Il 5 maggio 2018, in occasione del 2° Congresso Mondiale sul Marxismo tenutosi a Pechino, a ricordare il bicentenario della nascita di Karl Marx c'è stato anche Massimo D'Alema, che ha tenuto un discorso [1] inaspettato per gran parte della “sinistra italiana”, trovando una certa eco perfino negli ambienti comunisti, pur essendo passato maggiormente in sordina nel dibattito pubblico e politico complessivo del nostro Paese, giustamente impegnato su altre questioni più urgenti. Dato però il peso cultural-politico che continua sorprendentemente ad avere D'Alema in Italia, è necessario procedere ad una disamina accorta di tale discorso, al fine di offrire ai comunisti un esempio di come operi la socialdemocrazia per ingannare le classi lavoratrici con la propria fraseologia apparentemente rivoluzionaria.
È noto come Massimo D'Alema, dopo un inizio di carriera come dirigente della FGCI e del PCI, sia diventato il personaggio più in vista e discusso degli ambienti socialdemocratici della Seconda Repubblica e del Partito Socialista Europeo, diventando nel 1998 il primo Presidente del Consiglio “post-comunista”, con una svolta che ha segnato per molti la fine del famigerato “fattore K” con cui i comunisti sono stati tenuti ai margini del potere per mezzo secolo in Italia. È altrettanto noto come in quel breve periodo (1998-2000) in cui rimase in carica, D'Alema abbia messo in atto politiche completamente antitetiche agli insegnamenti storici di Marx e perfino della socialdemocrazia “classica”, avviando ad esempio privatizzazioni (Telecom, Autostrade), partecipando a guerre promosse dagli USA (Jugoslavia) e in generale attuando linee politico-economiche subalterne al capitalismo neoliberista e imperialista.
Di fatto il Governo D'Alema, in piena continuità con i Governi precedenti e successivi, ha attaccato duramente con una prassi tipica della “Rivoluzione Passiva” le conquiste del Welfare State ottenute, nei decenni della Prima Repubblica, al prezzo di durissime lotte; lotte, è bene ricordarlo, in cui i comunisti sono stati in prima fila. Il fatto quindi che oggi abbia sentito l'esigenza di “riscoprire” Marx è stato visto da molti come un atto di profonda ipocrisia o di opportunismo politico, in mancanza di una profonda e sincera autocritica sui grossolani errori fatti.
Nel discorso cinese in realtà D'Alema pone accenti, seppur minimi, di autocritica verso le scelte fatte in quegli anni, scaturite nella trasformazione finale della “Cosa Rossa” in un soggetto politico progressivamente degenerato e scivolato nella rappresentanza degli interessi esclusivi della grande finanza europea e del grande padronato italiano. Tale è oggi il ruolo storico e il blocco sociale del Partito Democratico italiano, con o senza Renzi. Allo stesso tempo però il discorso di D'Alema si mostra ancora molto, troppo timido analiticamente, mostrando come la “revisione” degli errori sia rimasta appena abbozzata, parziale e in definitiva totalmente insufficiente e inadeguata nella fase politica attuale. Scopriamo il perché, seguendo riga per riga l'impostazione del discorso.
Innanzitutto D'Alema mostra di non aver colto la natura cosmopolita della globalizzazione e del capitalismo attuale, stigmatizzando il fatto che non si sia riusciti a superare “i particolarismi nazionali” e a omologare le “differenti culture” globali, come prometteva l'ideologia liberista. Riconosce che la “sinistra ha subito l’influenza di questa cultura e che essa si è manifestata in modo particolare nella elaborazione della cosiddetta Terza via”. Non spiega però come e perché ciò sia avvenuto, né fino a quale livello ci si sia spinti. Già Lenin ricordava come non ci potessero essere “terze vie”, ma che in definitiva ci fossero solo un'ideologia borghese o un'ideologia socialista tra cui scegliere. Di Lenin però non c'è traccia nell'elaborazione di D'Alema, il quale parla genericamente di una “globalizzazione senza regole”, iniziando così a confondere le acque, non identificando il vero problema nell'essenza del capitalismo, quanto nella sua diffusione a livello globale.
D'Alema dice: “il timore della progressiva cancellazione delle diverse identità nazionali, etniche e religiose ha scatenato drammatici conflitti e ridato vigore a nazionalismi che sembravano appartenere ad un passato ormai remoto”. Nessun accenno in questa analisi al profondo disagio sociale e alla responsabilità dell'imperialismo, inteso come fase suprema del capitalismo, nella responsabilità dell'accentuazione di un conflitto su scala planetaria. Gli USA non stanno reagendo meramente “alla competizione globale”, allusione vaga al declino economico dell'Impero statunitense, ma stanno mettendo in discussione la globalizzazione proprio a seguito dell'ascesa mondiale della Repubblica Popolare Cinese, ossia quel Paese che grazie alla guida del Partito Comunista Cinese dal 2015 è diventato la prima potenza mondiale in termini di PIL.
Gli USA si sono perfettamente resi conto negli anni dell'accresciuta “capacità competitiva delle economie emergenti”: questa velata allusione ai BRICS infatti non tiene conto del fatto che gli USA hanno scatenato negli ultimi decenni e in maniera bipartisan (non solo i “repubblicani” Bush e Trump, ma anche i “democratici” Obama e Clinton) un'offensiva a tutto campo soprattutto contro il circuito dell'ALBA e dei suoi partner (in America Latina), contro Russia e Cina (in Europa Orientale, Asia e Africa), non avendo invece necessità particolari di attaccare Sudafrica e India dove i Governi hanno negli ultimi anni accentuato la tendenza tattica e strategica verso politiche liberiste ben accolte dalle multinazionali.
Identificare il problema nel “capitalismo senza regole e dominato esclusivamente dalla logica del profitto e dai meccanismi di mercato” significa quindi lavorare non per l'abbattimento del capitalismo e la riattualizzazione del socialismo, bensì per l'ideale utopistico di una sorta di capitalismo etico duramente avversato dallo stesso Marx fin dagli anni '40 dell'800. E i dati socio-economici mondiali riportati da D'Alema [2] non fanno altro che confermare il carattere imperialista del capitalismo e l'attualità dell'elaborazione fatta da Lenin oltre un secolo fa ne “L'Imperialismo”, in cui già veniva sottolineato il carattere egemonico, per non dire lo strapotere, della finanza.
Non si capisce, o si fa finta di non sapere, poi, che le stesse “politiche keynesiane e di impronta socialdemocratica” che hanno permesso di moderare gli eccessi del Capitale sono state possibili solo grazie al ruolo di stimolo e di sfida svolto dal blocco socialista guidato dall'Unione Sovietica, oltre che dalla forza raggiunta dal movimento operaio e dalle sue organizzazioni comuniste e socialdemocratiche (socialdemocratiche per davvero, non social-liberiste come oggi) in Occidente.
Si dimentica che “le economie occidentali hanno vissuto una crescita sostenuta, sorretta” non solo “da investimenti e innovazione” ma anche dalla prosecuzione di uno sfruttamento intensivo del “Terzo Mondo” attraverso la prosecuzione di politiche imperialiste (chiamate dagli studiosi borghesi “neocolonialiste”) svolte in primo luogo dai sicari delle multinazionali, che hanno potuto continuare a spartirsi gran parte della torta mondiale con l'appoggio politico e militare occidentale e delle principali strutture economiche internazionali (FMI, Banca Mondiale, GATT, WTO, ecc.).
È inaccettabile sentir dire che “nell’epoca della globalizzazione e della deregulation neoliberista questo sistema entra in crisi”, senza uno straccio di analisi storico-economica del perché sia avvenuta tale svolta, dovuta primariamente alla marxiana caduta tendenziale del saggio di profitto e dalla volontà di passare all'offensiva contro le conquiste del movimento operaio che ponevano in maniera sempre più forte la messa in discussione del predominio del grande Capitale Privato (vd. a tal riguardo l'analisi di Piketty svolta ne “Il Capitale del XXI secolo”). Non siamo insomma di fronte ad un evento naturale... In questo quadro, la “grande crisi del 2007-2008” non è altro che un esito inevitabile e intrinseco alle contraddizioni del sistema capitalistico.
L'avvento del “capitalismo finanziario contemporaneo”, che D'Alema si guarda bene, come la maggioranza delle sinistre odierne, dal chiamare col suo vero nome (imperialismo) è stato insomma solo un modo per cercare di continuare con modalità diverse l'estrazione di plusvalore allargando il campo: dalla lotta di classe meramente nazionale al palese e sempre più ampio sfruttamento intercontinentale, moderato nei decenni del Piano Marshall e della decolonizzazione per ragioni su cui non si è ancora sufficientemente ragionato. Si è visto infatti nel Trentennio Glorioso (1945-1975) la norma invece dell'eccezione dovuta ad un dominio violento, ma furbescamente mascherato e capace di spartire le briciole della torta prodotta con ampie fasce delle classi lavoratrici occidentali: quell'aristocrazia operaia caratterizzata da una localizzazione territoriale maggioritaria in Occidente e dalla diffusione del lavoro impiegatizio e più generalmente “intellettuale”.
“È noto che il tema della finanza, del credito e della circolazione del denaro non è centrale nell’opera di Marx.” Occorrerebbe capire cosa intenda qui per “centrale”, in considerazione delle pagine marxiane dedicate al passaggio tra ciclo M-D-M' a D-M-D'. Può comunque D'Alema non conoscere l'elaborazione teorica di Lenin e del movimento comunista internazionale e italiano successivi, che hanno dedicato un'ampia analisi al ruolo della finanza? Queste sue omissioni o sono frutto di una profonda ignoranza, o di una sistematica omissione che conferma come il discorso sia tremendamente opportunista.
Anche nei passaggi più progressivi del discorso dalemiano, come quello in cui ricorda le elaborazioni marxiane sulla “società catturata dal ‘feticismo del denaro’; presa cioè dalla vertigine di volere accumulare soldi senza l’intermediazione della produzione materiale e del lavoro umano”, si può obiettare come Marx abbia fornito ben più che “un'intuizione […] per interpretare la realtà della globalizzazione, della libera circolazione dei capitali e della deregulation finanziaria”. Qui D'Alema dovrebbe ricordare le elaborazioni svolte da Marx fin dai “Manoscritti Economico-Filosofici” (1844), in cui emerge pienamente il concetto di alienazione, ma ad essere furbi si sarebbe potuto citare uno degli aspetti più progressivi delle elaborazioni svolte nell'ambito della Scuola di Francoforte sul tema in pieno '900.
Nell'aggiungere poi che “la finanziarizzazione danneggia non solo i lavoratori ma più in generale l’attività produttiva” D'Alema conferma l'ottica nettamente eurocentrica che caratterizza da sempre (cioè almeno fin dai tempi delle degenerazioni di inizio '900 della Seconda Internazionale) la visione socialdemocratica, risultando incapace da un lato di cogliere il processo di sviluppo delle forze produttive svoltosi su scala globale (nei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo”), dall'altro il nesso inevitabile e inestricabile tra grande Capitale finanziario e industriale nell'epoca dell'imperialismo. Dire che “la finanza diventa così […] una ‘padrona dell’economia’ che impone uno sviluppo precario e distorto” è un'altra maniera per evitare di parlare con linguaggio chiaro: la finanza non è un soggetto attivo, è uno strumento, il cui controllo preponderante è in mano alla grande borghesia, ossia ad un'élite ristretta di miliardari, dotati di nomi e cognomi, che D'Alema si guarda bene dal fare, essendosi peraltro anche da Presidente del Consiglio ben guardato dal toccarne i privilegi (vd il caso della “Bicamerale” con Berlusconi e la mancata legge sul conflitto di interessi come massimo esempio). L'orizzonte politico tracciato da D'Alema diventa però a questo punto chiaro ed esplicito: “la necessità di una guida politica che sappia regolare e garantire una crescita ordinata”. L'ottica insomma è quella del mantenimento del Sistema, secondo una proposta pienamente riformista di stampo socialdemocratico classico, progettualità però ormai incompatibile con l'assetto attuale delle sovrastrutture imperialiste (in primo luogo l'UE) a cui l'Italia è legata.
Citando Gramsci, D'Alema ricorda una sua espressione (“il carattere cosmopolita dell’economia”), subito prontamente corretta (“oggi diremmo globale”), mostrando quanto faccia paura ricordare la consapevolezza dei veri marxisti sulla profonda differenza tra l'internazionalismo e il cosmopolitismo. La socialdemocrazia si è totalmente appiattita su quest'ultimo aspetto, accettandolo organicamente, come ha mostrato Domenico Moro nel suo recente “La gabbia dell'euro” (2018). Ecco ora uno dei passaggi più subdoli e violenti del discorso: “Gramsci […] muove da una visione assai diversa da quella prevalente in quel tempo nella Internazionale comunista. La tesi ortodossa pretendeva che la crisi fosse l’annuncio del crollo del capitalismo. […] La riflessione di Gramsci ci porta quindi oltre ogni visione ideologica e deterministica del marxismo. […] Egli sottolinea il ruolo dello Stato e in particolare guarda ambiziosamente alla necessità di dare all’azione politica una dimensione e una capacità di indirizzo che vada oltre i confini dello stato nazionale.” Come si possono commentare queste righe se non constatando il profondo tradimento ideologico e opportunista di D'Alema, che continua ad infangare, falsificandola, la teoria del marxismo-leninismo e le elaborazioni del COMINTERN (ossia non solo Stalin, ma anche di Lenin e degli altri bolscevichi) e dello stesso Engels, che da decenni si accusa falsamente di aver dogmatizzato il pensiero di Marx?
È stata la stessa Rivoluzione d'Ottobre a mostrare come la visione marxista e leninista fosse tutto meno che deterministica, laddove erano stati i socialdemocratici a seguire burocraticamente e schematicamente le indicazioni accennate da Marx. Rifiutando di sostenere la presa del potere dei bolscevichi in Russia, i socialdemocratici vennero sbeffeggiati per questo dallo stesso Gramsci nel celebre e troppo spesso travisato (a causa del titolo presumo) articolo “La Rivoluzione contro il Capitale”. Gramsci stesso poi non parla di un generico “Stato”, ma parla di uno “Stato proletario”, tanto da sostenere sempre, in qualsiasi scritto, anche in quelli dal carcere, l'URSS. Non c'è nessuna possibilità di negare questo punto, e non sono bastati i tentativi dei “professori” opportunisti e revisionisti al servizio del PCI berlingueriano per affermare nei sinceri comunisti la consapevolezza che mai vi fu distacco tra Gramsci e il materialismo dialettico, l'URSS e il PCUS guidato per 30 anni da Stalin, lui pure accusato e calunniato ingiustamente di determinismo e ideologismo (tra le tante accuse false che gli sono state fatte) [3]. Il tentativo di slegare Gramsci dal COMINTERN è frutto di un'azione mistificatrice con cui si è cercato di usare strumentalmente questo grande leninista nel preconizzatore delle svolte revisioniste e anti-comuniste di cui D'Alema è stato uno dei tanti colpevoli, pur non essendo certamente il più importante.
D'altronde D'Alema ribadisce che vuole una “politica progressista” che si limiti a “correggere le storture prodotte dal capitalismo finanziario globale e dalla logica di un mercato senza regole”. Correggere, non certo abbattere. L'ottica è pienamente riformista, alla ricerca di una svolta “progressista” (non certo rivoluzionaria) che rimanga nell'alveo del cosmopolitismo (e quindi sotto la tirannia dell'Unione Europea). Ne segue la stigmatizzazione della “reazione nazionalista e regressiva”, accomunando così qualsiasi ottica di recupero della sovranità (non solo quella nazionalistica e reazionaria di destra, ma anche quella patriottica e progressista tipica della tradizione marxista-leninista e del PCI togliattiano). D'Alema denuncia “l’America di Donald Trump” che apre “una nuova era pericolosa carica di tensioni e di conflitti che potrebbe portarci ad una nuova Guerra fredda”, facendo finta di non vedere che tale politica è parte costitutiva e organica delle linee strategiche degli USA da quando sono diventati la principale superpotenza mondiale (1945).
Il suo ideale è quello di lavorare ad una “globalizzazione regolata e non selvaggia in grado di promuovere uno sviluppo “armonioso” – per usare un’espressione cara alla cultura cinese – , nel senso dell’armonia tra le persone e nel rapporto tra uomo e natura”. Tralasciando gli ultimi termini che mostrano l'adesione ad un'analitica assolutamente non materialista, bensì idealista, astratta e più consona agli ambienti hippy e new age degli anni '70, si capisce qui perché D'Alema abbia potuto tenere questo discorso in Cina: la regolamentazione della globalizzazione è un progetto in pieno corso a cui si sta tendendo grazie all'evoluzione di nuove relazioni internazionali; ciò non accade però grazie alla socialdemocrazia e ai suoi opportunismi, bensì grazie all'azione ragionata e di lungo termine del Partito Comunista Cinese, che per arrivare a tale traguardo ha usato come linee guida non solo Marx, ma anche le elaborazioni di Lenin, Stalin, Gramsci e Mao, ossia evitando di buttare la migliore tradizione storica e teorica dei comunisti.
Partendo da uno studio dialettico e non dogmatico ha trovato una ricetta con cui ha tolto nell'arco di 30 anni 700 milioni di persone dalla povertà, secondo la tattica (non strategia, per ora) di una NEP molto più ampia di quella tracciata da Lenin negli anni '20. La lezione cinese costituisce oggi un punto di riferimento imprescindibile per i Paesi del “Terzo Mondo”, ma non certo per una realtà avanzata industrialmente e tecnologicamente come l'Italia, nella quale, essendo già sufficientemente sviluppate le forze produttive, sarebbe possibile avviare direttamente la costruzione di un'economia socialista.
D'Alema però crede che per conquistare “l'armonia” basti “una riduzione delle diseguaglianze”, mancando di identificare come la prima causa di disordine politico, socio-economico e in ultima istanza perfino morale sia l'imperialismo, la cui distruzione è premessa indispensabile. Si arriva infine alla falsificazione e alla calunnia quando si accusa Marx di rifiutare non solo la “tradizione liberale”, ma anche quella “democratica”. Viene stigmatizzata “la concezione utopistica del superamento dello Stato come condizione di una effettiva uguaglianza tra gli uomini”, travisando in tal modo l'ottica marxiana che identificava l'affermazione della libertà e della democrazia solo nel comunismo, ossia nell'abolizione della divisione classista della società. Un'idea utopistica forse, ma non antidemocratica.
Si potrebbe ricordare come i concetti di liberalismo e di democrazia siano stati a lungo slegati concretamente e teoreticamente dagli stessi liberali nel corso della Storia, ma in ultima istanza è evidente che per Marx un avanzamento indispensabile verso gli orizzonti della democrazia e della libertà passi per la tanto disprezzata (dai socialdemocratici) dittatura del proletariato, di cui l'URSS ha costituito un'esemplificazione storica concreta presente ancora in diverse realtà di rilievo del pianeta. L'invettiva contro il marxismo-leninismo si fa ancora più esplicita: “questa visione marxiana è stata in parte travisata e cristallizzata nella ortodossia marxista-leninista che ha costituito l’ideologia del socialismo reale nell’Unione Sovietica e nell’Europa orientale. Con gli esiti fallimentari che conosciamo”. Credo che i materiali raccolti nell'opera “In Difesa del Socialismo Reale” mostrino esattamente il contrario, anche se non c'è da stupirsi del punto di vista anticomunista espresso da D'Alema, che si appiattisce qui comodamente sul senso comune dominato dalla visione borghese.
Il resto non è altro che il ribadire la concezione revisionista tipica della II Internazionale socialdemocratica: “tutta l’esperienza teorica e pratica del socialismo e della sinistra nell’Occidente europeo ha rifiutato la contrapposizione tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale cercando invece di andare oltre la tradizione liberale attraverso una integrazione fra diritti formali e promozione attiva della integrazione sociale e della riduzione delle diseguaglianze. È evidente tuttavia che pure muovendo in una direzione diversa – e cioè cercando di combinare socialismo e democrazia – la sinistra europea ha comunque preso le mosse dalla critica marxiana dei limiti della uguaglianza formale”.
L'intero discorso di D'Alema sia pieno zeppo di fuffa riformista che con il marxismo non ha nulla da spartire. Il tema delle diseguaglianze per lui va “oltre l’iniqua distribuzione della ricchezza”, in effetti denunciato da qualsiasi liberale realmente progressista (ad esempio un John Stuart Mills) o da un keynesiano qualsiasi; ci si aspetterebbe che parli al limite del tema dei rapporti di produzione e della redistribuzione della proprietà, e invece ci si ferma alla “distribuzione delle conoscenze e del potere”, intendendo il potere non sul piano economico, ma proprio tecnico-politico, scomodando l'economista Joseph Stiglitz per evitare possibili interpretazioni erronee: “Bisogna tornare – egli scrive – ad una democrazia fondata sul principio ‘una persona un voto’ e non su quello: un dollaro un voto. Bisogna impedire che il potere economico e finanziario possa manipolare e controllare l’informazione e distorcere la democrazia». Come si possa attuare questo in regime imperialista non viene detto, perché è impossibile far funzionare onestamente una democrazia liberale in regime capitalistico. Qui però bisognerebbe scomodare quello stesso Marx “omesso”, quello cioè che ci ricordava come la democrazia liberale non non fosse altro che un regime oppressivo diverso: la dittatura della borghesia. Lenin aggiungerà che la democrazia liberale diventa il miglior involucro per celare l'oppressione della classe borghese. La sostanza del discorso resta la stessa.
La moderazione continua e asfissiante di D'Alema emerge ancora quando esprime la necessità di “una regolazione internazionale capace di limitare la forza incontrollata dei grandi poteri economici transnazionali”. Si noti il termine “limitare”. Perché non “distruggere”, o magari “statalizzare”, “nazionalizzare” o “socializzare” nel caso si consideri una globalizzazione socialista piuttosto dell'ottica del socialismo in un solo Paese? Viene poi ripetuto un classico luogo comune che si sente ripetere da diversi anni: “dovremmo dire che c’è bisogno di un nuovo internazionalismo, un tratto distintivo del movimento operaio fin dalle sue origini che, tuttavia, si è paradossalmente spento proprio quando il capitalismo si è fatto internazionale trovandoci impreparati e impotenti”. A cosa servirebbe questa nuova internazionale? A “ristabilire un primato della politica sull’economia rovesciando il dogma neoliberista” e a “imbrigliare le forze del mercato” per evitare che “la crescita industriale ed economica non pregiudichi definitivamente l’ambiente naturale e con ciò la sopravvivenza stessa della specie umana”.
Quali sono in questo caso i molteplici errori? Innanzitutto occorre ricordare che il capitalismo ha sempre avuto tendenze cosmopolite e internazionali: la globalizzazione non nasce ma si accentua negli anni '70 del '900, essendo però già descritta nei suoi movimenti essenziali perfino nel Manifesto del Partito Comunista. Occorre ricordare che la rottura definitiva del movimento comunista internazionale data 1956, con lo scioglimento sciagurato del COMINFORM decretato dal revisionista Chruscev e avallato da diversi leader comunisti occidentali, tra cui lo stesso Togliatti, ben lieto di poter avviare finalmente senza intralci la propria “via italiana al socialismo”. Ben presto in Italia si passerà all'ottica non più anticapitalista (ancora ben presente in Togliatti, ma già messa in discussione all'epoca della Segreteria Berlinguer, se non nei discorsi, nella sostanza) ma antiliberista. Cosa vuol dire poi parlare di “politica” in un sistema borghese e multipartitico se non avallare l'idea che ci sia una “classe politica” o “ceto politico” unanime e indistinguibile per ideologia e rappresenza sociale? Ecco che la “sinistra” offre su un piatto d'argento ai moralizzatori (crociani o grillini) l'idea che se ci non avviene il problema sia la corruzione e la disonestà...
Infine la questione ecologica e ambientalista: uno dei nodi fondamentali del XXI secolo, che può essere risolta solo a seguito di una pianificazione e razionalizzazione delle attività produttive, al fine di ridurre gli enormi sprechi insiti nel sistema produttivo capitalistico. Questo per sua natura è infatti sregolato e “anarchico”, incapace cioè di auto-regolarsi in vista delle esigenze sociali e della tutela del Pianeta. Il fatto che D'Alema non indichi chi debba essere il protagonista dell'avvento di una “economia circolare capace di risparmiare risorse e materie prime” ma che identifichi la soluzione unicamente in una generica spinta verso cui devono tendere “l’innovazione e la ricerca scientifica” è un'altra affermazione utopistica: chi può svolgere infatti questo compiti se non gli enti pubblici, dato che gli enti privati hanno come obiettivo prediletto il profitto aziendale? L'astrattezza del discorso dalemiano è tale che l'appropriazione del “sapere sociale che è frutto della ricerca scientifica e dell’ingegno umano” diventa opera genericamente del “capitalismo” invece che della “borghesia”.
Arriviamo alla fine del discorso, in cui si ribadiscono le premesse più volte ribadite, ossia che il miglioramento delle condizioni di vita di miliardi di essere umani “dipende dalla forza di un’azione politica che muova da un pensiero critico sul capitalismo e le sue contraddizioni. Un simile pensiero critico non può prescindere da Carlo Marx. Certo la sua opera non può essere considerata come un corpo dottrinario organico, come una sorta di manuale in cui cercare tutte le risposte per il presente e per il futuro”. Quale cristiano progressista non sarebbe d'accordo su parole come queste, nelle quali si rigettano gli aspetti apertamente comunisti di Marx al fine di mantenerne solo l'ottica di “critico” del capitalismo?
Per D'Alema, il Marx da salvare è quello prettamente teorico, non certo quello pratico e politico. Infatti “Marx deve dunque essere liberato da ogni visione scolastica e dogmatica e riletto, spesso, senza la mediazione di molti “marxisti” che non gli hanno fatto onore”. A chi allude qui D'Alema? A Engels, Lenin, Gramsci, Stalin e all'intero COMINTERN, come più volte emerso implicitamente nel corso del discorso. D'Alema sa bene che Marx è indispensabile per “alimentare una visione critica della società” ma qui si ferma l'utilizzo strumentale e revisionista fatto da un socialdemocratico che, riconoscendo al filosofo tedesco soprattutto “il rigore di un metodo e la forza di una passione” si scava la fossa da solo. Il metodo di Marx è infatti notoriamente scientifico, non certo lirico e moralistico.
Marx ha distrutto ogni impostazione idealistica e utopistica del socialismo. La passione di Marx deriva dalla lotta e dalla volontà caparbia di riaffermare la Verità e di porre fine una volta per tutte agli infantilismi dei vari opportunisti, dei profeti laici e dei venditori di fumo, di cui Massimo D'Alema non è altro che uno dei tanti rappresentanti della nostra generazione. La sua assoluta refrattarietà ad accogliere il leninismo, e quindi l'impostazione antimperialista, lo avvicinano ideologicamente ad un Fratoianni o ad un Ferrero, per stare sul desolante contesto italiano, oppure ad uno Tsipras sul piano europeo. La sua incapacità, la sua ipocrisia e la sua moderazione, unite al rifiuto di identificare il nemico nelle strutture e sovrastrutture imperialiste (FMI, Banca Mondiale, UE, NATO, BCE, ecc.) lo rendono inservibile per costruire un qualsiasi credibile programma politico progressista realmente attuabile, rendendo vane e superflue tutte le belle frasi scarlatte pronunciate in Cina.
La lotta politica dei comunisti e dei lavoratori non passa quindi dalla conciliazione con personaggi come D'Alema, bensì dalla più accanita battaglia e intransigenza ideologica nei loro confronti per la riaffermazione di un punto di vista coerentemente marxista, leninista, comunista e rivoluzionario.
Se D'Alema è un rappresentante della “sinistra”, allora non sappiamo che farcene dell'unità della sinistra. Ad essa i comunisti preferiscono l'unità dei marxisti-leninisti. La lotta politica che va fatta sarà quindi non solo contro i borghesi e le loro variegate ideologie e rappresentanze politiche ed economico-sociali, ma anche contro quella che è di fatto a tutti gli effetti “la sinistra dell'imperialismo”, che va distrutta senza pietà.
Note:
[1] Il discorso integrale è disponibile qui.
[2] “In particolare a crescere sono i profitti del settore finanziario: mentre nel 1960 questi rappresentavano il 14% dei profitti delle imprese americane, nel 2008 raggiungono il 39%. Gran parte della ricchezza creata in questi anni viene accaparrata da un ristretto gruppo di super ricchi mentre la sostanziale stagnazione dei salari determina un aumento vertiginoso delle diseguaglianze sociali». A livello globale una quota della popolazione leggermente inferiore all’1% dei cittadini del mondo detiene il 44% della ricchezza mondiale. Dall’altra parte vi è un 70% della popolazione che possiede il 3% della ricchezza”.
[3] Su questo punto si vedano i capitoli 5-6, 8-10 dell'opera “In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo”, scaricabile gratuitamente dal sito http://intellettualecollettivo.it/.