Il primo dicembre di quest’anno l’azienda della persona più ricca d’Italia [1] (e fra le più ricche al mondo), Ferrero, ha depositato il marchio “Nutella Plant based” [2] all’ufficio italiano brevetti. Tramite la versione vegana di uno dei suoi prodotti maggiormente iconici, l’azienda dolciaria mira a conquistare quella fetta di consumatori particolarmente attenta alle questioni animali, ambientali e di salute che costituisce un trend ancora minoritario, ma in ascesa [3] soprattutto fra le nuove generazioni e che i produttori cavalcano ormai da qualche anno. Giovanni Ferrero guarda, quindi, al futuro, ma con i piedi ben piantati nella storia. Che nel caso di Ferrero è davvero “una storia di famiglia”, come si legge sul sito dell’azienda [4]; o, per meglio dire, è una storia di familismo, come quella di tutte le grandi aziende di famiglia. In fondo però è sempre la stessa, vecchia storia: quella della corsa a riempire ogni nicchia di mercato – e/o a creare mercati ex novo – e sfruttare ogni opportunità. La capacità trasformista del capitalismo è cosa nota. Se conviene e si riesce a farlo, perfino l’azienda più ecocida e basata sullo sfruttamento animale può riconvertire la propria produzione, o almeno presentarsi come amica dell’ambiente e dei diritti dei non umani. E se spesso questa recita si rivela una pagliacciata, ancor meno serio e ancora meno ingannevole è il rapporto con i lavoratori e le lavoratrici che, anche nell’azienda più green e vegan-friendly, è e resta di sfruttamento.
Di fronte alla diffusione di prodotti amici dei vegani (e soprattutto, almeno in teoria, degli animali non umani per cui si battono gli attivisti vegani, animalisti e antispecisti), allora, occorre chiedersi quale atteggiamento dovremmo avere. Li guarderemo con favore o li condanneremo? Li prenderemo come sintomo di un cambiamento in atto verso tipi di produzione più sostenibili e meno crudeli, o come il tentativo delle aziende di ripulirsi l’immagine e continuare a fare profitto sulle spalle della classe lavoratrice? Quanto segue cerca di rispondere a questi e altri interrogativi.
CAPITALISMO VEGAN SÌ O NO? LE RAGIONI DI UN’AMBIVALENZA
È facile capire come in seno a movimenti largamente spoliticizzati e/o politicamente trasversali e qualunquisti come quelli animalisti, l’introduzione di prodotti vegan e cruelty-free sia vista, in generale, con favore. Questo riguarda anche parte degli ambienti più radicali dell’animalismo, quelli antispecisti; quelli, cioè, che facendo un passo oltre il welfarismo riformista tipico del protezionismo e della zoofilia borghesi, teorizzano un egalitarismo inter-specifico, esteso almeno a tutti gli esseri senzienti, relativo ai diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all’integrità psico-fisica. Sulla scorta di quest’etica gli antispecisti lavorano per realizzare la liberazione animale dal dominio “umano” [5], cioè dalla discriminazione e dallo sfruttamento degli animali umani sugli animali di altre specie. Pur essendo più politicizzato dell’animalismo, l’antispecismo risente del carattere monotematico (o “single-issue”) che contraddistingue tutti i “nuovi movimenti sociali” nati (o rivitalizzati) a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso e affermatisi in concomitanza con l’arretramento della lotta di classe dei successivi decenni.
Ci sembra che la tendenza opportunistica tipica di questi movimenti, che spesso perseguono i loro obiettivi indipendentemente da un più ampio progetto di trasformazione dei rapporti sociali di produzione, dipenda da almeno tre fattori ai quali qui non possiamo che accennare. Il primo consiste in un certo ritardo, accumulato dal movimento dei lavoratori negli scorsi decenni, verso alcune importanti questioni non direttamente collegate al conflitto capitale/lavoro – come la questione femminile e quella ambientale. Tale ritardo ha comportato disaffezione e anche ostilità verso la prospettiva socialista e comunista, allontanamento dalla lotta di classe e frammentazione del fronte critico. Il secondo fattore è speculare al primo e consiste nella credenza illusoria dei movimenti monotematici di poter perseguire i loro obiettivi anche a prescindere dalla trasformazione del modo di produzione sociale. Questa illusione si esprime oggi, per esempio, nelle versioni borghesi del femminismo, dell’ambientalismo, dell’animalismo e dell’antispecismo stesso. Quarant’anni di egemonia neoliberal l’hanno enormemente rafforzata, cooptando parte dei nuovi movimenti sociali, così come accaduto con i più grandi partiti progressisti occidentali. Il terzo fattore riguarda l’indebolimento del movimento dei lavoratori e della sua rappresentanza istituzionale. Risulta infatti particolarmente difficile comprendere la necessità di posizionare la propria lotta monotematica nella prospettiva socialista quando tale prospettiva non riesce più a fornire sponde e sostegno concreti. Anche se lo volesse (e purtroppo non sempre lo vuole, anche se lo vuole molto più delle organizzazioni del resto dello spettro politico [6]), il socialismo non è più in grado di porsi come alleato forte e credibile; almeno nei Paesi dove versa in condizioni simili a quelle italiane. In una situazione del genere, i nuovi movimenti sociali hanno comprensibilmente cercato – e cercano tuttora – di battersi per l’ottenimento di vittorie particolari, definite, per l’avanzamento pratico delle loro cause, spesso disinteressandosi della teoria rivoluzionaria. Come scriveva Rosa Luxemburg, questo “è del tutto naturale, poiché la nostra «teoria» – cioè i principi del socialismo scientifico – pone dei limiti molto saldi all’azione pratica, in relazione tanto agli obiettivi da perseguire, ai mezzi di lotta da impiegare, quanto infine al modo stesso della lotta”[7]. Non potendo comunque fare completamente a meno della teoria, cioè di un’interpretazione dei fenomeni sociali volta a orientare l’azione, nel corso degli anni dalle prime apparizioni di prodotti plant-based industriali ad oggi, l’antispecismo ha sviluppato due atteggiamenti di fondo verso tali prodotti. Il primo, di cui ci occuperemo in seguito, è di forte critica. Le aree più anticapitaliste dell’antispecismo hanno infatti individuato e criticato una certa strumentalità dei prodotti plant-based al consolidamento del capitale. Il secondo atteggiamento, che ora analizziamo, è invece più favorevole. Tralasciando il caso dell’accettazione entusiastica e acritica, che evidentemente è un atteggiamento ingenuo – ma rappresentativo del carattere opportunista dell’antispecismo neo-liberal – occupiamoci della ricezione più consapevole (ma comunque positiva) del capitalismo vegan da parte di un certo antispecismo.
LA FASCINAZIONE ANTISPECISTA PER IL CAPITALISMO VEGANO
Di questa ricezione, che chiameremo della fascinazione per il capitalismo vegano, è tipica l’idea che nonostante il modo di produzione capitalistico sia complessivamente problematico e da riformare, la presenza di prodotti vegan-friendly sul mercato sia un bene per l’avanzamento della causa di liberazione animale e debba essere comunque favorita. Secondo la fascinazione per il capitalismo vegano, i prodotti lavorati, di pronto consumo e/o comfort food sarebbero particolarmente utili alla diffusione di informazioni e alternative capaci di attrarre l’attenzione dei consumatori modificandone, nel tempo, le abitudini alimentari. Anche ammettendo che l’impatto di questi prodotti può essere dannoso sulla salute umana e che la loro produzione non migliora le condizioni di lavoro di chi li fa, gli affascinati dal capitalismo vegano sostengono (e hanno ragione) che i prodotti plant-based non siano meno salutari di quelli contenenti elementi animali e/o derivati; e che perlomeno escludono dallo sfruttamento capitalistico un gruppo di esseri senzienti, ovvero gli animali non umani. Interpretano così la diffusione delle alternative vegetali come un avanzamento verso il loro obiettivo. Tuttavia non è chiaro né in cosa consista esattamente tale obiettivo (nella liberazione degli sfruttati di ogni specie dal modo di produzione capitalistico o nel miglioramento delle loro condizioni nel modo di produzione capitalistico?), né come raggiungerlo. Poniamo che si tratti della liberazione degli animali non umani in una forma di “capitalismo etico”. In questo caso i profitti realizzati nella nicchia di mercato plant-based finirebbero per finanziare lo sfruttamento animale nel resto del mercato, avendo l’esito paradossale di sostenerlo. Già oggi molti giganti della carne e dei derivati, non solo Ferrero, stanno diversificando le loro linee integrandole con alternative vegetali. Si tratta di una pratica comune, che solo raramente porta al sovvertimento del rapporto fra produzione di nicchia e di largo consumo; e molto più spesso alla maggior presa sul mercato e al maggior successo commerciale delle aziende che diversificano la produzione. L’antispecismo affascinato dal capitalismo vegano sembra credere che, nel caso delle alternative plant-based, le cose andranno diversamente. Nonostante le apparenze contrarie, dobbiamo ammettere che ha qualche buona ragione per farlo. Per esempio il minore impatto ambientale dei prodotti plant-based che, se l’interesse ambientalista continuerà a crescere, sarà un elemento trainante per la loro diffusione. Non dovremmo tuttavia sopravvalutare gli aspetti morali nelle dinamiche di mercato. Il banco di prova decisivo per il plant-based sarà quello economico. I prodotti a base vegetale si diffonderanno soprattutto se reggeranno il confronto economico con i prodotti animali; altrimenti resteranno nella nicchia del consumo consapevole. E quando si tratta di prezzo, non incide solo il costo dei prodotti primi. Quello dei prodotti plant-based (e degli alimenti vegetali in generale), infatti, spesso è inferiore rispetto al prezzo dei prodotti animali e derivati, ma le politiche economiche e commerciali nazionali e internazionali possono ribaltare la situazione – e spesso lo fanno. Occorrerebbe allora che le istituzioni nazionali e sovra-nazionali trasmettessero un forte impulso alla produzione plant-based, ma il loro ruolo nel capitalismo neo-liberista è molto più debole che in passato. A prescindere dalla forma particolare assunta dal capitalismo, comunque, nel modo di produzione capitalistico lo Stato nazionale, come diceva Marx, ”è soltanto un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese” [8]. Le attuali unioni, le federazioni e le confederazioni di Stati si differenziano dallo Stato nazionale solo per il fatto di essere i comitati d’affari non della borghesia di un singolo Paese, ma di quella mondiale.
Conscio, forse, di questa situazione (o almeno sfiduciato verso la politica istituzionale e condizionato dal clima culturale neo-liberal), l’antispecismo affascinato dal capitalismo vegano si persuade allora che la liberazione animale verrà dal grande potere della società a modo di produzione capitalistico: il mercato. Se la Nutella Plant based avrà molto successo, dice questo antispecismo, Ferrero potrebbe decidere di diminuire la produzione della Nutella tradizionale. Una decisione presa, insomma, non per bontà d’animo, ma per convenienza. In questo caso ci pare però che a un certo, apprezzabile realismo politico, si accompagni la più idealistica concezione possibile. Quante persone immaginiamo che passino più o meno stabilmente alla versione plant-based di prodotti che continueranno a trovare nelle forme in cui li hanno conosciuti e che – è ipotizzabile – sono anche quelle che gli piacciono di più? Anche se le alternative vegetali non sono rivolte soltanto al pubblico vegano e vegetariano ma, come abbiamo detto, a un più ampio segmento del mercato genericamente sensibile alle questioni di etica animale, ambientale e di salute, è plausibile che questo segmento aumenti al punto da modificare la produzione? E se sì, come? Soltanto grazie al passaparola, all’informazione e alla sensibilizzazione degli attivisti? Si dimentica forse che “Le idee della classe dominante”, come ammoniva Marx, “sono in ogni epoca le idee dominanti” [9]. Non essendo gli antispecisti classe dominante (anzi, non essendo affatto una classe), si immagina dunque il caso assurdo che, senza il controllo dei mezzi di produzione, si possa controllare la produzione intellettuale. Sarebbe come pretendere di controllare la caduta dei gravi senza controllare la gravità. Ma c’è di più. Nel modo di produzione capitalistico la scala della produzione non dipende dalla domanda immediata di prodotto, bensì, “in misura sempre maggiore dal volume del capitale a disposizione del capitalista industriale, dall’impulso di valorizzazione del suo capitale e dalla necessità della continuità e dell’allargarsi del suo processo produttivo” [10]. Se, in altri termini, l’azienda con una grande richiesta di prodotti plant-based ha più capitale da reinvestire rispetto alla possibilità di assorbimento della sua branca dedicata, lo reinvestirà anche nelle linee di produzione direttamente implicate nello sfruttamento degli animali non umani. E sarà costretta a farlo dalla necessità di crescere che contraddistingue le aziende nel modo di produzione capitalistico, in cui sono costantemente sotto minaccia di essere buttate fuori da concorrenti che crescono più di loro. A queste condizioni non importa quanto sia grande la branca plant-based, né quanto profittevole. Cresci o muori!, è questo il motto dell’economia capitalistica. Forse la migliore dimostrazione del fatto che in tale economia non si produca direttamente per incontrare la domanda sta proprio nel carattere espansivo della sua produzione. Scontrandosi con le limitate capacità ricettive del mercato, infatti, la produzione capitalistica innesca ciclicamente crisi di sovrapproduzione che hanno come risultato la svalutazione, il deliberato inutilizzo e anche il macero di grossa parte della produzione [11] – nonché il licenziamento di gran parte della forza lavoro e la riproduzione di quello che Marx chiamava “esercito industriale di riserva”, cioè il proletariato impoverito e disoccupato. Come lucidamente osservato, fra gli altri, da Rosa Luxemburg, questo esito è funzionale e anche benefico al capitalismo. “Le crisi”, infatti, “svalutando periodicamente il capitale, ribassando il prezzo dei mezzi di produzione e paralizzando una parte del capitale attivo, hanno precisamente come effetto l’aumento dei profitti e, attraverso ciò, creano le condizioni per nuovi impieghi di capitale e per una nuova estensione della produzione” [12]. Lungi dall’essere risultati di una sorta di errore di calcolo – che del resto potrebbe esistere solo in un’economia pianificata e non in una di libero mercato, che non calcola il quanto e il come della produzione se non a livello di singola azienda –, dunque, le crisi vivificano l’economia capitalistica; ma ad alto prezzo per la maggior parte degli umani e degli altri animali.
L’ESTREMISMO, MALATTIA INFANTILE DELL’ANTISPECISMO
Hanno dunque ragione quei – pochi – antispecisti anticapitalisti che bollano la Nutella Plant based e simili come vegan-washing, e la condannano senza appello? Non proprio. La trasformazione radicale non può avvenire dall’oggi al domani, ma va preparata. Se è vero, come è vero, che non diffonde automaticamente consapevolezza circa la questione animale, la crescente presenza di alternative plant-based nei luoghi della distribuzione può però fornire spunto all’azione informativa e di sensibilizzazione degli attivisti. Che accanto a un popolare prodotto nella sua versione tradizionale si trovi la versione plant-based di quello stesso prodotto può suscitare una curiosità nel consumatore che gli attivisti cercherebbero di soddisfare. Sarebbe insomma un pretesto per approfondire (vedo che si diffondono alternative vegetali, ho un’idea solo approssimativa del perché, me la chiarisco grazie al materiale informativo e/o alla conversazione con gli attivisti) un’esperienza che, essendo concreta, vissuta e condivisa, è potenzialmente in grado di attivare quell’apprendimento significativo di cui parlano tanta pedagogia e tanta psicologia contemporanee [13]. Più importante ancora, la crescente presenza di prodotti vegan/plant-based permette alternative materiali al consumo tradizionale, liberando il veganismo dall’aura di rinuncia e sacrificio che ancora lo circonda e contro la quale gli attivisti si battono proprio sfruttando la relativa abbondanza di proposte vegetali potenzialmente gradite anche ai consumatori tradizionali. La tradizione socialista – perlomeno quella socialista scientifica – ci ragguaglia sulla necessità della gradualità, da non confondere col riformismo. Parlando degli anni dal 1905 al 1917, Lenin scrisse: “All’inizio del periodo indicato non abbiamo incitato a rovesciare il governo, ma abbiamo chiarito l’impossibilità di rovesciarlo senza operare mutamenti preliminari nella composizione e nell’indirizzo dei soviet. Non abbiamo proclamato il boicottaggio del parlamento borghese, della Costituente, ma fin dalla conferenza di aprile (1917) del nostro partito abbiamo dichiarato ufficialmente, in nome del partito, che una repubblica borghese con un’Assemblea costituente è migliore di una repubblica borghese senza Assemblea costituente […] Senza tale preparazione lunga, prudente, circostanziata, previdente, non avremmo potuto né riportare la vittoria nell’ottobre 1917 né difendere questa vittoria” [14]. Lo stesso Marx non pensava di poter rinunciare a compiere una serie di passaggi intermedi per arrivare all’obbiettivo che, nel suo caso, era la socializzazione dei mezzi produttivi. In un resoconto sul diritto di successione, contenuto negli atti della seduta del Consiglio Generale dell’Internazionale del 20 luglio 1869, scrisse ad esempio: “Se gli uomini risparmiano per i propri figli, il loro fine principale è assicurar loro i mezzi di sussistenza. Se dopo la morte dei genitori i figli avessero ciò di cui hanno bisogno, i genitori non si preoccuperebbero di lasciar loro i mezzi necessari per vivere; ma finché ciò non accade, l’abolizione del diritto di proprietà non farà che generare difficoltà; essa irriterebbe e impaurirebbe la gente e non sarebbe di alcuna utilità. Invece che l’inizio, questa misura può soltanto essere la conclusione di una rivoluzione. Dapprima devono venire create le condizioni per la socializzazione dei mezzi di produzione” [15]. E tuttavia l’antispecismo anticapitalista vede bene il rischio implicito in questo approccio, cioè quello dell’acquietamento delle coscienze. Proprio la diffusione di prodotti vegan e cruelty-free, infatti, potrebbe spegnere ogni piccola fiammella di inquietudine per la condizione degli animali non umani che fosse accesa fra le masse, inducendole a credere che la situazione stia migliorando e che non ci sia bisogno di occuparsi, né di preoccuparsi del problema. Le splendide sorti e progressive del capitalismo vegan fornirebbero una confortevole rassicurazione, giustificando così l’inazione individuale. Questo è del resto il rischio di ogni riforma, intesa in senso ampio come modificazione progressiva e miglioramento parziale della situazione di partenza. Il geniale uomo politico liberale Camillo Benso, conte di Cavour, fu fautore di fondamentali riforme sociali e politiche per la nascita dell’Italia unita; e conosceva bene il loro potere anti-rivoluzionario. In un discorso pronunciato il 6 marzo 1850 da deputato del Regno, in Aula, tra gli applausi della sinistra, disse: “Le riforme compiute a tempo invece di indebolire l’autorità la rafforzano. Invece di crescere la forza dello spirito rivoluzionario lo riducono all’impotenza” [16].
I marxisti hanno sempre riconosciuto il rischio connaturato all’azione politica. Già Lenin invitava a non immobilizzarsi per l’incertezza degli esiti e il timore degli sbagli, e teorizzava la strategia rivoluzionaria degli attacchi e delle ritirate, del lavoro nelle istituzioni borghesi (“Dentro e fuori la Duma”!), delle alleanze con forze non rivoluzionarie (“Soltanto chi non ha fiducia in se stesso può aver paura di stringere alleanze temporanee anche con elementi incerti” [17]). Tuttavia non dobbiamo sottovalutare i rischi per la fretta di agire e il desiderio di strappare terreno al nemico. Occorre sapere distinguere per decidere se e come muovere i nostri passi. Come Lenin, un’altra grande rivoluzionaria marxista, che abbiamo già citato in questo lavoro, si trovò ad affrontare la sfida delle riforme. Di fronte ai socialisti riformisti Kautsky e Bernstein, per i quali il capitalismo, a differenza di quanto previsto da Marx e Engels, non andava incontro al crollo totale, ma anzi si adattava sempre meglio a ogni cambiamento, Luxemburg oppose una confutazione che è ancora oggi un capolavoro di teoria rivoluzionaria. La tesi dei riformisti consisteva in questo: lo sviluppo del sistema creditizio, delle organizzazioni imprenditoriali, del sistema di comunicazione e il miglioramento sociale ed economico del proletariato – ottenuto anche per via sindacale – avrebbero rafforzato il capitalismo mettendolo al riparo dalle crisi cicliche di cui aveva parlato Marx (e che si erano effettivamente verificate). A sua volta, questo rafforzamento del capitalismo avrebbe reso necessario un approccio diverso da quello dei rivoluzionari che, approfittando di una delle sue crisi, avessero voluto organizzare le masse per sovvertirlo. Per Kautsky e Bernstein l’instaurazione del socialismo sarebbe dovuta avvenire, quindi, non per via rivoluzionaria, ma “estendendo il controllo sociale dell’economia” tramite riforme e lotte sindacali “e attuando gradualmente un sistema di cooperative” [18] controllate dai lavoratori. Nel suo “Riforma sociale o rivoluzione?”, Luxemburg dimostra allora come nessuno degli elementi individuati dai riformisti garantisse davvero il rafforzamento del capitalismo, tantomeno fino al punto da evitare che si verificassero le sue tipiche crisi. Il credito, per esempio, non fa che espandere ulteriormente la produzione, aumentandone le possibilità e permettendo a una massa di produttori di gettarsi su mercati spesso già saturi, assicurandone la rovina. Trust, cartelli e organizzazioni imprenditoriali non pongono fine a questa anarchia produttiva (o dovrebbero porre fine a sé stessi); semmai ne traslano gli effetti più stridenti dalle singole aziende ai rami d’industria, e tutelando gli interessi dei produttori intensificano il loro conflitto con i consumatori. Dal canto loro, è vero che i sindacati migliorano le condizioni della classe lavoratrice; ma è anche vero che non possono evitare le crisi e che, anche quando ottengono un po’ di potere decisionale sulla produzione, finiscono per collaborare con gli industriali contro i consumatori e gli imprenditori concorrenti. Non è questo il luogo per approfondire la confutazione luxemburghiana del revisionismo, che nel testo citato si dipana per molte pagine, alle quali rimandiamo il lettore che volesse approfondirla. Possiamo però trarre una prima conclusione da quanto detto finora: c’è caso che la spinta radicale e rivoluzionaria dell’antispecismo anticapitalista che potremmo definire estremista (nel senso di Lenin [19]), così ostile ai prodotti del capitalismo vegano, gli abbia fatto fare il giro fino a portarlo curiosamente vicino al riformismo alla Kautsky e alla Bernstein. Tale è l’effetto della sopravvalutazione della capacità auto-correttiva del capitale. Immaginare un tale potere di adattamento porta infine su posizioni reazionarie nella pratica.
STORICIZZARE, STORICIZZARE SEMPRE!
Abbiamo visto come tanto le speranze del veganismo affascinato dal capitalismo vegan, quanto i timori dell’antispecismo anticapitalista estremista, siano infondati. Il nostro ragionamento ha confutato sia la “teoria” che la Nutella Plant-based e i suoi equivalenti siano un passo in avanti, sia che ostacolino il cammino verso la liberazione animale. Ma allora? Dobbiamo dire che non si può rispondere alle domande che ci siamo posti, cioè se dovremmo vedere con favore o meno la diffusione dei prodotti amici dei vegani, se essi siano sintomo di un cambiamento in atto verso tipi di produzione più sostenibili e meno crudeli o semplicemente il tentativo delle aziende di ripulirsi l’immagine e continuare a fare profitto sulle spalle della classe lavoratrice? In effetti è proprio così: queste sono domande che riguardano problemi irrisolvibili. Non è un caso che si continui a sbattere la testa senza mai pervenire a una conclusione. Ma è così soltanto perché si tratta di domande mal poste. Non è possibile decidere a priori se qualcosa sia un fattore di progresso o conservazione sulla via della rivoluzione. Senza calare il fenomeno nella sua realtà storica, esso continua a sfuggirci. Ognuno dirà di vedere, nelle sue forme mutevoli, una cosa o l’altra a seconda della sua immaginazione e dei suoi desideri, come si fa con le nuvole nel cielo. Su questo piano d’analisi non ci eleviamo di un palmo sopra la fantasticheria e il chiacchiericcio delle “opinioni” delle parti in polemica.
È evidente che il capitalismo vegan non coincida con la liberazione animale né tantomeno con la rivoluzione socialista. Ma questo non è un buon argomento contro la diffusione dei prodotti vegani e cruelty-free. Se la versione vegetale di un prodotto popolare sia o meno un’opportunità di miglioramento e di avanzamento dell’istanza di liberazione animale dipende da se esista un movimento che, sfruttandola, la renda tale; se questo movimento è forte, strutturato e strategico; se ha presa sulle masse e agganci politici tali da poter indurre un programma di incentivazione della produzione plant-based e disincentivazione di quella basata sullo sfruttamento degli animali non umani, etc. Perciò è nel torto quell’antispecismo sì anticapitalista, ma essenzialmente riformista che, privo di visione storica e procedendo per assoluti e generalizzazioni, si attacca acriticamente allo pseudo-Lenin de “I capitalisti ci venderanno la corda con la quale li impiccheremo” [20] per giustificare il proprio opportunismo con un rivoluzionarismo di facciata. La dura realtà è che ora come ora – e già da diverso tempo – sono piuttosto i capitalisti a impiccarci, e negli ultimi decenni, con l’arretramento della lotta sociale, ci hanno ridotto ai minimi termini. Dal canto suo, l’antispecismo anticapitalista estremista sbaglia di certo a generalizzare i propri giudizi sui prodotti plant-based, vegan e cruelty-free delle aziende capitalistiche, ma almeno intuisce che oggi il movimento di liberazione animale non è nella condizione migliore per sfruttare le contraddizioni del capitale zootecnico. L’errore di tale forma di antispecismo è di fermarsi a questo punto, senza mettersi a lavoro per la creazione delle condizioni alle quali il plant-based – e altri elementi di riforma – diventerebbe davvero una corda. Non certo quella con cui impiccheremmo il capitalismo, che sussisterebbe anche in un ipotetico mondo vegano – ahinoi molto improbabile in un modo di produzione capitalistico[21]! Ma almeno quella con cui ci isseremmo un poco sopra le attuali miserie. Per rimediare a queste ultime occorrerà però concentrarsi su altro che le alternative vegetali nella distribuzione. Occorrerà concentrarsi invece sulla nascita del soggetto che, unico e solo, potrebbe realizzare la liberazione umana e degli altri animali: il soggetto rivoluzionario, la classe lavoratrice [22]. Al fine della liberazione animale occorrerà poi che questo soggetto assuma una certa coscienza politica. Come potrebbe farlo? Storicizzando, attualizzandolo, il Lenin del “Che fare?”: la coscienza della classe operaia non può diventare vera coscienza politica se gli operai non si abituano a reagire contro ogni abuso, contro ogni manifestazione dell’arbitrio e dell’oppressione, della violenza e della soperchieria, qualunque sia la specie che ne è colpita [23]. Umana e non.
Note:
[1] Miliardari italiani, Giovanni Ferrero è il più ricco del 2022 (forbes.it)
[2] Food Affairs
[3] Arriva la Nutella vegana: svolta storica per Ferrero - Il Fatto Quotidiano
[4] Una storia di famiglia (ferrero.it)
[5] “Umano” fra virgolette, perché se è vero che in molto antispecismo si immagina una divisione fra umanità e resto dell’animalità, prospettive come quella che promuove Gruppo di Antispecismo Politico, basate su un antispecismo marxista, non attribuiscono la responsabilità dello sfruttamento animale a un’umanità astrattamente e astoricamente intesa; ma alle classi dominanti.
[6] Si verifichino, per esempio, i risultati dell’adesione dei partiti italiani al programma presentato loro, in occasione delle ultime elezioni politiche del Paese, dalle più grandi associazioni animaliste: adesione-partiti-a-programma-animalista.pdf (ancheglianimalivotano.it)
[7] Rosa Luxemburg, “Riforma sociale o rivoluzione?”, Prospettiva Edizioni, 2009, pag. 82
[8] Karl Marx, “Manifesto del partito comunista”, Feltrinelli, Milano, 2020, pag. 10
[9] Karl Marx, “L’ideologia tedesca”, Editori Riuniti, Roma, 2018, pag. 105
[10] Karl Marx, “Il capitale”, Newton Compton editori, s.r.l., Roma, 2018, pag. 656
[11] Globalmente, ogni anno vengono sprecati 52,4 milioni di tonnellate di carne. Per uno studio dell’Università di Leiden, questo numero corrisponde a 18 miliardi di animali uccisi senza nemmeno essere utilizzati a scopo alimentare. A loro si dovrebbero aggiungere i pesci, i più sfruttati in termini quantitativi: Ogni anno 18 miliardi di animali negli allevamenti vengono uccisi ma non consumati: l'inutile strage dovuta agli sprechi della catena produttiva e dei consumi - La Stampa
[12] Rosa Luxemburg, op. cit., pag. 49
[13] Fra gli altri, David Paul Ausubel e Carl Rogers.
[14] V.I. Lenin, “L’estremismo malattia infantile del comunismo”, edizioni Lotta Comunista, 2005, pag. 35
[15] Karl Marx, “Sul diritto di successione”, in Karl Marx, Friedrich Engels, “La critica dell’anarchismo”,PGreco edizioni, Milano, 2016, pp. 279, 280
[16] Cosmopolis | rivista di filosofia e teoria politica (cosmopolisonline.it)
[17] V.I. Lenin, “Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento”, Editori Riuniti, Roma, 2019, pag. 16
[18] Rosa Luxemburg, op. cit., pag. 18
[19] Cioè quello de “L’estremismo malattia infantile del comunismo”: un rivoluzionarismo dogmatico, astratto, purista.
[20] Lenin ha effettivamente detto qualcosa di simile, ne “L’estremismo”, a pagina 100 dell’edizione citata, dove parla di sostenere un politico non socialista come una corda sostiene l’impiccato. Ma a differenza di certi suoi epigoni, la sua era una visione davvero strategica, ovvero storica, problematizzante, che contestualizzava.
[21] Perché il socialismo per la liberazione animale (liberopensiero.eu)
[22] Che fare, quindi? Brevi note su teoria e prassi - La Città Futura (lacittafutura.it)
[23] L’originale di Lenin, a pagina 70 dell’edizione citata, recita: “La coscienza della classe operaia non può diventare vera coscienza politica se gli operai non si abituano a reagire contro ogni abuso, contro ogni manifestazione dell’arbitrio e dell’oppressione, della violenza e della soperchieria, qualunque sia la classe che ne è colpita”.