1. Quali sono le caratteristiche oggettive dell’epoca imperialista?
I comunisti hanno chiamato imperialismo l’epoca della società borghese iniziata negli ultimi decenni dell’800.
Nello scritto L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916) Lenin ha indicato cinque caratteristiche fondamentali dell’imperialismo in campo economico: 1. i monopoli sopravanzano le aziende capitaliste in concorrenza tra loro; 2. il capitale finanziario, combinazione del capitale bancario e del capitale industriale, domina il capitale industriale; 3. l’esportazione di capitale prende il sopravvento sull’esportazione di merci; 4. alcuni grandi gruppi capitalisti hanno incominciato a spartirsi il mondo tra loro; 5. poche grandi potenze capitaliste si sono suddivise il mondo tra loro.
Una sintesi politica e sociale dell’elaborazione dei comunisti l’ha fornita Stalin in Principi del Leninismo (1924) [Opere vol. 6]. Vediamo uno stralcio della sintesi di Stalin:
“Lenin chiamava capitalismo morente l’imperialismo. Perché? Perché l’imperialismo porta le contraddizioni del capitalismo all’ultimo termine, ai limiti estremi, oltre i quali comincia la rivoluzione”.
In sostanza questo significa che l’imperialismo è un’epoca specifica, una fase della storia del capitalismo e, più precisamente, quella fase in cui il capitalismo, inteso come sistema in cui la produzione di beni e servizi è avviata e condotta da capitalisti al fine di ricavarne profitto, è storicamente superato. Cosa significa storicamente superato? Significa che gli uomini hanno creato le condizioni per andare oltre e la costruzione del socialismo in URSS lo ha confermato.
L’imperialismo è la fase suprema del capitalismo, come dice Lenin, in cui le condizioni oggettive per il comunismo sono mature perché le forze produttive sono diventate collettive (ogni azienda dipende per il suo funzionamento da altre) e l’appropriazione privata del prodotto e l’iniziativa economica privata sono diventate un freno e non più uno stimolo per l’ulteriore progresso dell’umanità. È l’epoca delle guerre e delle rivoluzioni perché se non si procede a una rivoluzione nei rapporti sociali in senso socialista, per il modo in cui la produzione è organizzata e diretta si va verso un pantano e una putrefazione generale del sistema sociale (putrefazione che genera la necessità e la tendenza alla rivoluzione).
Continua Stalin: “Di queste contraddizioni, tre devono essere considerate come le più importanti.
La prima è la contraddizione tra il lavoro e il capitale. L’imperialismo è l’onnipotenza, nei paesi industriali, dei gruppi monopolisti, delle banche e dell’oligarchia finanziaria. Nella lotta contro questa onnipotenza, i metodi abituali della classe operaia – sindacati e cooperative, partiti parlamentari e lotta parlamentare – si sono rivelati assolutamente insufficienti.
O abbandonarsi alla mercé del capitale, vegetare all’antica e scendere sempre più in basso, o impugnare una nuova arma: così l’imperialismo pone il problema alle masse innumerevoli del proletariato. L’imperialismo avvicina la classe operaia alla rivoluzione”.
Che le condizioni oggettive sono mature per la società comunista significa che la questione principale, dunque, è la costruzione delle condizioni soggettive per fare avvenire questa transizione.
Il leninismo, come seconda e superiore tappa del pensiero comunista dopo Marx-Engels, nasce e si sviluppa proprio con l’entrata del sistema capitalista nella sua fase imperialista e nasce per costruire un’organizzazione (il Partito comunista) adeguata a guidare la classe operaia nella lotta per la rivoluzione socialista, nella mutata condizione oggettiva. Non era più possibile limitarsi a fare quello che con successo avevano fatto i partiti socialisti nati nell’800, cioè promuovere l’organizzazione della classe operaia e “l’allargamento della democrazia borghese”: l’estensione al proletariato e alle masse popolari di alcuni diritti della democrazia borghese (organizzazione, riunione, parola, stampa, propaganda, elettorato attivo e passivo). Con lo sviluppo della lotta della classe operaia e lo sviluppo del capitalismo non era possibile limitare l’azione dei socialisti al sostegno e alla promozione di lotte rivendicative (salario, condizioni di lavoro, sicurezza sociale). Non era oggettivamente più possibile, come dice Stalin molto chiaramente, nel senso che chi lo fa arretra e infine capitola nella collaborazione di classe. Bisognava “impugnare una nuova arma”, bisognava concepirsi come classe dirigente che porta avanti una guerra per il potere. Badate non è una “virata a sinistra”: è la presa d’atto che la situazione è cambiata. E l’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria, avviata con la Rivoluzione di Ottobre, lo ha confermato. Il maoismo ne ha esposto la teoria. Lo sfacelo prodotto dai revisionisti moderni (Krusciov e Togliatti) da quando hanno preso la direzione del movimento comunista ha messo in mostra i limiti che i comunisti dovevano e devono superare.
Continua Stalin: “La seconda contraddizione è la contraddizione fra i diversi gruppi finanziari e le diverse potenze imperialiste nella loro lotta per le fonti di materie prime e per i territori altrui. […] Questa lotta accanita tra diversi gruppi di capitalisti è degna di nota perché racchiude in sé, come elemento inevitabile, le guerre imperialiste, le guerre per la conquista di territori altrui.
Questa circostanza, a sua volta, è degna di nota perché porta all’indebolimento reciproco degli imperialisti, all’indebolimento delle posizioni del capitalismo in generale, perché avvicina il momento della rivoluzione proletaria, perché rende praticamente necessaria questa rivoluzione.
La terza contraddizione è la contraddizione tra un pugno di nazioni “civili” dominanti e centinaia di milioni di uomini appartenenti ai popoli coloniali e dipendenti del mondo. L’imperialismo è lo sfruttamento più spudorato, l’oppressione più inumana di centinaia di milioni di abitanti degli immensi paesi coloniali e dipendenti. […] Ma per sfruttare questi paesi l’imperialismo è costretto a costruirvi delle ferrovie, delle fabbriche, delle officine, a crearvi dei centri industriali e commerciali. L’apparire di una classe di proletari, il sorgere di uno strato di intellettuali indigeni, il risveglio di una coscienza nazionale, il rafforzarsi del movimento per l’indipendenza: tali sono gli effetti inevitabili di questa “politica”.
Questa circostanza è importante per il proletariato perché mina alle radici le posizioni del capitalismo, trasformando le colonie e i paesi dipendenti da riserve dell’imperialismo in riserve della rivoluzione proletaria. L’incremento del movimento rivoluzionario in tutte le colonie e in tutti i paesi dipendenti, senza eccezione, ne fornisce la prova evidente.
È la sintesi della storia dei primi decenni del ‘900, quando la direzione del mondo fu assunta dal movimento comunista e la borghesia imperialista venne ridotta a dover far fronte alla prima ondata della rivoluzione proletaria (1917 – 1976). L’esperienza della prima ondata lo conferma, il ruolo che svolgono oggi nel mondo la RPC, gli altri paesi socialisti, alcuni ex paesi socialisti come la Russia e altri paesi che non si sottomettono alla Comunità Internazionale dei gruppi imperialisti USA, sionisti ed europei lo conferma.
2. Qual è la natura delle crisi che caratterizzano l’epoca imperialista, (se e) come si differenziano dalle crisi economiche del primo capitalismo ottocentesco e quale periodizzazione di lungo periodo si può dare del loro sviluppo?
Fino agli anni ’60 dell’800, quindi nella fase pre-imperialista, si erano manifestate nelle società borghesi (in pratica nei paesi europei e negli USA), grandi crisi economiche in successione che colpivano l’intera società e numerosi paesi: gli affari si arrestavano a causa dell’abbondanza della produzione. L’andamento tipico di ogni crisi era: aumento della produzione di merci, crisi di mercato e della produzione, stagnazione, ripresa. Erano crisi cicliche (all’incirca decennali) di squilibrio tra domanda e offerta dovute al carattere anarchico del modo di produzione capitalista. La soluzione delle crisi veniva dallo stesso movimento economico della società borghese. La produzione di merci (beni e servizi) si era sviluppata più velocemente della loro domanda, le merci restavano invendute, le aziende produttrici chiudevano i battenti e licenziavano e nel giro di un certo tempo la domanda sopravanzava la produzione e nuove aziende produttrici aprivano i battenti. Le crisi cicliche furono analizzate, dettagliatamente descritte e spiegate da Marx in Il Capitale. Infatti esse imperversavano già al suo tempo.
Marx vide però oltre queste crisi il realizzarsi di una tendenza di lungo periodo da cui è nato l’imperialismo. La borghesia metteva in opera una serie di istituzioni, misure e relazioni che facevano in una certa misura fronte al carattere collettivo della produzione pur restando ancora sul terreno della proprietà privata e dell’iniziativa privata dei capitalisti. Marx le chiamò Forme antitetiche dell’unità sociale (FAUS) [1]. Esse smorzavano punte acute delle crisi, acceleravano l’andamento degli affari, ma nel contempo acceleravano un altro fenomeno di cui Marx, in Il Capitale, scoprì e formulò la legge: la caduta tendenziale del saggio di profitto [2].
La caduta del saggio di profitto procede fino a un limite oltre il quale nessun capitalista è disposto ad andare. Quando il capitale investito nella produzione di merci è cresciuto oltre certi limiti, accade che se i capitalisti investissero nella produzione di merci tutto il capitale con cui si ritrovano ne ricaverebbero una massa di profitto [3] minore di quella che hanno ricavato dal processo di produzione di merci che hanno concluso. Il capitale prodotto è superiore a quello che ad essi conviene investire nella produzione di merci. Marx nel libro III di Il Capitale (capitoli 13 – 15) chiama questo fenomeno crisi per sovrapproduzione assoluta [4] di capitale. Questo è il limite proprio del modo di produzione capitalista che diede avvio alle iniziative della borghesia che denotano l’esordio dell’epoca imperialista e il suo corso. A quel punto per valorizzare il proprio capitale, che non poteva essere tutto valorizzato nella produzione di merci, la borghesia (i singoli capitalisti, i gruppi capitalisti, i loro Stati) sarebbero ricorsi a iniziative in contrasto con il progresso dell’umanità che fino ad allora invece la borghesia aveva promosso.
È quindi bene fissare qui un concetto: la caduta tendenziale del saggio di profitto sfocia nella crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale già alla fine dell’Ottocento e, a partire da quel momento, avviene un salto di qualità nella società capitalista: alla sua base c’è sempre il meccanismo di sfruttamento del lavoro ma, allo stesso tempo, la forma non è più quella che Marx descrive in Il Capitale come forma più elementare del modo di produzione capitalista. Per questo, nel 1919, all’VIII Congresso del PC(b)R, i comunisti guidati da Lenin conclusero la discussione sulle caratteristiche economiche dell’imperialismo, affermando che l’imperialismo è una sovrastruttura del capitalismo: “Se Marx diceva della manifattura che essa è una sovrastruttura della piccola produzione di massa, l’imperialismo e il capitale finanziario sono una sovrastruttura del vecchio capitalismo”.
Come si vede, quindi, quella di Marx (e tantomeno quella di Lenin) non è una “teoria del crollo”. La vecchia società capitalista è già stata eliminata: è successo alla fine dell’Ottocento per effetto della caduta tendenziale del saggio di profitto. Non si è trattato, però, di crollo, ma dell’impossibilità di investire nella produzione di merci tutto il capitale che i capitalisti accumulavano e della ricerca spasmodica e senza scrupoli di altri campi di investimento. Da allora la questione principale ai fini del progresso dell’umanità riguarda l’azione dei comunisti. Siamo nell’epoca della rivoluzione socialista.
Oggi, la produzione di beni e servizi (merci) è diventata un settore ancora indispensabile per l’umanità ma ormai secondario quando si tratta della valorizzazione del capitale, essendo che già nel 2013 il capitale impiegato nella produzione di merci era il 7% del capitale complessivo mondiale. Il 26,5% del capitale mondiale circolante è composto da finanzia primaria (grosso modo il capitale azionario e le obbligazioni emesse dalle aziende capitaliste), mentre il 66,5% è composto da derivati finanziari.
In questo contesto la crisi economica per sovrapproduzione assoluta di capitale genera una crisi generale della società. Sulla base delle crisi economica, e del fatto che gli affari della borghesia sono in contraddizioni con lo sviluppo delle forze produttive (e quindi tendono a distruggerle) si sviluppa una crisi politica (degli istituti, degli ordinamenti e delle relazioni politiche interne e internazionali) e una crisi culturale (intellettuale, morale); la crisi ambientale (inquinamento, devastazione del territorio, riscaldamento climatico, ecc.) e la crisi sanitaria, generate anch’esse dal capitalismo, si sono aggiunte alla crisi generale e ne sono diventate componenti e aggravanti.
Quella in cui siamo immersi è la seconda crisi generale del capitalismo, iniziata nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso: l’umanità, infatti, si è già trovata una volta in una situazione simile all’inizio del secolo scorso, nel periodo 1875-1945, e ne è uscita con la prima ondata della rivoluzione proletaria (1917 – 1976) che ha portato alla creazione dei primi paesi socialisti e con due Guerre mondiali, cioè con una combinazione di instaurazione del socialismo in alcuni paesi e distruzione delle forze produttive in quantità tali da permettere la ripresa dell’accumulazione capitalista in altri.
A seguito delle distruzioni operate dalla seconda guerra mondiale (tra il 1945 e il 1975), un terzo dell’umanità viveva in un regime socialista mentre le società imperialiste attraversarono una fase di ripresa dell’accumulazione capitalista: una fase in cui la borghesia poteva fare concessioni alle masse popolari e le ha fatte, perché doveva far fronte a un potente movimento comunista cosciente e organizzato (MCCO); una fase che è stata la base oggettiva su cui i revisionisti moderni, stante i limiti della sinistra dei partiti comunisti, hanno preso la testa del MCCO a livello mondiale e lo hanno portato sul binario morto del riformismo che già fu della II Internazionale, della collaborazione di classe e, infine, finita quella fase, della capitolazione. Questa fase, che definiamo fase del capitalismo dal volto umano, è oggi definitamente tramontata.
3. Come si differenzia la tua/vostra posizione rispetto ad altre principali che sono oggi in campo nell’ambito del movimento comunista, sia sul piano teorico sia sul piano delle implicazioni pratiche per la definizione della linea politica che dall’analisi discende?
Nella cultura dominante (anche tra esponenti che dichiarano di essere marxisti e comunisti) la crisi attuale viene correntemente considerata o una crisi ciclica o una crisi finanziaria.
- Una crisi ciclica, cioè che rientra in un “normale” (salvo le dimensioni) alternarsi di espansione, recessione, nuova espansione e che, come tutte le crisi cicliche, prima o poi cesserà da sé, perché lo sconquasso del sistema produttivo, riducendo la capacità produttive, crea le condizioni per la ripresa della produzione; quindi per le masse popolari e le loro organizzazioni si tratterebbe di stringere la cinghia in attesa di tempi migliori, al più di convincere o indurre i governi ad adottare politiche anticongiunturali, di “contenimento del danno” (piani di spesa pubblica e ammortizzatori sociali).
- Oppure una crisi finanziaria, dovuta al liberismo selvaggio, all’abolizione (“deregulation”) o alla mancanza di regole nelle attività finanziarie e bancarie, alla speculazione e alla globalizzazione o alla creazione di una moneta fiduciaria mondiale (il dollaro) con l’abbandono imposto dagli USA di Nixon nel 1971 del legame del dollaro con l’oro e, circa 20 anni fa, di una moneta senza Stato (l’euro). È vero che la crisi ora si esprime anche in questi aspetti, ma ognuno di essi a sua volta è stato generato dalla necessità dei capitalisti di muoversi liberamente alla ricerca di vie, impieghi e mezzi per valorizzare il loro capitale che, per la gran parte di esso, i capitalisti non trovavano più nelle aziende capitaliste produttrici di merci. La soluzione consisterebbe nella regolamentazione del mercato finanziario, nei controlli sulle istituzioni finanziarie, nella tassazione delle transazioni finanziarie, nella riduzione o eliminazione del debito pubblico. Per le masse popolari e le loro organizzazioni si tratterebbe di convincere o indurre i governi e le istituzioni internazionali ad introdurre (o reintrodurre) regole e forme di controllo.
Entrambe queste interpretazioni della natura della crisi attuale (e le varianti che ecletticamente poggiano sull’una o sull’altra) hanno in comune che in definitiva è possibile risolvere la crisi attuale in modo sostanzialmente pacifico, ad opera delle stesse autorità e classi che ci hanno trascinato nella crisi, restando comunque nell’ambito del capitalismo (seppur riformato e corretto in alcuni suoi aspetti più estremi e distruttivi). Ciò è oggettivamente impossibile.
L’unica via d’uscita per la borghesia da questa crisi, in effetti, è la distruzione del capitale in eccesso. Questo essa inevitabilmente tenderà a fare se manterrà la direzione della società. Ma al contempo, portando avanti il suo programma, la borghesia crea le condizioni per la rinascita del movimento comunista in tutto il mondo: per questo diciamo che l’imperialismo è l’epoca delle rivoluzioni socialiste.
Spesso i fautori di simili teorie fanno ricorso alla categoria di “liberismo” o “politiche liberiste” come se l’attacco alle conquiste e le guerre che abbiamo sotto gli occhi da più di quarant’anni a questa parte (cioè da quando è iniziata la seconda crisi generale) fossero il risultato di una certa ideologia che si è fatta largo fra la classe dominante; come se, dunque, fosse possibile cambiare il corso delle cose facendo cambiare idea alla classe dominante, portandola ai più miti consigli di quando era disposta a concedere nella fase del capitalismo dal volto umano (1945 – 1975). In realtà, è la crisi che genera il liberismo, non viceversa: i liberisti e tutti governi realizzatori delle politiche reazionarie che chiamiamo “il programma comune della borghesia imperialista” [5], da Thatcher, a Reagan fino ai Draghi, sono creati dalla crisi e non viceversa.
4. Quali sono le conseguenze politiche che i comunisti oggi devono trarre dall’analisi economica dell’imperialismo (come si esce dalla crisi)?
Dall’interpretazione che diamo della crisi attuale derivano le analisi e le proposte di linee politiche. Avere una comprensione giusta della natura della crisi in corso è quindi indispensabile per essere all’altezza dei compiti che il corso delle cose pone ai comunisti.
Dunque, nell’epoca imperialista, la borghesia quanto più tenta di far fronte alle contraddizioni che essa stessa produce per mantenere in piedi il proprio sistema economico e sociale, tanto più essa aggrava quelle contraddizioni (ciò che non era vero nell’800, quando il capitalismo era ancora in una fase di sviluppo) e genera condizioni sulla cui base può nascere e nascerà, grazie all’azione di comunisti adeguati ai compiti della fase, il mondo nuovo. Due conclusioni: 1) quelle che appaiono come manifestazioni della forza della borghesia sono anche i segni della sua decadenza; 2) la società in un modo o in un altro è rivoluzionata: non c’è possibile ritorno al “prima”. In altri termini: l’epoca imperialista mentre precipita l’umanità in sconvolgimenti senza precedenti apre, per chi vuole vederla e percorrerla, la via della rivoluzione socialista. Non si tratta del “tanto peggio tanto meglio”: si tratta di vedere che la questione decisiva non è la forza del nemico, ma cosa facciamo noi comunisti.
Come ha ben detto Lenin l’imperialismo è una fase di guerre e di rivoluzioni: siamo ancora immersi in questa fase. O la rivoluzione previene la guerra o la guerra genera la rivoluzione: questo ci insegna la storia della prima ondata della rivoluzione proletaria. Questo è il contesto in cui noi comunisti dobbiamo far avanzare la rivoluzione socialista e quindi combinare la mobilitazione delle masse popolari ad elevare la resistenza che già oppongono agli effetti della crisi generale con la rinascita del movimento comunista cosciente e organizzato alla cui testa vi sono i partiti comunisti.
Il fattore fondamentale per cambiare il corso delle cose è la formazione nelle aziende capitaliste di organizzazioni operaie (e nelle aziende e istituzioni pubbliche di organizzazioni popolari), composte da lavoratori che si occupano delle loro aziende, escono dalle loro aziende per occuparsi della zona, si coordinano tra loro, agiscono da “Nuove autorità pubbliche” cioè come centri di orientamento e direzione del resto delle masse popolari, sono orientate a formare un loro governo per agire come nuova classe dirigente. L’esperienza del Comitato di Fabbrica della GKN di Campi Bisenzio (FI) lo conferma e fornisce elementi su cui lavorare.
Le organizzazioni operaie e popolari sono nel nostro paese quello che furono in Russia i soviet. Il loro ruolo, da organizzazioni prettamente rivendicative, cambiò man mano che il partito comunista assumeva il ruolo di centro di orientamento e direzione della mobilitazione popolare. Dunque, la funzione rivoluzionaria dei soviet si incarnò grazie alla politica rivoluzionaria del partito comunista di Lenin che li concepiva come la nuova struttura del potere politico attraverso cui si esercitava la dittatura del proletariato.
Costruire questa rete, questa rete di nuovo potere che comincia a dirigere parti crescenti della società, far esercitare sia pure solo in una certa misura il potere a una classe dirigente nuova che sta emergendo dalla lotta di classe, costruire un ampio fronte politico (che oggi è fronte anti-Larghe intese), portarlo a esprimere e imporre un governo fondato sulla partecipazione e la mobilitazione delle organizzazioni operaie e popolari, è in questa fase il passo necessario ad alimentare la lotta di classe nel nostro paese e la scuola pratica entro cui nel nostro paese si rafforzerà il MCCO.
A quelli che oggi vogliono l’unità dei comunisti poniamo dunque una riflessione: non molti decenni fa i comunisti erano organizzativamente uniti; essi si sono divisi a causa delle concezioni errate che si sono affermate nelle loro file (il revisionismo moderno) e della linea sbagliata che hanno adottato (la via pacifica al socialismo, le elezioni come strumento principale di affermazione, ecc.). Quindi, non è dall’unità organizzativa che nasce la linea giusta. Al contrario è dall’elaborazione e applicazione della linea giusta (tanti o pochi che siano quelli che la elaborano) che nasce l’unità organizzativa.
Dunque, lottare per l’unità dei comunisti significa, anzitutto, lottare per la concezione e la linea necessarie a fare concretamente la rivoluzione socialista sulla base delle condizioni particolari del nostro paese e dell’attuale contesto mondiale. Questo implica che è necessario sviluppare un dibattito serio, franco e aperto tra gli aspiranti comunisti nel nostro paese.
Infine, le difficoltà relative allo sviluppo di un dibattito franco e aperto sulla concezione del mondo, sul bilancio dell’esperienza, sul corso delle cose e sulla linea non sono di ostacolo all’unità nelle lotte rivendicative, nelle proteste e denunce, nelle lotte per rendere il paese ingovernabile dai vertici della Repubblica Pontificia [6]. Questa unità, attenzione, non è un ripiego, anzi! È uno specifico e importante ambito di sviluppo del dibattito e della lotta ideologica poiché è nella pratica e nel suo bilancio che ricaveremo le conferme di una data linea, la giustezza di una data operazione, gli insegnamenti dell’applicazione di quel dato principio mutuato dall’esperienza storica dei comunisti che ci hanno preceduto. È nelle lotte rivendicative, nelle proteste e denunce, nelle lotte per rendere il paese ingovernabile dai vertici della Repubblica Pontificia condotte unitariamente che si espanderà il legame tra il partito e le masse popolari.
Lottare per l’unità dei comunisti è giusto e necessario!
Lottiamo, dunque, per conquistare la linea giusta per adempiere ai nostri compiti!
Note:
[1] K. Marx, Grundrisse, ed. Einaudi, pag. 90.
[2] Ogni singolo capitalista è obbligato a sviluppare i mezzi di produzione per aumentare la produttività del lavoratore e, in questo modo, 1. aumentare la massa del profitto che ricava dai lavoratori che assume a produrre merci e 2. avere un vantaggio competitivo sui suoi concorrenti. Può anche aumentare le ore di lavoro giornaliere dei suoi operai a parità di salario o abbassare i salari – e infatti lo fa – ma questo incontra limiti fisici e politici. Il numero degli operai che il capitalista può impiegare, infatti, è limitato (la popolazione attiva a disposizione è un certo numero, una parte di questa popolazione attiva sarà impiegata da altri capitalisti, una parte di questa popolazione non sarà impiegata perché il modo di produzione capitalista non ammette la piena occupazione). Ugualmente la forza lavoro che l’operaio vende al capitalista è limitata. È la forza lavoro di un giorno, che è fatto di 24 ore, parte delle quali servono all’operaio per recuperare le forze. Quindi il capitalista può investire sempre di più in macchine, materie prime e in altre forme di capitale (quelle che Marx chiama “capitale costante”) ma ha un limite nell’investire nella forza lavoro degli operai (quello che Marx chiama “capitale variabile”), che sono un numero limitato e che possono lavorare magari 18 ore al giorno, ma mai 25. La conseguenza di questi limiti è che nella produzione di merci il saggio di profitto tende a diminuire: esso è il rapporto tra il plusvalore e il capitale investito, la frazione che ha come numeratore la differenza tra il capitale risultante dal processo di produzione delle merci e il capitale investito in essa e come denominatore l’intero capitale investito (capitale costante + capitale variabile).
[3] La massa del profitto che egli ricava dal processo con cui fa produrre merci è infatti data dal prodotto del saggio di profitto per il capitale investito nel processo stesso.
[4] La chiama “assoluta” nel senso che essa, a un certo punto dello sviluppo del capitalismo, si presenta non in un singolo settore o in una singola azienda (come invece avveniva per le crisi cicliche) ma complessivamente, nell’insieme di tutti i settori e di tutte le aziende capitaliste.
[5] Per programma comune della borghesia imperialista intendiamo sostanzialmente due direttrici politiche, aspetti della crisi generale: 1. completare la liquidazione di ciò che resta delle conquiste di civiltà e benessere (salari, diritti sul posto di lavoro, contratti collettivi ecc.) strappate dalle masse popolari alla borghesia durante la prima ondata (1917-1976) della rivoluzione proletaria, quando il movimento comunista era forte nel mondo; 2. partecipare al riarmo e alle guerre lanciate o fomentate da NATO, USA, Israele e Stati dell’Unione Europea, supporto alla combinazione e competizione tra gruppi imperialisti per ritagliarsi ognuno la parte maggiore dello sfruttamento delle masse popolari degli ex paesi socialisti e dei paesi oppressi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina.
[6] Con questo termine intendiamo il regime politico costituito in Italia sotto il protettorato USA dalla borghesia imperialista italiana, dal Vaticano, dalle Organizzazioni Criminali e dagli altri settori della classe dominante dopo la vittoria della Resistenza (1943-1945) per contenere il movimento comunista e stroncare la rivoluzione socialista. L’aggettivo “pontificia” sta a indicare che questo regime politico è formalmente retto dalle istituzioni indicate nella Costituzione della Repubblica Italiana del 1948 ma la Corte Pontificia (il Vaticano con la sua Chiesa) agisce da centro politico occulto, irresponsabile e di ultima istanza del potere.