistema – in corrispondenza della flessibilità del processo – da riguardare oggi con molta maggiore attenzione di quanto i seguaci delle categorie keynesiane considerino la questione della disoccupazione. La precarietà del lavoro è reale, prima di essere percepita come disagevole sensazione; l’irregolarità del rapporto di lavoro – lo si chiami “lavoro nero” o “economia sommersa” – è ormai una caratteristica di tendenza dominante, in forme diverse, in tutto il mercato capitalistico.
La fase di rivoluzione tecnologica automatica del controllo è stata indirizzata, in effetti, per sostenere la ristrutturazione del processo di lavoro e del suo mercato su scala mondiale. La forma adeguata da essa assunta si manifesta, da un lato, attraverso la ricostituzione dell’esercito di riserva con valenza internazionale: nella periodizzazione, nella localizzazione geografica, nelle implicazioni migratorie – di lavoro e capitale –, nella composizione – differenze di genere e di etnia –, nella strutturazione interna – precarietà, marginalità, stagionalità, partecipazione al rendimento.
Il tema centrale attorno al quale ruota tale controffensiva capitalistica – che va sotto il nome di flessibilità – verte su come organizzare la generale riduzione del salario innestata sull’articolazione diversificata della riduzione dell’orario di lavoro: part-time, ossia lavoro a tempo parziale, job sharing, ovvero un posto per due, contratti a termine, di formazione e di ingresso, lavoro interinale o in affitto e altri sistemi di riduzione congiunta di salario e di orario. Ciò può tradursi anche in una riduzione dell’orario per una parte dei lavoratori, ma in generale implica l’estendersi del comando sul lavoro sull’intero tempo di vita. Una costante del sistema è tendere all’allungamento della giornata lavorativa per quella sola parte creativa di plusvalore, destinata a essere integralmente appropriata dal capitale.
Il capitale oggi si muove per affermare stabilmente la sua ripresa di comando sul lavoro, e, su questa base, per ristrutturare la società nel suo complesso e rafforzare a proprio vantaggio gli attuali rapporti di classe. Nella strategia che il capitale mette in atto nei confronti del lavoro salariato – crollato il mito del benessere mediante una produzione illimitata e senza crisi, insieme a quello del “posto fisso” – l’intera società, e quindi anche la vita in genere, ha da essere organizzata come polmone del processo lavorativo e in funzione delle esigenze di una fase di crescita “frenata”. Tutta la precarizzazione, come il salario, è il contenimento sociale necessario all’ulteriore rapina dominante del plusvalore, è la più efficace indistinguibile sostituzione, ove possibile, della repressione poliziesca.
Il nuovo modello di impresa, che si sta affermando a livello globale e che non esisterebbe senza Internet, è detto a rete flessibile in quanto si serve di migliaia di fornitori in subappalto e sub-subappaltanti, nessuno dei quali ha la minima possibilità di prevedere il futuro, in quanto dipendono in tutto dalle sue commesse. Quindi, moltiplicati per n imprese, n corporations di grandi dimensioni, significa milioni di fornitori piccoli e medi nel mondo che non sanno assolutamente che cosa la settimana prossima gli riserverà il destino produttivo. Tale sistema dell’impresa-rete si fonda sulla produzione just in time, ovvero sul tentativo di rispondere in tempo reale al variare della domanda grazie alla flessibilità produttiva.
In tal modo, ciò che il disegno neo-liberale implica è che l’impresa mira a scaricare sui lavoratori l’impossibilità di prevenire le oscillazioni del mercato rendendo flessibili gli orari di lavoro e facili gli esuberi con l’assenza di vincoli ai licenziamenti. Le imprese rete hanno un bisogno assoluto di avere flessibilità per quanto riguarda l’impiego di forza lavoro perché se ad esempio ricevono un ordine di duecento pezzi, quando loro pensavano di produrne quattrocento, avranno una quantità di mano d’opera eccedente, da tagliare immediatamente affinché non divenga un faux frais della produzione. La necessità di far fronte all’imprevedibilità del futuro, che prima era responsabilità primaria dell’impresa, viene così trasferita per intero sulle spalle dei lavoratori flessibili, in quanto si tende a scaricare sul lavoro in generale le oscillazioni dell’impiego della forza lavoro che il just in time rende necessario, tanto che si è parlato di scaricamento dei rischi dallo Stato e dall’economia sugli individui. È il singolo lavoratore flessibile e precario, che non sa se lavorerà ancora tra qualche mese, a dover far fronte alla imprevedibilità del futuro.