Dopo aver affrontato nello scorso numero di questo giornale le problematiche attuali dell’immigrazione, si è cercato in quest’articolo di riassumere i lineamenti fondamentali della questione. Troppo spesso l’essenza, ovvero le cause strutturali e sovrastrutturali, del fenomeno dell’immigrazione è data per scontata, considerata nota, ma proprio perciò, come insegna Hegel, non è realmente conosciuta.
di Renato Caputo
È ormai sotto gli occhi di tutti che lo sviluppo del modo di produzione capitalistico tende alla costruzione del mercato mondiale. Se tale tendenza, come riconosciuto da il Manifesto, ha l’aspetto positivo di superare l’isolamento e la separazione del genere umano, dall’altro lato comporta la progressiva riduzione di qualsiasi cosa a merce spendibile sul mercato mondiale. Dal momento che la maggioranza della popolazione mondiale non dispone di altro per poter vivere che della propria capacità di lavoro, è costretta ad alienarla al mercato, le cui dimensioni, come abbiamo visto, sono ormai, dopo lo scioglimento dell’Urss e la sconfitta della sinistra nella Repubblica popolare cinese, mondiali.
A questo punto è la legge della domanda e dell’offerta a presiedere e indirizzare, secondo le esigenze del profitto, i flussi migratori. La mano d’opera, sempre più sovraprodotta dalla privatizzazione e meccanizzazione del lavoro nelle campagne, è spinta, per poter sopravvivere e riprodursi mediante la alienazione della propria forza lavoro, a raggiungere le aree industriali e urbane.
Questo avviene costantemente all’interno dei singoli paesi. Pensiamo ai milioni di uomini che abbandonano le campagne cinesi per raggiungere le metropoli e i centri della produzione industriale, pensiamo alle centinaia di migliaia di meridionali costretti tutt’ora a emigrare nelle città e nelle zone industriali del centro-nord. Evidentemente però, essendo il mercato mondiale, ed essendoci molti paesi in cui non esiste una zona industriale in grado di assorbire la mano d’opera agricola, quest’ultima è costretta a cercare di sopravvivere alienandosi in altri paesi.
Un discorso analogo vale, soprattutto in periodi di crisi come il nostro, per la forza lavoro intellettuale che non riesce a trovare nella propria regione, nella propria nazione o addirittura nel proprio continente un mercato in cui vendersi per poter valorizzare le proprie competenze e ottenere un salario adeguato per potersi riprodurre.
Si aggiunga a ciò che ormai da quasi un secolo e mezzo la dinamica delle crisi di sovrapproduzione sempre più ravvicinate, lunghe e imponenti hanno portato il capitalismo concorrenziale a trasformarsi nell’imperialismo monopolistico. Quest’ultimo, dalla fine del diciannovesimo secolo, cerca di ovviare alla crisi di sovrapproduzione conquistando – mediante aggressioni imperialiste – nuovi mercati, materie prime e mano d’opera a basso prezzo all’estero, nei paesi non imperialisti. Considerata la dimensione limitata del pianeta terra tale politica di spartizione del mercato mondiale, resa più urgente dall’aggravarsi della crisi, aumenta i conflitti e gli scontri inter-imperialistici, che si sviluppano anch’essi a livello mondiale.
Inoltre in tempi di crisi l’industria militare tende a divenire preminente, non solo per le esigenze di sviluppo in senso imperialista, ma perché consente di trasferire risorse pubbliche, ovvero crescenti quote di plusvalore, nelle tasche del capitale finanziario che controlla in modo sempre più monopolistico l’apparato militare-industriale. Al punto che già nel 1961, in un discorso alla nazione, persino il presidente degli Stati Uniti, per altro un generale guerrafondaio, Eisenhower non poté fare a meno di denunziare: “Nei concilii di governo, dobbiamo guardarci le spalle contro l'acquisizione di influenze che non danno garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l'ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito”.
Anche la produzione bellica rischia di essere paralizzata se le merci che produce, in primo luogo le armi, non sono vendute e consumate. Da qui la tendenza sempre più micidiale a favorire il prodursi di nuovi conflitti a livello internazionale, che ha portato persino Bergoglio a denunciare una nuova e devastante guerra mondiale, articolata in una infinità di conflitti locali. Anche perché il proliferare delle armi di distruzione di massa rende poco appetibile una terza guerra mondiale che porterebbe non solo a eliminare le merci, i capitali e la forza lavoro sovraprodotti, ma a rendere estremamente difficile se non impossibile far ripartire l’accumulazione capitalistica.
Infine l’incapacità da parte del proletariato internazionale di unificarsi, per farla finita con il modo di produzione capitalista a livello internazionale, sta facendo sì che la crescente crisi del modo di produzione capitalistico produca una nuova era di barbarie, rappresentata in modo emblematico dal risorgere in tutto il mondo del fondamentalismo religioso, della teocrazia, della xenofobia e del nazi-fascismo. Del resto già Marx aveva lanciato l’allarme, denunciando che se la crisi del capitalismo non fosse stata risolta in senso socialista avrebbe prodotto una nuova barbarie.
Dunque le aggressioni imperialiste, le guerre indotte dall’esigenza del profitto, la nuova barbarie fondamentalista e xenofoba fanno aumentare in modo esponenziale il numero delle persone costrette ad abbandonare le loro case, i loro paesi, i loro continenti. Tutto ciò è favorito, in modo più o meno occulto, dalle classi dominanti che hanno tutto l’interesse a creare una sovrabbondanza di offerta di forza-lavoro rispetto alla domanda, che ne fa scendere il prezzo anche al di sotto del necessario per la sua riproduzione. Tale eccesso di offerta rispetto alla domanda dà al capitale la possibilità di imporre sempre più le proprie condizioni di utilizzo aumentando gli orari, i ritmi, i ricatti, fino al risorgere dello stesso lavoro servile.
Tutto ciò, insieme allo sfruttamento in senso capitalistico della crisi, per ridurre ulteriormente il salario e peggiorare le condizioni di lavoro, sono la causa oggettiva, strutturale della debolezza attuale a livello internazionale delle forze sindacali e politiche che cercano di tutelare gli interessi dei lavoratori salariati. Evidentemente ciò è vero per chi intende appunto rappresentare i lavoratori salariati, non per chi ha intenzione di eliminare in modo rivoluzionario lo stesso lavoro salariato, per il quale si preparano condizioni oggettive sempre più favorevoli con il maturare della crisi internazionale del modo di produzione capitalista, ora che la riproduzione su scala allargata del capitale trova ostacoli persino in Cina.
Tuttavia la crisi oltre a fornire un terreno favorevole alle forze rivoluzionarie, lo offre al contempo al capitale per aumentare il pluslavoro e il plusvalore e ai reazionari, che si presentano come un’alternativa reale dinanzi alle forze volte all’impresa di Sisifo del riformismo, che pretende di poter realizzare un capitalismo (cioè il dominio del lavoro morto sul lavoro vivo) dal volto umano.
Inoltre le forze della reazione sono più spesso evocate che combattute dal capitale, che se ne serve come migliore antidoto contro il movimento rivoluzionario. Senza contare che le aperture al populismo di destra, fondamentalista e xenofobo, sono funzionali a compattare intorno al blocco storico della grande borghesia la piccola borghesia non di sinistra.
Tanto più che la xenofobia è funzionale al capitale per poter mantenere clandestina una parte crescente della forza-lavoro immigrata. Ciò ne consente il pieno controllo, al punto di riprodurre il lavoro servile, di ridurre sotto il minimo il salario, di non pagare le tasse, di accentuare la debolezza dei lavoratori contrapponendo gli interessi dei lavoratori regolari con i lavoratori irregolari, per lo più immigrati. Inoltre la forza-lavoro costretta alla clandestinità è talmente posta sotto il controllo di chi la acquista da essere utilizzabile anche come manovalanza per i lavori più sporchi e criminosi, favorendo così i mezzi di comunicazione che pompano la xenofobia riconducendo strumentalmente a essa la causa principale della criminalità. In tal modo si terrorizza la classe media sempre più in via di proletarizzazione e la popolazione anziana più debole e volta alla conservazione, facendone sempre più la fanteria e gli squadroni d’assalto del capitale finanziario, che la controlla ideologicamente con la stampa di destra e la televisione.
Tanto più che la cultura dominante, come già denunciavano Marx ed Engels, è sempre la cultura della classe dominante, dal momento che controlla tutti i principali mezzi di comunicazione e formazione del consenso. Nella società capitalista essi sono sotto il controllo generalmente del grande capitale finanziario che impiega come mano d’opera sovente esponenti del ceto medio e della piccola borghesia conservatori e piuttosto propensi al populismo di destra, fondamentalista e xenofobo.
In tal modo sebbene da anni non ci siano più dubbi a livello scientifico sul fatto che non esistono razze che dividano il genere umano, i grandi mezzi di comunicazione e gli strumenti di formazione del consenso diffondono ad arte nelle masse dosi crescenti di xenofobia. Quest’ultima, non esistendo le razze, è uno strumento ideologico disponibile a ogni forma di manipolazioni, volta a dividere i subalterni, a generare guerre fra poveri e a criminalizzare ed emarginare le classi dei non possidenti.
L’unico antidoto a disposizione per le forze progressiste è quella di contrastare ogni forma di divisione artificialmente creata dalle classi dominanti per indebolire e mantenere sotto il proprio potere i subalterni. Ogni forma di costruzione di identità fittizie, funzionali in realtà a dividere i lavoratori, come quelle fondate sulla meritocrazia, sulle differenze generazionali, la razza, la religione, il genere, la condizione più o meno precaria del lavoro, la nazione e il continente va non solo rifiutata, ma combattuta. Soltanto costruendo forme di unità più ampie di quelle costruite, su base transnazionale, dalle classi dominanti sarà possibile il riscatto dei subalterni.