di Simone Pavesi
A Sesto scontri tra forze dell’ordine e comunità cinese. Sono numerosi gli episodi di accanimento delle nostre istituzioni sulle Chinatown italiane e l’appello alla legalità e sicurezza appare una giustificazione fuorviante sotto la quale si nasconde in realtà il rifiuto ostinato del dialogo.
Dopo quasi dieci anni dai tafferugli del quartiere Canonica-Sarpi di Milano, scoppia una nuova rivolta della comunità cinese all’Osmannoro, la zona commerciale e artigianale di Sesto Fiorentino.
Per quanto siano stati davvero pochissimi i fatti delle Chinatown italiane ad essere saliti agli onori della cronaca, sugli scontri degli ultimi giorni la stampa non ha istituito parallelismi significativi con l’episodio milanese, che allora diede voce ad una comunità ritenuta fin troppo silenziosa.
I giornali hanno piuttosto preferito risalire a tre anni fa, all’incendio di una fabbrica a Prato dove persero la vita sette cinesi, per giustificare i frequenti controlli a tappeto della polizia in nome della sicurezza e della legalità.
Un confronto tra le due rivolte permetterebbe di evitare giudizi avventati e soluzioni improvvisate, anche perché, a un decennio di distanza, si sono ripresentate le stesse problematicità che le amministrazioni comunali non hanno saputo affrontare con i commercianti cinesi. È una considerazione che fa riflettere, se si pensa che persino CasaPound nel 2011 ha avvertito la necessità di dialogare con i vicini cinesi dell’Esquilino, incontrandoli nella sede centrale di via Napoleone III a Roma.
Occorre perciò inquadrare meglio le dinamiche delle rivolte cinesi in Italia, abbandonando slogan che rischiano di risultare fuorvianti (chi parla a sproposito di diritti e doveri o di sicurezza) o del tutto gratuiti (spunta ancora una volta la “mafia gialla” dietro agli scontri) a favore di una convivenza possibile.
Il caso di via Paolo Sarpi e quello dell’Osmaronno sono assimilabili per la condivisione di una serie di fattori che hanno accompagnato le rivolte, a partire dai pretesti. A far insorgere la collettività cinese nel 2007 e nel 2016 sarebbero bastati una multa e un controllo più del dovuto, ma forse il vero casus belli è da ricercare altrove.
A Milano due vigilesse sequestrano la vettura di una donna cinese: manca il timbro di revisione e non è in regola per il trasporto merci. La signora è disposta a pagare la contravvenzione, ma senza macchina non sa come portare la bambina all’asilo. Le viene risposto di prendere un taxi e la discussione si accende, finché le autorità decidono di portare la donna e la bambina in commissariato. La piccola si mette a piangere, la folla si fa avanti e gli agenti estraggono i manganelli. La donna e la bambina, alla fine, non vanno né all’asilo né al commissariato, ma all’ospedale Fatebenefratelli.
Anche a Sesto Fiorentino c’è sempre un minore di mezzo. Nonostante il caldo, a un nonno, con in braccio una bambina di dieci mesi, viene negato il permesso di uscire da un capannone. I carabinieri trattengono bruscamente l’anziano che, atterrato con forza, perde la presa e reagisce mordendo la mano di chi ha messo a rischio l’incolumità della nipote. Gli agenti lo picchiano e sequestrano gli smartphone usati per riprendere la scena. Arrivano rinforzi da entrambe le parti e seguono gli scontri: lanci di bottiglie e cariche della polizia.
Le rivolte cinesi nascono da situazioni insostenibili, che dalla Moratti, allora sindaco di Milano, al governatore della regione Toscana Enrico Rossi sono state spiegate come reazioni ingiustificate di gente che non vuole rispettare le regole per continuare a vivere nell’illegalità. Le cause scatenanti sono da rintracciare invece in un atteggiamento discriminatorio delle istituzioni, volto esclusivamente a complicare l’attività lavorativa della comunità cinese, attraverso misure repressive a tolleranza zero. In realtà i cinesi chiedono un maggiore intervento delle forze dell’ordine, perché sotto l’indifferenza delle giunte comunali subiscono quotidianamente furti, sia per strada che nei capannoni. Ma sebbene a Prato siano state organizzate manifestazioni al grido, purtroppo inascoltato, di “più sicurezza”, la polizia interviene solo per fare multe e blitz.
Dopo che a Milano era naufragato il tentativo di delocalizzare gli ingrossi – si erano proposte zone come Gratosoglio, San Donato Milanese e Lacchiarella – le istituzioni hanno cercato di impedire il più possibile le attività di carico e scarico attraverso ztl, isole pedonali e forti restrizioni orarie per la circolazione dei carrelli spinti a mano, che hanno provocato una pioggia di contravvenzioni, anche a coloro che portavano a braccia la merce.
A Sesto Fiorentino i controlli abituali, almeno ogni dieci giorni, sono stati condotti con ampio spiegamento di mezzi, tramite accerchiamenti per non far uscire gli operai o con l’appoggio di elicotteri. Qual è stato il risultato dell’ennesimo blitz? Su ventuno capannoni, (nuovi, e quindi dotati delle norme igieniche e di sicurezza previste) solo uno viene multato, per motivi non gravi, come si legge dal rapporto della polizia, perché una macchina da cucire non era in regola.
Le reazioni e le proposte di intervento della politica, le stesse sia a Milano che a Sesto Fiorentino, riflettono la mancanza di volontà nel mettere in discussione letture interpretative troppo grossolane. Rossi, sui fatti dell’Osmaronno, si stupisce che un controllo dell’Asl provochi rivolte e scontri con le forze dell’ordine e aggiunge che il progetto della regione Toscana per la sicurezza sul lavoro andrà avanti. Poi, come il sindaco di Firenze Nardella e il capogruppo di “Prato libera e sicura” Aldo Milone, parla di rivolta organizzata da un’associazione criminale. Su queste affermazioni il Foglio fa giustamente notare che “se un’istituzione conosce dei fatti dovrebbe denunciarli, altrimenti con ipotesi campate in aria si può al massimo alimentare una specie di razzismo burocratico, ma non si risolvono i problemi”. La Lega Nord ha presentato un’apposita interrogazione alla Giunta regionale per analizzare la reale situazione di quell’area che deve essere continuamente monitorata. E per finire arrivano anche Cils e Cgil: solidarietà incondizionata alle forze dell’ordine.
A Milano non si era espresso troppo diversamente il sindaco Moratti: “Ci dispiace per quanto avvenuto perché vogliamo una politica all'insegna della solidarietà e dell'accoglienza ma coniugata alla sicurezza e rispetto delle regole. Noi riteniamo che la polizia locale abbia svolto il proprio compito e manterremo la nostra posizione. Non faremo passi indietro perché non ci possono essere zone franche”. La polizia aveva ipotizzato che non si trattasse di una rivolta spontanea e il comune aveva mantenuto la linea dura, intensificando ogni sforzo per garantire la legalità. In sostanza, a Milano come a Sesto Fiorentino, per affrontare il rischio di nuove rivolte si è ripreso a multare e a fare controlli. Niente di più.
Nuove tensioni con la comunità cinese, come quelle di Milano e dell’Osmaronno, sono destinate a ripetersi se le posizioni delle amministrazioni, e più in generale della politica, rimangono inalterate. Una strada da percorrere, a patto che non sia solo una soluzione a effetto e squisitamente diplomatica, è quella del dialogo. I cinesi si sono fatti sentire in più di un’occasione e non solo con proteste. Qualche anno fa, ad esempio, c’è stata una fiaccolata per ricordare un padre cinese e la figlia uccisi a Roma da due maghrebini. Mentre solo a febbraio i cinesi hanno organizzato un corteo per richiedere maggiore tutela dalle istituzioni.
Bisogna cercare interlocutori e l’impresa potrebbe risultare più semplice del previsto, basti pensare a due dei protagonisti dell’Osmaronno, un carabiniere e un assessore comunale di origini cinesi. Ma ci si potrebbe rivolgere anche ai consoli, che hanno appoggiato attivamente la comunità cinese in entrambe le occasioni; ad Associna, l’associazione dei cinesi di seconda generazione, che rappresenta un ponte tra le due culture; all’Unione degli imprenditori Italia-Cina, che coniuga la propensione imprenditoriale della prima generazione e l’apertura mentale della seconda.
Non ci si può negare al confronto con una comunità che, stando al rapporto della fondazione Moressa, produce 6 miliardi di Pil e contribuisce all'economia locale con 250 milioni di Irpef. Diventerebbe un’opportunità per discutere, con maggiore distensione, di tutti gli aspetti legati al lavoro all’interno delle imprese cinesi. E per evitare che scoppino nuove rivolte in base agli stessi, vecchi presupposti.