La settimana di 30 ore. Un approccio moderno del tempo di lavoro

I salariati non hanno goduto che molto parzialmente degli aumenti della produttività dell’epoca recente. Esiste di conseguenza un margine praticabile per una riduzione significativa del tempo di lavoro. Tanto più che gli aumenti di produttività sono ben lontani da essere terminati.


La settimana di 30 ore. Un approccio moderno del tempo di lavoro

Il dibattito sulla riduzione generale del tempo di lavoro - ed in particolare il dibattito per la settimana lavorativa di 30 ore - prende sempre più piede. Recentemente ha avuto un’ulteriore eco a seguito di un’interrogazione parlamentare del deputato del PTB di Bruxelles, Michaël Verbauwhede, al ministro del Lavoro della Regione a proposito dell'introduzione di una settimana di lavoro ridotta per i lavoratori della Bruxelles-propreté (l'impresa regionale di raccolta dei rifiuti).

Il ritorno del dibattito sulla riduzione generale del tempo di lavoro permette di ridare ossigeno al dibattito politico, di portarlo fuori da alcuni conservatorismi superati e di ritrovare un po’ di modernità nel dibattito sulla combinazione tra vita lavorativa e vita privata. Già nel XIX° secolo, le forze più conservatrici hanno tentato di tutto per contenere il movimento irresistibile lanciato all'epoca dapprima in Australia, e poi dall'altro lato dell'Atlantico, per la giornata lavorativa di 8 ore. Un movimento audace affacciatosi un po' prima della metà del secolo in un periodo in cui gli operai lavoravano spesso più di 12 ore per giorno e 84 ore alla settimana!

Per paura di aprire una vero vaso di Pandora e per mettere in guardia i suoi pari, il barone di Gand, e futuro parlamentare, Arnold t’Kint de Rodenbeke dichiarava nel 1886: “Quando ci si fermerà su questa strada intrapresa? Qualche anno fa, si chiedeva un massimo di 12 ore; poco dopo 10 ore; già dall'altro lato dell'Atlantico, sta nascendo un movimento potente in favore della giornata di 8 ore. Perché non si dovrebbe arrivare a chiedere la giornata legale di sei ore, di cinque ore forse, quando una produzione sempre più abbondante potrebbe lasciare senza lavoro un numero ancora più grande di operai…”

Oggi, si direbbe che il nostro barone poneva, a sua insaputa, un’ottima domanda. Perché se la sua domanda era attuale nel 1886, lo è diventata ancora di più gli anni successivi. Infatti, se gli aumenti di produttività sono stati importanti ma lenti all'inizio del capitalismo moderno, sono letteralmente esplosi dal dopoguerra in poi. Per dare un ordine di grandezza, uno degli specialisti della riduzione del tempo di lavoro in Francia spiega che, se ci sono voluti 140 anni – tra il 1820 ed il 1960 - per raddoppiare la produttività in Francia, questa si è moltiplicata per 5 da quel momento a oggi [1].

Lungo il corso del XX° secolo, i sostenitori della riduzione del tempo di lavoro hanno potuto imporre l'idea forte che la crescita della ricchezza doveva migliorare, al tempo stesso, la nostra vita sul piano del benessere materiale ma anche su quella del tempo disponibile per poter approfittare tutti di questo benessere. È da questa battaglia che il tempo di lavoro è stato abbassato del 29% tra il 1950 ed il 1993. Principalmente grazie alle riduzioni generali del tempo di lavoro degli anni 1970 (aumento del numero di ferie, settimana di 5 giorni al posto di 6, settimana di 38 ore al posto di 45) e, a partire dagli anni 1980, ad un ritmo molto più modesto, a causa dei meccanismi di riduzione individuale del tempo di lavoro (soprattutto i crediti-tempo). Purtroppo, dal 1993, abbiamo abbandonato la strada intrapresa nell'immediato dopoguerra. L'establishment politico ed economico ha ripreso le vecchie idee conservatrici del XIX° secolo che vuole il salariato lavorare sempre di più. Che sia in una giornata, in una settimana, in un anno o in una carriera.

Il dibattito sulla riduzione del tempo di lavoro: la paura o la ragione?

“Le proposte che promettono di lavorare meno mantenendo uguale il proprio stipendio sono irrealistiche ed insostenibili. Questo governo fa di tutto per contenere il costo del lavoro, per conservare i posti di lavoro e crearne altri. Vogliamo mettere questi sforzi in pericolo introducendo tali misure?” “Inoltre se si instaurasse la settimana lavorativa di 30 ore, sarebbe veramente il principio della fine”. Ecco una serie di dichiarazioni allarmistiche lanciate recentemente da una deputatad del N-VA (Nieuw-Vlaamse Alliantie - Nuova Alleanza Fiamminga) responsabile di un’azienda. La volontà di mettere paura per evitare di avere un dibattito aperto e razionale è molto forte. Ma la paura è molto spesso la nemica della ragione.

La riduzione del tempo di lavoro conosciuta tra il 1950 ed il 1993 può essere qualificata come molto modesta in confronto agli enormi aumenti di produttività conosciuti durante questo periodo. Questi si sono stati moltiplicati almeno per 4! Ma, cosa più grave, dal 1993 il movimento di riduzione del tempo di lavoro si è arrestato. E da quell’anno, il tempo di lavoro annuo è addirittura leggermente tornato ad aumentare. Aumento che deve essere aggiunto all'aumento del tempo di lavoro in una carriera (per l’aumento dell’età pensionabile). Tuttavia, dei margini esistono per settimane lavorative più corte.

Dal 1993 a oggi, le ricchezze prodotte per abitante sono aumentate di più del 37%. E i salari di solamente il 13% durante lo stesso periodo (e in gran parte negli anni ’90). I salariati non hanno goduto che molto parzialmente degli aumenti della produttività dell’epoca recente. Esiste di conseguenza un margine praticabile per una riduzione significativa del tempo di lavoro. Tanto più che gli aumenti di produttività sono ben lontani dall’essere terminati.

Che cosa si farà con i robot e dei computer?

“Il 47% dei posti di lavoro negli USA potranno essere affidati a computer intelligenti da qui a 20 anni”. Questa è la conclusione di un studio [2] condotta da due ricercatori dell'Università di Oxford. I due ricercatori citano il celebre economista John Maynard Keynes per il quale una larga disoccupazione tecnologico sarebbe “dovuta al fatto che la nostra scoperta di mezzi per economizzare la forza lavoro è molto più rapida del ritmo col quale troviamo dei nuovi utilizzi per la mano d’opera”. Questo studio conferma altri studi che vanno nello stesso senso. Recentemente, dei ricercatori hanno adattato lo stesso studio americano alla realtà del Belgio e la loro conclusione è impressionante: il 49% del lavoro in Belgio ha una forte probabilità media di scomparire nella sua forma attuale nei prossimi 20 anni.

La capacità di gestione di immense banche dati, il riconoscimento vocale, l'automobile senza conduttore, i robot di supporto negli ospedali, la logistica, la traduzione... i campi in cui computer e robot potranno (parzialmente) rimpiazzare l'uomo in tutta una serie di compiti noiosi, ripetitivi o faticosi fisicamente sono immensi. E questo in un orizzonte di appena 20 anni. Come dire che si tratta di domani.

Ma che cosa faremo con tutte queste tecnologie? Faranno ancora salire la disoccupazione? O saranno utilizzate per distribuire il lavoro? Per liberare del tempo? O verranno utilizzate per sviluppare ancora una volta una società sempre più diseguale? Le si utilizzeranno per permetterci di concentrarci su dei compiti che solo gli uomini sono capaci di compiere: dei compiti che necessitano di competenze creative e sociali? Ecco una serie di domande fondamentali che dovrebbero essere poste al centro del dibattito politico, sociale e scientifico negli anni a venire.

Note:

[1] Pierre Larrouturou, "Le livre noir du libéralisme", 2007

[2] Frey C.B. et M.A. Osborne (2013), "The future of employment: how susceptible are jobs to computerisation?"


Fonte: L'Echo

* Centro Studi e responsabile per le relazioni sindacali del PTB (Partito dei Lavoratori del Belgio).

15/10/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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