Il XXI Secolo: anarchia imperialista e medioevo nucleare

Scomposizione e ricomposizione dei blocchi continentali e contraddizioni tra imperialismi occidentali con nuovi protagonismi regionali e globali. La guerra in Ucraina è il risultato di tensioni alimentate per decenni dall’espansionismo della Nato, tuttavia la risposta militare di Putin si basa su un calcolo che può rivelarsi errato.  


Il XXI Secolo: anarchia imperialista e medioevo nucleare

Il contesto epocale: dalla dissoluzione dell’Urss e del blocco sovietico alle tensioni tra l’imperialismo euroatlantico e le pulsioni neoimperiali russe

Nella imprevista, seppur annunciata da tempo, guerra in Ucraina, l’attribuzione delle responsabilità sono state distribuite in maniera assolutamente asimmetrica: i governi, i parlamenti, le forze politiche e la stampa occidentali nella quasi totalità hanno considerato l’attacco (assolutamente condannabile) dell’esercito russo all’Ucraina un evento irrazionale e ingiustificato, attribuendo a Putin l’intera colpa di una guerra che colpisce duramente civili, città e infrastrutture militari provocando distruzione, profughi, vittime non militari e inermi. 

È indiscutibile, lo sottolineo con forza, la responsabilità russa nell’aver scatenato questa violenta invasione, qualunque motivazione più o meno intelligibile si possa individuare: la difesa delle popolazioni, la volontà di potenza di costruire un controllo strategico (in Crimea e Donbass, sul Mar Nero), l’appropriazione delle risorse naturali e delle centrali nucleari della regione. Non può essere nascosta o ridimensionata l’attribuzione della responsabilità dell’invasione: non c’è dubbio che ricade su Putin, sull’apparato di potere oligarchico-militare che lo circonda e sulle forze politiche che lo sostengono.

Tuttavia, è altresì necessario uscire dalla “narrazione” unilaterale che focalizza l’attenzione esclusivamente sulle ultime settimane, dimenticando il quadro di insieme in cui è maturata la tragedia di questa guerra feroce all’Ucraina. Nel trentennio seguito alla dissoluzione dell’Urss, i paesi europei e occidentali (dell’Ue, gli Usa, la Nato) hanno pensato all’Europa dell’Est e ai suoi popoli come a un territorio da saccheggiare e a persone da sfruttare: si tratta della politica delle “porte aperte” (sostanzialmente imperialista, nell’accezione leniniana del termine: non solo politica di potenza, ma anche integrazione politico-commerciale di stati e concentrazione economico-finanziaria dei mercati) che ha attratto e inglobato i paesi dell’ex blocco sovietico nel sistema economico-finanziario e commerciale (più che politico-sociale) occidentale, facendone una riserva neocoloniale di manodopera a costi stracciati e con diritti ridotti, terra di conquista per la ricollocazione di capitali eccedenti e delocalizzazioni di aziende (nazionali o multinazionali), spazio di ampliamento (seppur minimo) del mercato interno dell’Ue. A questa operazione si è aggiunta quella ben più destabilizzante dell’espansionismo Nato, alleanza politico-militare il cui azionista di maggioranza è immerso in una profonda crisi economico-commerciale: questa esuberanza ha suscitato preoccupazione crescente nei vertici politico-militari russi e il conseguente avvio di una politica protettiva (col linguaggio della bio-politica si potrebbe definire “immunitaria”), con l’obiettivo di costituire una zona di isolamento a difesa dei confini occidentali della Russia, in particolare tenendo la Bielorussia e l’Ucraina nella propria sfera di influenza, o quantomeno in una condizione di neutralità.

Fin dalla fine del XX secolo, in questi paesi si sono invece prodotte spinte interne alla società – e alla politica – definite “rivoluzioni colorate”, sostenute dall’Occidente e in particolare dagli Usa, per sottrarsi a questa condizione di neutralità richiesta o imposta dalla Russia e per avvicinarsi all’Unione Europea ed entrare nella Nato.   

Dal 2004, con la cosiddetta “rivoluzione arancione” (sponsorizzata dai paesi occidentali e soprattutto dagli Usa), la spinta ucraina verso l’Ue e la Nato è diventata sempre più forte: nel 2007 l’imprenditrice Tymošenko (arricchitasi con una gestione “spregiudicata” delle risorse energetiche, gas in primis, e metallifere) divenne la prima donna a ricoprire il ruolo di primo ministro con un programma che coniugava europeismo e nazionalismo; arrestata nel 2011 per utilizzo improprio di fondi pubblici e scarcerata nel 2014, partecipò alla cosiddetta “rivoluzione ucraina” contro il Presidente filorusso Janukovyč. Negli anni seguenti la situazione è rapidamente precipitata verso la crisi attuale.

Gli eventi che hanno innescato questa crisi sono iniziati alla fine del 2013, con le manifestazioni per l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea del movimento EuroMaidan, che a inizio 2014 fu duramente represso della polizia con decine di morti: a questi eventi seguirono la fuga e la destituzione dell’allora Presidente Janukovyč, accusato di aver ordinato il massacro dei manifestanti. 

È altresì bene ricordare che al movimento EuroMaidan parteciparono gruppi neonazisti come Svoboda (che per alcuni mesi ebbe addirittura ministri nel governo di Yatsenyuk) e brigate paramilitari, tra cui Pravy Sektor, in prima linea negli scontri a Odessa del maggio 2014, in cui arrivarono a dare fuoco alla Casa dei Sindacati, l’edificio in cui si erano rifugiati manifestanti che contestavano EuroMaidan, nel cui incendio morirono oltre quaranta persone. 

La situazione ha avuto una rapida involuzione: le manifestazioni di EuroMaidan con la presenza di gruppi nazisti hanno provocato una preoccupazione crescente nella popolazione russofona delle regioni sudorientali dell’Ucraina, tanto che nel marzo svolse un referendum in Crimea (prevalentemente russofona) per l’indipendenza dall’Ucraina e l’adesione alla Federazione Russa, mentre il nuovo Presidente Porošenko (europeista e nazionalista) sottoscrisse l’associazione dell’Ucraina all’Ue (un passaggio che potrebbe portare verso l’adesione vera e propria). Contemporaneamente, lo stesso Porošenko accentuò la pericolosa china ipernazionalista arrivando a commemorare il collaborazionista filonazista e anti-Urss Stepan Bandera come simbolo del nazionalismo ucraino.

In un tale contesto di tensione, si sono accentuate sempre più profondamente le crepe nella regione orientale del Donbass, a maggioranza russofona, in cui si sono sviluppati scontri durissimi tra milizie dichiaratamente naziste inquadrate nell’esercito ufficiale ucraino, tra cui la più conosciuta è il Battaglione Azov la cui simbologia si richiama direttamente alla 14^ Divisione Galicia Waffen SS che occupò l’Ucraina tra il ’41 e il ’44, e i separatisti filorussi. Dal 2014 si è dunque aperta una guerra civile (se vogliamo definirla così, ma non mi dilungo su questo), completamente rimossa dagli europei, che da otto anni tormenta la popolazione del Donbass che ha autoproclamato l’indipendenza delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, non riconosciute dall’Ucraina. 

L’esercito ucraino e le brigate paramilitari nazionaliste, quando non dichiaratamente naziste, hanno avviato una vera e propria pulizia etnica (definita da Putin un “genocidio” della popolazione russa): il riconoscimento di questa realtà è fondamentale per comprendere quanto sta succedendo e le ragioni dei separatisti russi. I trattati di Minsk del 2014 e 2015, sottoscritti per dare una soluzione alla guerra con un accordo tra Ucraina e Russia, non sono mai stati applicati e rispettati: anche il nuovo Presidente Zelensky ha sostanzialmente sconfessato i trattati, e ripreso la spinta  dell’Ucraina verso l’ingresso nell’Ue e nella Nato (aspirazione legittima la prima, ma destabilizzante di un ordine precario alle porte della Federazione Russa perché complementare alla seconda), probabilmente non rendendosi conto delle drammatiche conseguenze che questa decisione avrebbe avuto per il suo paese. 

Al contempo, per i comunisti è fondamentale essere molto cauti e rifiutare l’allineamento o l’appiattimento alle posizioni nazionaliste, di qualunque parte (ucraina o russa): occorrerebbe piuttosto rilanciare la prospettiva di ricostruzione di un nuovo internazionalismo di classe, unendo lavoratori e lavoratrici ucraini/e e russi/e per opporsi alla guerra tra popoli, agli opposti nazionalismi e al revanscismo che alimenta la logica di potenza neoimperiale perseguita dalla Federazione Russa guidata da Putin, arrivato a minacciare una ritorsione nucleare contro chi contrasti i suoi piani. 

La guerra della propaganda: la divisione tra “buoni” e “cattivi”. La destabilizzazione generata dall’espansionismo imperialista Nato e Ue

La guerra della propaganda è in piena attività: da una parte assistiamo ai proclami trionfalistici di Putin e a surreali comunicati ufficiali che dovrebbero giustificare i bombardamenti sui civili, dall’altra assistiamo a un dispiegamento massiccio di propaganda antirussa (fino alla proscrizione di Dostoevskij e di arte, letteratura, cultura, financo il bando di sportivi/e di provenienza russa) nel dispositivo dell’informazione e della comunicazione mediatica in Occidente che seppellisce sotto le terribili immagini di distruzione – non solo delle infrastrutture militari, ma anche di palazzi, quartieri, centri civili – le rivendicazioni (legittime o meno che siano) putiniane, equiparato a Hitler o tacciato di follia, paranoia, instabilità mentale, con categorie psichiatriche anziché geopolitiche o storiche che impedicono la comprensione di quanto sta accadendo (ingiustificabile sul piano del diritto internazionale, della giustizia nei rapporti tra i popoli, degli equilibri stessi dello scenario mondiale: lo ripeto per l’ennesima volta per chiarezza e per non essere tacciato di essere filoputiniano). 

La precipitazione derivante dall’invasione russa non deve impedirci di individuare le responsabilità della destabilizzazione del quadro europeo: con lo scioglimento del Patto di Varsavia a luglio 1991, dopo la prima Guerra del Golfo contro l’Irak, e la dissoluzione dell’Urss a dicembre dello stesso anno, la funzione “difensiva” della Nato sarebbe dovuta venire meno, ma ha avuto invece un rilancio in grande stile con interventi in Europa, quali i bombardamenti in Bosnia Erzegovina nel 1995 e su Belgrado in Serbia nel 1999, per “pacificare” i conflitti nati dalla dissoluzione della Repubblica Yugoslava nel 1992. 

La condanna dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia non deve impedirci di affermare che la Nato e l’Unione Europea hanno destabilizzato, nei trent’anni a cavallo tra XX e XXI secolo, lo scenario post sovietico nell’Est Europa: affermare che i Trattati dopo la Prima guerra mondiale, e quello di Versailles su tutti, siano stati una vendetta sulla Germania che avrebbe incubato una nuova guerra, come fece Keynes ne Le conseguenze economiche della pace del 1919, non significava certamente giustificare la politica di annessione della Germania nazista di Hitler; così, con una mera analogia e senza fare parallelismi semplicistici, comprendere come si è giunti a questa situazione in Ucraina non significa legittimare la politica di potenza russa.  

Un passato che ritorna?

Le vicende che stanno precipitando questa regione nel caos vengono definite da molti come una sorta di nostalgia, putiniana e del suo establishment, dell’Unione Sovietica, o addirittura dell’Impero zarista, ma rappresenta una distorsione anacronistica degli eventi e della situazione: non solo perché la storia non si ripete mai e le analogie servono solo a orientarci con categorie conosciute, né tantomeno perché siano frutto del delirio allucinato di un folle, ma perché il quadro internazionale, mondiale, è profondamente mutato nel primo ventennio del XXI secolo.

La Russia non ha una ideologia né rappresenta un sistema alternativo (per quanto imperfetto o oppressivo) al capitalismo, come lo era invece l’Urss almeno fino agli anni Sessanta. In Asia è emersa una nuova superpotenza economico-produttiva, tecnologica e militare come la Cina. Gli Usa e buona parte del mondo occidentale versano in una profonda crisi strutturale che dura da quasi cinquant’anni. L’Ue ambisce a diventare un polo imperialistico con un proprio esercito, anche se al momento non ha la forza di uno stato unitario ed è ancora sottomessa agli Usa nella gabbia della Nato. I nazionalismi che scalpitano, a partire da quello ucraino e russo, cercano di emergere e ricollocarsi dalla parte ritenuta più conveniente, nella una prospettiva dello scontro tra colossi di dimensione continentale in un mondo in cui le dinamiche globali vanno ben oltre le aree regionali.

Lo scenario che si va aprendo vedrà una scomposizione e ricomposizione di blocchi continentali che si fronteggeranno in un confronto politico-commerciale (e via via militare) sempre più aspro: da una parte, la concentrazione di capitali e la necessità di costituzione di entità sovranazionali stanno strutturando nuove formazioni di potere in Occidente (una sorta di sovraimperialismo) che amplieranno, amplificheranno e approfondiranno le contraddizioni tra Usa e paesi Ue (al cui interno vi sono altrettante contraddizioni tra Stati nazionali – ancora in piedi per difendere gli interessi delle rispettive borghesie nazionali a fronte delle dinamiche di accumulazione e concentrazione del capitale europeo e transnazionale – e con le nuove “piccole patrie” indipendentiste e separatiste); dall’altra, l’ascesa del polo asiatico a trazione cinese (all’interno del modello liberista del libero mercato) attrae paesi in via di sviluppo dai vari continenti (Brasile, Russia, Sudafrica, Nigeria) entrando in concorrenza col modello occidentale in declino; infine, si affaccia alla contesa il polo petro-islamico, intriso di ideologia religiosa, con un sistema di potere teocratico e modelli sociali arcaici, ma anche questo dilaniato da enormi contraddizioni manifestate da un conflitto tra sunniti, rappresentati principalmente dalle monarchie wahabite della penisola arabica, e sciiti, legati alla repubblica iraniana, in quella che possiamo definire come “guerra dei trent’anni dell’Islam”.

Nello scacchiere del Pacifico, la costituzione dell’accordo commercial-militare Aukus (Australia, United Kingdom, United States) ha una chiara finalità di contenimento dell’espansione commerciale cinese, ma anche una funzione deterrente rispetto alle mire di annessione di Taiwan da parte cinese. In un quadro così complesso, e al contempo decisamente chiaro nelle dinamiche di fondo, pensare che quanto sta accadendo in Ucraina sia una mera riproposizione dell’Urss, o addirittura dell’Impero zarista, significa utilizzare categorie vetuste e anacronistiche, superate e prive di fondamento scientifico sul piano geo-politico. Lo stesso attivismo di Erdogan e della Turchia non può leggersi semplicisticamente come una pulsione restaurativa dell’Impero neo-ottomano, ma come una duplice contraddizione aperta, per la collocazione della Turchia, rispetto a due dei blocchi che ho sommariamente descritto prima: da una parte con l’Occidente (la presenza nella Nato) e dall’altra con il mondo musulmano.

Il XXI secolo (che inizia nel 1990/91) nasce all’insegna della dissoluzione di un mondo bipolare, con una decomposizione delle vecchie potenze: la Gran Bretagna ha mire di grandezza, ma deve appoggiarsi agli Usa, mentre Francia, Germania e Italia possono aspirare al massimo a un neocolonialismo regionale – la prima in Nordafrica, la seconda nei paesi europei più deboli, Polonia e Grecia, l’Italia nel Mediterraneo ma senza grandi capacità di egemonia commerciale e politico-militare.

I comunisti e il movimento contro la guerra e per la pace, contro le basi militari Usa/Nato e la militarizzazione del territorio 

All’analisi dello scenario brevemente descritto occorre dare posizioni coerenti e conseguenti: individuate e attribuite correttamente le responsabilità che hanno provocato il conflitto in atto in Ucraina, i comunisti devono innanzitutto evitare di parteggiare e schierarsi con qualcuno dei nazionalismi in campo. La condanna della politica di potenza regionale russa, e in particolare dell’invasione in atto in Ucraina, deve essere seguita dalla denuncia del ruolo destabilizzante che l’ipernazionalismo ucraino ha avuto con la continua richiesta di entrata nell’Ue e soprattutto nella Nato. Alla solidarietà per le vittime civili e alla richiesta di immediato cessate il fuoco e di ripristino delle trattative occorre sostenere l’uscita dell’Italia dalla Nato, e al contempo ribadire la necessità storica dello scioglimento della Nato stessa.

È fondamentale che i comunisti si schierino contro l’aumento (che ha finalità aggressive e offensive) delle spese militari e i finanziamenti alle missioni militari che il “Governo dei Peggiori” del filoatlantico Draghi ha varato, con l’appoggio parlamentare quasi unanime di Pd-Lega-Idv-Art.1-Fi-Fdi (con l’eccezione di una pattuglia di 13 senatori e 25 deputati); occorre mobilitarsi contro l’invio di armi, mezzi e soldati da parte dell’Italia all’Ucraina, battersi contro l’utilizzo delle basi militari Usa, Nato, italiane utilizzate per l’invio di materiale bellico (due esempi per tutti: la base statunitense di Camp Darby, il più grande magazzino di armi statunitense in Europa, e l’Aeroporto militare “Dell’Oro” di Pisa, da cui partiranno mezzi e uomini per il teatro di guerra nell’Est Europa).

Infine coagulare un movimenti contro la guerra e per la pace attorno a due principali parole d’ordine:

  • CONTRO l’invasione neoimperiale russa e l’espansionismo imperialista euroatlantico Nato/Ue
  • PER un fronte antimperialista che contrasti la precipitazione verso una guerra globale e nucleare di cui pagheranno le maggiori e tragiche conseguenze le popolazioni civili e i proletari di tutti i paesi.




11/03/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Giovanni Bruno

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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