1. “Ma voi cosa proponete?”
Capita spesso che un’analisi teorica della situazione su un qualsiasi fronte delle lotte di liberazione, soprattutto quando voglia sottolineare le difficoltà o le contraddizioni di un determinata posizione, susciti l’obiezione: “ma allora tu cosa faresti?”. [1] L’urgenza della critica teorica, che permette di veder meglio i limiti dell’azione, viene così scavalcata dall’urgenza della prassi. Alle volte si pretende addirittura un programma dettagliato della rivoluzione come se la rivoluzione fosse un pranzo di gala per di più servito à la carte.
Non ci stupiamo di questo, rientra anzi perfettamente nella diagnosi teorica che proponiamo: l’arretramento e la disorganizzazione delle classi subalterne nella loro lotta contro il capitale – che è poi ciò che di fatto ci condanna oggi ad una posizione oggettivamente marginale in cui l’opzione teorica di ripensamento della prassi collettiva risulta una delle poche attività sensate e utili [2] cui dedicarsi – porta invece molti a dimenarsi nella ricerca di un’azione cui sono lasciate poche vie percorribili dall’attuale equilibrio delle forze in campo. Si tenta di superare l’impotenza oggettiva con un surplus di coinvolgimento soggettivo, come se la storia potesse accelerare per l’accendersi del nostro desiderio di fare.
2. Sul lavoro teorico e il suo collegamento con la prassi
Il lavoro teorico si svolge a diversi livelli ed è parte integrante della prassi, giacché non esiste azione che non sia orientata in vista di un fine che viene posto dal pensiero. Posto dal pensiero, certo, a partire dalle condizioni materiali date. Non esiste alcuna teoria che si eserciti nel vuoto, ogni asserzione sulla realtà muove sempre da presupposti empirici, interviene sul già dato per confermarlo, negarlo o superarlo. Per questo, non solo chi difende lo status quo ma anche il nichilista, chi si disinteressa della prassi in realtà mentre dice che “le cose sono come sono e niente ha senso, ogni agire è insensato” non sta facendo un'affermazione puramente teorica ma anche pratica, sta agendo, di fatto confermando l'ordine della realtà, impedendone il cambiamento.
Dal fatto che non esista alcuna opposizione tra teoria e prassi ma entrambe si intersecano a livelli diversi derivano due conseguenze.
La prima è che non c'è alcuna distinzione tra il momento critico-negativo e quello affermativo-postivo della teoria. Ogni asserzione teorica che intenda superare lo stato di cose presenti si rivolge ad esso sempre come negazione (non deve essere così) e come affermazione (deve essere così). E poiché la realtà è tenuta insieme non solo da una serie di strutture pratiche (azioni determinate a livello sistemico) ma anche da sovrastrutture ideologiche (pensieri, valori determinati a livello sistemico) ecco che anche la critica del pensiero altrui è parte integrante e ineludibile dell'attività teorica. L'allergia dell'attivismo grassroot ad ogni critica, l'incapacità di affrontare il dissenso se non come “offesa”, come “attacco personale”, è un indizio dello scarso livello di preparazione teorica con cui dobbiamo fare i conti.
La seconda conseguenza dell'intreccio teoria/prassi è che occorre sempre capire a quale livello si ponga l'affermazione teorica con cui ci si confronta. Perfino le questioni tattiche e organizzative più spicciole hanno bisogno, per essere affrontate razionalmente, di un certo distacco teorico che permetta di tralasciare i dettagli per concentrarsi sugli aspetti essenziali, strutturali. Figuriamoci quale livello di astrazione richieda definire le questioni strategiche!
Ora, soprattutto una teoria che si ponga come obiettivo un mutamento strutturale profondo rispetto allo stato di cose presenti non può che indicare come necessari cambiamenti che si pongono talmente al di là dell'orizzonte fattuale che il collegamento pratico con il presente non può che apparire nebuloso o utopistico. Su questo occorre riflettere con attenzione per non cadere in due errori speculari. Non si deve né fare del “benaltrismo”, né pretendere “ricette per l'azione” ad ogni costo. Cosa significa questo? È chiaro che se io pongo come obiettivo la “collettivizzazione dei mezzi di produzione” (che, si badi, è senz’altro un obiettivo a lunga scadenza ma di per sé non è un fine assoluto, bensì a sua volta un mezzo per realizzare altri fini più complessi…) sono anche convinto che molte contraddizioni attuali non possano essere veramente risolte se non passando per quell'obiettivo. Ma è altrettanto chiaro che non avrebbe senso, e sarebbe sciocco benaltrismo criticare un'azione a favore dei migranti o una marcia femminista perché in quel momento non stanno lottando per la collettivizzazione dei mezzi di produzione (altra cosa, però, sarebbe criticare l'affermazione che il problema migranti va risolto col “buon cuore”, che il razzismo è causato dell'egoismo individuale o che il “lavoro produttivo” familiare produce plusvalore).
Allo stesso modo, chi di fronte alla richiesta di collettivizzazione chiedesse “sì ma in concreto cosa proponi?” peccherebbe di un errore speculare ma altrettanto astratto. Perché è del tutto ovvio che qualsiasi affermazione che legasse lo stato presente con quell'obiettivo a lungo termine non potrebbe che risultare vaga. L’astrazione e la vuotezza di quella domanda si comprende meglio qualora si osservi che posto che uno volesse stare al gioco e offrire una risposta, la risposta non sarebbe mai soddisfacente. Se io dicessi, ad es., “occorre costruire un fronte politico unitario che si faccia rappresentanza di tale posizione”, l'interlocutore potrebbe accusarmi di “astrattezza” perché non gli ho spiegato come fare. E così via.
Lo stesso accadrebbe anche con richieste che fossero, apparentemente, meno lontane e utopistiche come la “nazionalizzazione della carne coltivata”, la “chiusura di zoo, circhi e allevamenti” o il “reddito universale di base”. Finché non si procede a tracciare ogni passaggio dell'affermazione teorica al momento in cui ti alzi dal divano, si può sempre dire che la teoria è “astratta” e non dice “come fare”.
Questo deriva dal fatto che non si capisce cosa significa “astrazione” e quindi cosa significa teoria. E che ci si riempie la bocca di “concreto” confondendolo con i rapporti immediati che non vengono compresi nella loro essenza.
3. Riconoscere il “blocco della prassi” come presupposto dell'analisi
La rivoluzione non è dietro l'angolo ma perfino esigere un “programma di transizione” [3] presuppone che ci sia un soggetto in grado di realizzarlo. Chi si risente delle nostre critiche non solo dà per scontato che tale soggetto esista ma anche che abbia già la possibilità di realizzare quell'azione collettiva, coordinata e a lungo termine per uscire dalla condizione attuale di stallo. Ma solitamente questa posizione di stallo non viene riconosciuta o viene attribuita a qualche mancanza di iniziativa o di convincimento soggettivo cui si potrebbe sopperire con dosi di “buona volontà”.
Chiunque oggi ponga la domanda sul “che fare?” senza aver fatto prioritariamente un’analisi della situazione che ha prodotto il blocco della prassi in cui ci muoviamo non è credibile e la sua domanda deve essere rispedita al mittente. Ovviamente con “blocco della prassi” non intendiamo affatto che non si possa fare nulla, o che non ci siano invece cose molto urgenti da fare, adesso, cose che vanno fatte anche se a farle siamo in pochi, perfino cose che sono moralmente obbligatorie per chi voglia opporsi all’oppressione e allo sfruttamento. Ma non chiamatela prassi, per favore. O, almeno, abbiate la decenza di distinguere l’esigenza soggettiva di “fare” (non importa se da soli o in piccoli gruppi), dall’azione collettiva volta alla trasformazione delle strutture della vita collettiva.
La diagnosi da cui è necessario partire è quella che muove da due mutamenti storici che disegnano il contesto in cui ci muoviamo e che non possono essere ignorati senza banalizzare o trasformare in vuota chiacchiera ogni discorso sull’azione. In prima istanza, la fine del progetto socialdemocratico del dopoguerra, esauritosi, al più tardi, con la crisi del 1973. In secondo luogo, il crollo dell’URSS nel 1991 anticipato dall’emergere dell’egemonia neoliberista nel decennio precedente.
Mentre in Occidente declinava il modello keynesiano che ha fatto da sfondo alla crescita della conflittualità e delle rivendicazioni operaie (un'epoca in cui l'allargamento dei diritti sociali proseguiva di pari passo con quello dei diritti civili), la progressiva desertificazione delle nostre vite ad opera del finanzcapitalismo ha smontato pezzo dopo pezzo ogni conquista del welfare, ridotto i sindacati ad una posizione di irrilevanza, svuotato la politica e la cultura da ogni riferimento a quell’altrove, a quel possibile che andava sotto il nome di “socialismo”. Il mondo, il linguaggio, l’immaginario è diventato unidimensionale: attraverso una costante e coerente azione a tutti i livelli l’élite neoliberista ha reso senso comune la sua visione del mondo, fino a rendere non solo obsolete ma addirittura utopistiche e irrazionali parole come “solidarietà” e “lotta di classe” di cui si erano nutrite le grandi masse proletarie del pianeta nel dopoguerra.
4. La crisi del socialismo storico e l'affermarsi della “galassia antagonista”
È vero che tanto il modello sovietico, quanto quello socialdemocratico erano già entrati in crisi da tempo. A ciò rispose, in modo confuso ma comprensibile, la sinistra “di movimento” degli anni ’60, la New Left americana e la vasta galassia di gruppi extraparlamentari europei, che in vario modo protestavano contro la burocratizzazione e la sclerosi della politica “tradizionale”, del marxismo “ortodosso”, così come del “riformismo” sempre più integrato nel sistema. In alcuni casi si trattò di posizioni politiche che recuperavano forme di spontaneismo e immediatezza, che predicavano un recupero della vita al di là degli imperativi della civiltà tecnologica, intendendo rivoluzionare l'esistenza fin dalle relazioni personali (“il personale è politico”) ecc. Questo tipo di sentire – che inevitabilmente traduce la politica in “stile di vita” e percepisce come astratta ed alienante l’analisi delle strutture collettive preferendole la centratura sul vissuto soggettivo – ha avuto la sua ragion d’essere ma è stata ampiamente superata dagli sviluppi del capitalismo.
Per quanto quelle posizioni potessero avere una giustificazione (che comunque non va assolutizzata) chi ancora oggi pensasse che il problema siano le strutture partitiche, l’analisi teorica dei processi oggettivi, la rappresentanza parlamentare, chi ancora oggi parlasse di “riduzionismo economicista” senza sentirsi spernacchiato dalla storia non ha speranze di rinsavimento. Viviamo in un mondo in cui mentre ci siamo accontentati di testimoniare “dal basso” la nostra opposizione “al sistema”, con mille “stile di vita alternativi”, il capitale ha occupato ogni spazio possibile, colonizzato le nostre vite e il nostro linguaggio, espugnato ogni luogo di resistenza istituzionale, politico, economico e sociale che non si riduca al nostro misero privato.
5. Sciogliere l'ambiguità: anticapitalismo o socialismo?
Oggi la posta in gioco è anzitutto recuperare terreno nella lotta contro il potere del capitale, ridurre la sua capacità di determinare le nostre vite in modo che possiamo essere noi a determinarle. Per fare questo non c’è altro modo che attaccare il capitale là dove realizza direttamente (mondo del lavoro) e indirettamente (mondo della rappresentanza politica) i propri scopi.
Per fare questo occorre guardare dietro la fumosa formula dell’anticapitalismo: stante l’attuale stato delle forze in campo “anticapitalista” non è chi soggettivamente pensa che il mondo così com’è non gli piace ma chi anzitutto lotta attivamente per ridurre gli spazi di manovra del capitale in tutte le sedi ove il conflitto capitale/lavoro si produce. Nessuno di questi luoghi di per sé basta: non la lotta sindacale, non la lotta politica dentro e fuori il Parlamento, non la lotta culturale. Ma tutte sono essenziali e si sostengono tra loro. Occorre dunque recuperare la discriminante socialista: chi dice di essere “anticapitalista” ma non fa nulla per recuperare terreno su quei piani di lotta non è e non può essere un alleato. Almeno non in questa fase. Non importa quanto ci si senta “radicale”: se la tua azione consiste nel lasciare il finanzcapitalismo desertificare le nostre vite perché la battaglia secondo te si svolge “altrove”, ha altre “priorità”, ebbene stai da solo con i tuoi mulini a vento.
6. Il presupposto di ogni prassi razionale: recuperare le forme teoriche e pratiche della mediazione
Torniamo al punto del “che fare?”. Nell’attuale fase non è più possibile per i marxisti cavarsela con formule stereotipate come cercare “l'unità dialettica” di teoria e prassi. Questa formula aveva un senso – seppure già burocratizzato e in parte svuotato di contenuto – in una fase in cui l'azione politica poggiava su strutture organizzative sedimentate nel tempo, aveva obiettivi già fissati a medio e lungo termine. Il mondo era diviso in blocchi, esisteva un’alternativa socialista “reale” (per quanto problematica) la cui presenza produceva inevitabilmente effetti sul mondo occidentale liberale e sull’alternativa socialdemocratica al suo interno. L'azione politica del mondo del lavoro si muoveva così dentro un contesto che offriva un certo spazio di manovra (la contestazione del modello liberale avveniva all'interno e all'esterno e questo favoriva sia la “radicalizzazione” a sinistra che il “riformismo” socialdemocratico), benché si può convenire con i francofortesi che già allora si trattasse di un contesto in buona parte bloccato. Quindi “unità dialettica di teoria e prassi” significava, banalmente, che una teoria più o meno fissata nei suoi tratti generali (il marxismo occidentale e quello orientale: il marxismo-leninismo), doveva poi fornire gli elementi di analisi della “situazione concreta” (Lenin). Ma, come notò subito Trotzky all’epoca dell’emergere dello stalinismo, questo spesso significava solo che i partiti comunisti sceglievano in modo “opportunistico” o “pragmatistico” come agire e adattavano di volta in volta la propria teoria alle decisioni già prese.
Oggi ci troviamo però in una situazione migliore? Al contrario. Lo sfaldamento delle strutture organizzative del movimento dei lavoratori ha portato all’impossibilità di trovare forme di mediazione tra la “situazione concreta” e i processi storici più ampi, tra individuo e masse, tra mezzi e fini ecc. ecc. Tutto è ridotto ad una forma immediatistica, sia la teoria che la prassi. E tutto diventa, invece che “concreto”, sempre più “astratto”. Lo dimostra proprio quella domanda che sale ogni volta che si tenta l’analisi teorica per uscire dall’impasse in cui ci troviamo: “sì, ma cosa proponi di fare qui e ora?”
7. La falsa “concretezza” dell'apparenza
È appena il caso di notare che “qui” e “ora” che apparentemente sono parole concretissime, in realtà, come osservò acutamente Hegel, sono le più astratte e vuote. Qui e ora di cosa? Di chi? Come si può pretendere di avere una “ricetta” per l’azione in un qui e ora totalmente privi di qualsiasi coordinata storico-geografica? Come se la lotta contro il capitale – che certo è una lotta storica che segna un’epoca della civiltà e che si combatte a livello globale – potesse essere definita nello stesso modo in Italia, in Russia, in Gran Bretagna o in India! E come se quella ricetta per l’azione potesse funzionare ugualmente nel 2023 o nel 2050. Ma viviamo in tempi che dal Covid-19 alla guerra in Ucraina hanno dimostrato quanto velocemente cambiano le possibilità di azione nell’immediato e anche gli scenari geopolitici, con riposizionamenti repentini imprevedibili fino ad un istante prima.
Purtroppo questi casi dimostrano anche come la debolezza cronica del movimento internazionale dei lavoratori lo abbia reso oggetto più che soggetto attivo di quei processi e come l’egemonia neoliberista che è sembrata per un istante incrinarsi sia tornata subito a guidare il gioco imponendo le sue parole d’ordine e i suoi obiettivi tattici e strategici.
La sinistra “movimentista” vive invece ancora del mito dell’immediatezza, scambia le sue condizioni fenomeniche di vita, cioè l’apparenza in cui si muove, per l’essenza della realtà, confonde l’astrazione cui la condanna il potere del capitale tecno-finanziario globale, per una condizione di “concretezza”. Occorre spezzare questo incanto, occorre far svegliare la sinistra sedicente “radicale” dal suo sogno ad occhi aperti, “strappare i fiori dalle catene non per contemplare le nude catene” (Marx) ma per permetterci di vedere meglio le catene che bloccano la nostra capacità di movimento. [4]
8. La necessità dell’astrazione per cogliere l'essenza dei fatti sociali
Sta qui la necessità dell’astrazione teorica, quella che ci costringe a rompere ogni visione armonica della realtà per mostrare i conflitti e le contraddizioni latenti. Esiste una lotta di classe nella teoria (Lenin, Althusser). La teoria, oggi più di ieri, ha la necessità di smascherare l’ideologia in ogni sua forma, soprattutto quella che a sinistra non viene neanche più percepita come tale in conseguenza dell’egemonia culturale e politica del neoliberismo che ci ha portato ad introiettare i suoi valori e ha completamente cancellato ogni riferimento sostanziale al socialismo come alternativa di civiltà. Ed è chiaro che l’effetto primario di questa astrazione teorica è farci vedere che dietro l’apparente unità del fronte “anticapitalista” ci sono invece delle linee di frattura, soggettività che ambiguamente si muovono in direzione dell’interclassismo, che considerano il capitale un rapporto sociale secondario o irrilevante rispetto ad altre esigenze di “emancipazione”. Qui la teoria ha il compito fondamentale di produrre la scissione, la separazione, senza la quale non c’è alcuna chiarezza negli intenti ma tutto diventa confuso e incoerente.
Occorre essere dentro le lotte transfemministe, antirazziste, antiabiliste, antispeciste ecc. ma sempre a partire da una visione che divide e non unisce: per quale modo di produzione stiamo lottando? Proprio su questo occorre evitare ogni vaga e confusa generalizzazione. Chi parla di lotta per un “modello di società” non sa di cosa parla. Stiamo lottando per togliere by any means necessary i mezzi di produzione dalle mani dei privati o no? Chi non risponde a questa domanda in modo netto e chiaro sta vendendo fuffa ed è bene che non si mescoli con chi invece lotta perché i produttori diretti abbiano la possibilità di determinare la propria esistenza individuale e collettiva.
9. L'unione delle lotte, la divisione di classe
Questo, come abbiamo detto sopra, non significa affatto che le soggettività oppresse non debbano lottare per emanciparsi dalla propria specifica forma di oppressione. Che lo facciano non è soltanto assolutamente normale e ovvio, ma è anzi prioritario proprio per il fronte socialista, per due motivi complementari ma distinti. Da un lato, perché il rapporto di oppressione capitalistico si serve anche di quelle forme di oppressione in vario modo (per sfruttare meglio alcuni lavoratori approfittando della loro minorità sociale, per creare divisioni ideologiche nel fronte del lavoro ecc.). Dall’altro, perché il socialismo in quanto progetto di democrazia materiale e radicale non può al proprio interno che organizzarsi in forma orizzontale e inclusiva, cancellando ogni forma arbitraria, tradizionale, irrazionale di discriminazione.
Proprio per questo, però, il socialismo è una lotta divisiva, non unitaria; “unitaria” può esserlo solo al proprio interno, come asse [5] attorno a cui ruotano tutte le soggettività oppresse che intendono opporsi al capitale; d’altronde, “l’unità delle lotte” senza il socialismo è priva di una struttura materiale realmente alternativa al capitalismo. Ci si unisce ma non si sa bene per fare cosa.
10. Oltre il leninismo. Ma senza tornare indietro
Certo, oggi la risposta alla domanda “Che fare?” non può ripetere in modo meccanico l’analisi di Lenin (che è comunque più concreta e utile di qualsiasi chiacchiera “rivoluzionaria” basata sullo stile di vita e sulle scelte individuali). Ad esempio, è chiaro che lo scenario tecnologico attuale rende difficile e forse anche non desiderabile attualizzare l’idea di “avanguardia politica” nel senso classico del termine. Si potrebbe immaginare una forma paradossale di “avanguardia diffusa”, “avanguardia di rete”, ma sempre sulla base di una chiara analisi teorico-pratica in cui l’elemento cosciente interviene a segnare i punti di rottura necessari perché l’azione non diventi “azionismo” o “movimentismo” fine a se stesso.
Allo stesso modo, il ruolo dello Stato deve senz’altro essere definito in termini diversi dal secolo scorso, non fosse altro perché tanto i processi di centralizzazione del potere nelle istanze sovranazionali, quanto il riemergere di conflitti geopolitici, hanno cambiato lo scenario e rendono urgente una nuova riflessione critica tanto sul significato e il ruolo dello “Stato” quanto su quello di “imperialismo”.
Ma tutto questo “aggiornamento” necessario non giustifica affatto il ricorso a formule stereotipate ancora più vecchie come quelle dello pseudo-radicalismo anarchico che, negando astrattamente lo Stato, lasciano il potere legale, economico, massmediatico e militare nelle mani delle classi possidenti. Oppure sulle potenzialità taumaturgiche delle “comunità”, sulle “tradizioni” locali, sulle pratiche “antisistema” fondate sul volontarismo ecc. Se riflessione sullo Stato e l’economia deve esserci dovrà essere più concreta e non meno, più differenziata e non meno. Parlare di “economicismo” e “autoritarismo” del marxismo nella fase attuale catastrofica in cui l’alienazione del salariato ha raggiunto livelli ottocenteschi e politiche globali sono più necessarie che mai significa ripetere filastrocche stantie. Inoltre, un secolo e oltre di esperimenti di democrazia radicale e partecipazione dal basso hanno comunque segnato, nel bene e nel male, la coscienza di masse in lotta, insegnato a non ripetere molti degli errori del passato: come diceva Rosa Luxemburg gli errori storici costituiscono il fattore principale di auto-educazione delle masse. Chi oggi in nome di una mitologica e metafisica “libertà” e “spontaneità” “dal basso” insiste con le formulette con cui si condannava l’analisi marxiana cento anni fa (per altro senza capirla) non fa onore proprio alle masse che a parole intende celebrare.
11. La lotta politica va sempre contestualizzata, non ha principi a priori
Ogni sforzo teorico deve quindi essere volto a contribuire alla ricostruzione dell’unità socialista, un’unità ovviamente che si vede strategicamente come “rivoluzionaria” (nel senso tecnico di lottare per un modo di produzione alternativo al capitalismo) ma che non può esserlo astrattamente. Ogni condanna del “riformismo” diventa infantile e settaria se impedisce di procedere nella giusta direzione. Questa direzione è chiaramente segnata dalla teoria, in astratto, come unità del fronte socialista a livello nazionale e internazionale. Questa unità si costruisce a diversi livelli ma è essenziale che essa venga anche percepita dai lavoratori come un’esigenza vitale, immediata, concreta, non solo di lotta a lunga scadenza. Ciò significa, appunto, che stante l’attuale stato di prostrazione delle classi subalterne, è possibile prevedere diversi livelli di riforme in grado di migliorare le condizioni di vita del proletariato globale, partendo dal livello nazionale fino alle politiche sovranazionali. Chi, in nome della “rivoluzione immediata”, negasse questa possibilità sarebbe cieco rispetto alle condizioni di vita delle masse. C’è dunque un ampio spazio per elaborare scelte tattiche e strategiche che non possono essere anticipate in modo generico perché dipendono dalle condizioni di vita della classe lavoratrice nei diversi paesi (ad es. “l’introduzione” del salario minimo potrebbe essere una priorità di lotta per l’Italia ed avere un peso diverso dal suo “adeguamento” in altri paesi come in Germania, in cui già è presente e viene gestito dall’establishment socialdemocratico).
Non può dunque darsi un programma aprioristico ma ogni programma, benché nelle sue linee generali ricada all’interno della prospettiva comune tracciata dall’alternativa tra socialismo e capitalismo, va poi calato nel concreto della situazione e della fase specifiche. Lo stesso dicasi per tutta una serie di questioni (come il problema del rapporto tra legalità e illegalità, tra centralismo e federalismo, così come i “contenuti” immediati dei programmi: dalle misure di welfare alla statalizzazione di aziende di interesse pubblico) che dipendono dal contesto storico e geopolitico in cui si muove ogni organizzazione socialista.
12. Prospettive della liberazione animale
Quanto detto vale, ovviamente, anche per la lotta di liberazione animale. Nonostante ormai conti i suoi anni a decine, il “movimento” di liberazione animale è ancora senza guida teorica e senza direzione unitaria – da qui le virgolette: se di movimento si può parlare, è solo per il fatto che ogni parte della piccola galassia antispecista si agita in qualche direzione, spesso opposta a quella di qualche altra sua parte. Né si vede la fine di questo caos. L’urgenza soggettiva di “azione”, di “concretezza” e di “efficacia” viene anche da qui; dalla consapevolezza, cioè, che la riflessione teorica sembra non risolversi mai in un accordo generale sui principi fondativi e gli obiettivi [6], mentre le dimensioni dello sfruttamento animale aumentano. Questo però non può essere imputato a chi affina gli strumenti critici e si sforza di fornire chiavi di lettura della realtà sociale. Che il problema del movimento sia la ridondanza di teoria è semplicemente falso. Ciò che ostacola davvero l’affermazione di un movimento antispecista capace di contrastare lo sfruttamento e la discriminazione animali è piuttosto la sua base sociale interclassista, che lo rende ambiguo, incerto, in ultima analisi inadatto al compito rivoluzionario di cui è caricato dagli ambienti radicali. È qui, oltre che nella crisi storica della sinistra e nell’affermazione della forma-movimento come organizzazione sociale alternativa rispetto alla forma-partito novecentesca su cui ci siamo soffermati sopra, che la trasversalità politica che contraddistingue tuttora il movimento affonda le sue radici. Se l’antispecismo, com’è oggi, non riesce a trovare un indirizzo e una prassi comune, forse occorre smetterla di occuparci di improbabili “convergenze” e di alleanze giustificate da un uso improprio e opportunistico della teoria intersezionale. [7] Occorre invece rifondare il movimento saldandolo a una base sociale omogenea e all’unica classe rivoluzionaria che può perseguire un ideale sociale radicalmente democratico: la classe lavoratrice. È anche per questo che, fermo restando l’opportunità di conseguire miglioramenti particolari quando non contrastino con l’obiettivo generale della lotta, se davvero il movimento di liberazione animale si riconosce come parte di una liberazione “totale” (Steven Best, Total liberation, 2014), dovrebbe finalmente spostare il suo focus dagli altri animali a ciò che rende inevitabile non solo la loro subalternità, ma quella della classe lavoratrice stessa: il modo di produzione capitalistico. Senza la socializzazione dei mezzi produttivi e distributivi, compito precipuo della classe lavoratrice, non può esserci liberazione animale. Solo tale socializzazione, infatti, trasforma la produzione da produzione per il mercato a produzione per l’utilizzo. Solo tale socializzazione sottrae “decisionalità” al meccanismo indifferenziante del capitale, restituendola alla classe lavoratrice; il che rende possibile – non sicuro, ma diffusamente e sistematicamente perseguibile come non è oggi – il superamento della mercificazione del vivente e dei bisogni falsi e indotti su un piano oggettivo. Non su quello soggettivo della “decostruzione” post-moderna e post-strutturalista. Non su quello del moralismo rivoluzionario astratto, che malgrado gridi all’ “unità” e alla “concretezza”, non può fare altro che creare e ricreare enclave e settarismo. È solo quando la classe lavoratrice inizia ad auto-determinarsi che la diffusione e l’attecchimento dell’antispecismo diventano davvero possibili; che l’opera infaticabile di informazione e sensibilizzazione tematica di attivisti e attiviste per la liberazione animale, che oggi si scontra non solo contro le politiche economiche di Stati e aziende zootecniche capitalistiche ma anche con il muro dell’egoismo borghese, può finalmente trovare terreno fertile. Guardare oltre l’orizzonte storico della costituzione del soggetto del “programma di transizione” e del suo compito precipuo, immaginare già ora le forme particolari della società della liberazione animale e, con esse, le lotte e le rivendicazioni specifiche da portare avanti per affrancare gli altri animali dal dominio umano – e gli animali umani dal loro essere dominatori – sarebbe un esercizio mentale stimolante; ma anche un compito prematuro da assumere nella società dell’assoggettamento di tutti e tutto al capitale.
Conclusione
Nessun programma di azione, soprattutto nessun programma di azione socialista, cioè ispirato al materialismo marxiano, può essere scritto senza lasciare il necessario spazio all’irruzione della storia che è, anzi, l’unico fattore che innesca i processi di cambiamento a livello globale. La teoria ha solo il compito di illuminare l’azione che si inserisce nei processi già in atto ma non può certo sostituirsi ad essi, né produrli magicamente da sé. Chi immagina che l’azione sia un algoritmo, un insieme di indicazioni che ci permettono di avanzare oltre il presente e che, se seguite con costanza e coerenza, ci porteranno all’obiettivo strategico, ha una visione ingegneristica dell’azione sociale. Vorrebbe programmare il futuro perché non riesce a vivere la contraddizione del presente, soprattutto quella che ci costringe a pensare per capire i limiti entro cui ci muoviamo e i punti di sbocco in cui può fluire il movimento della storia che oltrepasserà il presente e ci costringerà ad aggiornare da capo le nostre analisi.
Note:
[1] Il presente articolo nasce come risposta a una serie di quesiti che ci sono stati posti nel tempo (ad esempio dall'associazione radicale antispecista “Parte in Causa”: Quesiti per GAP | Parte in Causa (wordpress.com) ) ma si sviluppa come una più generale riflessione sul problema degli obiettivi, della strategia e della tattica dei movimenti di liberazione.
[2] L'utilità del lavoro teorico sta nella serietà con cui cerca di chiarire alla prassi non solo le possibilità aperte ma anche i vicoli ciechi. Viceversa ciò che spesso l'attivismo persegue è un'apparenza di “utilità” giacché manca totalmente un criterio per verificare l'avanzamento o l’arretramento della lotta. Questo non accade al lavoro teorico il cui fine è senz'altro la prassi ma che può misurare i propri risultati, e dunque la propria “utilità”, proprio a partire da se stesso, cioè dalla chiarezza che riesce ad ottenere nell'analisi della realtà. Chi si confonde su questo e definisce la teoria una “battaglia di idee” scambia l'autonomia della teoria per “autoreferenzialità”.
[3] Il “programma di transizione” teorizzato da Trotzky nel 1938 voleva superare la vecchia distinzione tra “programma minimo” (rivendicazioni per il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori) e “programma massimo” (rovesciamento del modo di produzione capitalistico) in modo che anche gli obiettivi più immediati fossero intesi non come puntello del capitalismo ma come spinta verso la sua crisi ulteriore. Appare evidente come l'attuale stato di smobilitazione del fronte socialista e la potenza della borghesia internazionale renda utopistica ogni ipotesi di “programma minimo”, figuriamoci se è possibile parlare di “transizione”! Occorrerebbe prima realizzare l'unità socialista (che, come diremo, non è la mera sommatoria di identità oppresse) perché abbia senso parlare di un qualsiasi tipo di “programma”.
[4] Sostenere che la “via istituzionale” è “inefficace” perché anche per “risultati minimi” non produce “effetti” e che quindi bisogna, almeno “al momento” cercare “altro” (come si dice qui: Quesiti per GAP | Parte in Causa (wordpress.com)) è sbagliato perché (1) mescola confusamente istanze socialiste e antispeciste, conseguentemente (2) non stabilisce quale sia il criterio di misurazione dell' “efficacia”, (3) non definisce in modo sufficientemente articolato il concetto di “istituzionale” e quindi (4) lascia nel vago ciò che gli si contrappone (il non-istituzionale) investendolo di speranze rivoluzionarie assolutamente prive di qualsiasi base razionale. È un discorso ideologico perché, di fatto, lascia intendere che nell'ambito amorfo (interclassista e disorganizzato) del “sociale” e del “vissuto” ci sia spazio per una qualche prassi di trasformazione della realtà. Ciò che viene chiamato “istituzionale” ha senso per la classe lavoratrice come luogo di formulazione e mediazione delle sue istanze (a livello sindacale, partitico, culturale e mediatico): il fatto che oggi questi luoghi siano oggi occupati da forze egemonizzate dal liberismo è proprio testimonianza della debolezza della classe lavoratrice. Non si tratta affatto di “colonizzare” i partiti attualmente presenti in Parlamento con istanze antispeciste ma di organizzarsi per contribuire a sovvertire quella posizione subalterna del salariato. E la teoria oggi ha il compito prioritario di chiarire questo punto.
[5] La “classe” non è un'identità e non va posta sullo stesso piano delle altre soggettività (razza, genere, specie ecc). Anzi, essendo la classe determinata esclusivamente dal ruolo svolto nel processo produttivo l'identificazione come classe ha il fine non di determinare la propria soggettività, bensì di cancellarla. La classe per il socialismo è un'identità negativa, si pone solo con lo scopo di abolirsi in quanto identità.
[6] Per quanto assurdo possa sembrare non esiste neanche una definizione univoca di “specismo”, quelle maggiormente circolanti identificano tutte lo specismo col pregiudizio, con un fattore soggettivo che misteriosamente assurge a forma sistemica. Né si sente l'urgenza di darne una definizione materiale, oggettiva. Ora, non essendoci un'idea chiara sull'oggetto della critica non può esserci nessuna prassi adeguata all'oggetto, né alcuna indicazione sul soggetto che dovrebbe porre in essere quella prassi.
[7] Il concetto di intersezionalità, teorizzato da Kimberlé Crenshaw, è uno strumento di analisi che descrive la sovrapposizione di “identità” sociali diverse su uno stesso soggetto (per es. una donna che fosse anche nera e lavoratrice); e permette di spiegare il tipo affatto particolare di discriminazione che colpisce quel soggetto. Tipo che deriva dalla somma e dalla moltiplicazione di diverse discriminazioni, ognuna relativa a qualcuna delle identità sociali del soggetto. Nel nostro esempio: maschilismo, razzismo, classismo. Il concetto di intersezionalità non nasceva per spiegare da dove abbiano origine le discriminazioni e dunque, anche se può favorire – ed effettivamente favorisce – la solidarietà fra gli oppressi, non fonda di per sé alcuna “convergenza delle lotte”.