Reificazione ed estraneazione nel giovane Marx

Come denuncia Marx mediante l’emancipazione politica solo la società civile si libera realmente, mentre l’uomo si emancipa astrattamente, contrapponendo la cittadinanza ideale alla subordinazione reale a dei rapporti di produzione che lo disumanizzano.


Reificazione ed estraneazione nel giovane Marx

Come denuncia Marx, la privazione della propria stessa essenza sociale, il mancato riconoscimento di sé e degli altri determinano la perdita della libertà sostanziale e fanno dell’uomo della società civile borghese “lo schiavo del lavoro per il guadagno, lo schiavo sia del bisogno egoistico proprio sia del bisogno egoistico altrui” [1]. Il lavoratore non può riconoscersi né nel proprio corpo, che ha alienato al capitalista quale merce, né nella propria essenza spirituale, dal momento che l’attività sociale gli è estranea, né può riconoscersi negli altri, la cui attività gli è altrettanto estranea. Al punto che il lavoratore si sente libero “soltanto nelle sue funzioni animali, (…) e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane” [2]. Mediante l’emancipazione politica – le cui basi sono gettate dalle rivoluzioni liberali borghesi e dalle successive lotte delle masse popolari per la democrazia – solo la società civile si libera realmente, mentre l’uomo si emancipa astrattamente, contrapponendo la cittadinanza ideale alla subordinazione reale a dei rapporti di produzione che lo disumanizzano. Come ha osservato acutamente Eustache Kouvélakis: “si lascia qui intravedere, soltanto in negativo, il significato dell’emancipazione di questo individuo atomizzato della società borghese che, riunendosi alla sua essenza generica, renderà possibile il «riconoscimento» e «l’organizzazione» sociale di questo lavoro costitutivo delle mediazioni, nella riunione del suo «lavoro individuale», dei suoi «rapporti individuali» con la sua «forza sociale»” [3]. Ancora a questo proposito ha acutamente evidenziato Bernard Bourgeois: “La teoria marxiana della produzione sociale, mediante gli individui umani reali, della loro esistenza materiale, non può allora presentarsi quale una giustificazione concreta della rivendicazione, ancora astratta, del giovane Marx, della libertà totale che fonda il diritto degli individui, che se, e solamente se – poiché il milieu della storia in quanto tale è l’interazione, sociale, di tali individui – :

1 / lo sviluppo dei rapporti sociali di produzione produce essenzialmente l’individualizzazione degli individui, e, soprattutto,

2 / è esso stesso prodotto mediante gli individui che producono loro stessi in quanto tali nella loro interazione” [4]. 

Proprio al contrario, come denuncia già con forza il giovane Marx, l’uomo portatore di diritti, contrapposto al cittadino, è nella società capitalista degradato a un agglomerato di bisogni “ed è per l’altro, così come l’altro è per lui, soltanto nella misura in cui diventano reciprocamente mezzi l’uno dell’altro” [5]. Nella società civile domina l’individualismo utilitarista teorizzato da Jeremy Bentham, mentre il lavoro, l’attività generica dell’uomo è ridotta a mezzo. Perciò, osserva ancora Marx, nella società civile borghese “negli altri uomini ci rivolgiamo non alla loro umanità, ma al loro egoismo; a loro non parliamo mai dei nostri bisogni, ma sempre del loro vantaggio” [6]. Il primato della persona, la sua elevazione a fine della struttura giuridica si rovescia paradossalmente nel rovesciamento del fine a mezzo e della persona a cosa, ovvero nella sua reificazione. Il che dipende dalla scissione fra la dignità assoluta della persona giuridica e la sua realtà fenomenica, fra l’individuo e l’altro sociale. Il rapporto fra i due diviene solo esteriore, strumentale, è reificato [7]. Gli individui deprivati della loro essenza sociale si rapportano quali mere volontà particolari, egoistiche, riducendo l’altro a strumento del proprio fine egoistico.

In tal modo, nella società capitalistica la vita stessa si sdoppia in quella nella comunità politica e in quella nella società civile in cui l’uomo ha un’esistenza privata e considera gli altri mezzi, divenendo a sua volta strumento di forze estranee che ne fanno scempio in quanto ente generico. Così nella società borghese, come denuncia ancora il giovane Marx, la società, quale appare all’economia politica borghese, “è la società civile, in cui ogni individuo è un insieme di bisogni, ed è per l’altro, così come l’altro è per lui, soltanto nella misura in cui diventano reciprocamente mezzi l’uno dell’altro. L’economista, così come la politica coi suoi diritti dell’uomo, riduce tutto l’uomo, cioè all’individuo a cui strappa ogni determinatezza, per classificarlo come capitalista o come lavoratore” [8]. Il modo di produzione capitalistico, degradando l’uomo a merce, lo riduce, “corrispondentemente a questa funzione, ad un essere tanto spiritualmente che fisicamente disumanizzato” [9]. Nel momento in cui considera la sua attività generica, il lavoro sociale non quale fine in sé, ma soltanto quale mezzo di sopravvivenza, nel momento in cui vede negli altri meri strumenti del proprio interesse privato, ha alienato la sua essenza sociale in un estraneo. Va così smarrita l’umanità dell’individuo che, proprio nell’attività generica, nel lavoro produttivo è degradato ad animale, dal momento che non è più libero di fronte al prodotto del proprio lavoro, in quanto esso è ridotto a colmare il suo bisogno immediato di sussistenza e in quanto egli non può riconoscervisi, dal momento che gli si contrappone nell’essenza alienata e ostile del capitale. Quindi, come denuncia ancora il giovane Marx, “l’attuale società civile è il principio realizzato dell’individualismo; l’esistenza individuale è lo scopo ultimo: attività, lavoro, contenuto etc., sono soltanto dei mezzi” [10].

Dunque, pretendendo nel formalismo del diritto umano di prescindere da ogni determinazione storica, di vedervi una caduta nel contingente, la giurisprudenza borghese finisce per dare veste universale a una concezione dell’uomo molto particolare, naturalizzando un determinato tipo di struttura sociale. Così, “trascesa la società storica per identificare la struttura della natura umana si reintroduce un tipo di rapporto sociale generalizzandolo come struttura dell’uomo in generale” [11]. Del resto, i diritti dell’uomo non hanno nulla di naturale, ma sono il prodotto, il risultato del rivoluzionamento dell’immediata unità di sfera politica e sociale del feudalesimo, da cui sorge uno Stato che riconosce personalità giuridica a un individuo slegato da ogni connotazione sociale. Perciò, “il diritto, e la dichiarazione di esso, non sono in prima posizione, contrariamente a quanto pretendono. Essi sono effetto di un processo che dissolve una forma sociale direttamente politica e rende possibile «nell’atto stesso» l’esistenza di individui slegati e il loro riconoscimento come soggetti di diritto (diritti) da parte dello Stato politico, testimoniato nei diritti dell’uomo e del cittadino” [12]. L’uomo che ne è portatore non corrisponde al concetto d’uomo quale essere sociale, ma è l’uomo borghese senza tutti i veli di cui si ammanta quale membro della comunità statuale: è l’individuo utilitarista posto al centro della visione del mondo di Bentham.

Marx, che in un primo momento pare far sua tale rappresentazione ideologica giusnaturalista della borghesia rivoluzionaria, ne mostra in realtà tutte le contraddizioni, contestandone gli stessi fondamenti antropologici, che definirà ironicamente robinsonate [13]. Tanto più che, come fa notare con il consueto acume Kouvélakis “se gli uomini nascono e restano liberi ed eguali di diritto, e se il cittadino non può essere altro che quell’uomo, la questione della cittadinanza e dell’accesso ad essa si sposta ormai sul fatto di sapere chi è, o piuttosto che cosa è un uomo. Un non-propietario è un «uomo» nel senso pieno del termine? Una donna, è un «uomo»? Uno schiavo, un colonizzato, sono «uomini»? A queste domande, noi sappiamo che i padri fondatori del liberalismo rispondono con bella unanimità in senso negativo” [14].

 

Note

[1] Karl Marx e Friedrich Engels, La sacra famiglia [1845], traduzione italiana di A. Zanardo, Editori riuniti, Roma 1967, p. 148.

[2] K. Marx, Manoscritti economico filosofici del 1844 a cura di Norberto Bobbio, Giulio Einaudi editore, Torino 1968, p. 75.

[3] E. Kouvélakis, Critica della cittadinanza; Marx e la “Questione ebraica”, tr. it. di N. Augeri, in «Marxismo Oggi» 1, Milano 2005, pp. 45-78, p. 65. Osserva ancora a ragione a tal proposito Kouvélakis: “in questo contesto, conviene sottolinearlo, il «cittadino astratto» non è puramente e semplicemente soppresso, ma viene riassorbito nell’uomo individuale reale, cessa di esistere in quanto doppio trascendentale, realtà separata di una vita sia sociale che individuale, ormai ricostruita nell’immanenza delle sue mediazioni” ibidem

[4] B. Bourgeois, Philosophie et droits de l’homme: de Kant à Marx, éditions PUF, Parigi 1990, p. 120.

[5] K. Marx, Manoscritti economico filosofici, op. cit., p. 142.

[6] Ivi, pp. 143-44.

[7] Come ha fatto notare a ragione Umberto Cerroni, questa problematica era già presente, anche se in modo sostanzialmente inconsapevole, nella riflessione di Immanuel Kant. In effetti, “il punto di partenza di Kant è il primato della persona e il principio «non sii mai per gli altri un puro mezzo, ma sii per loro nello stesso tempo un fine», su cui si costruisce il mondo noumeno separato dal mondo fenomenico, la conclusione cui si giunge è proprio il rovesciamento del fine a mezzo e della persona a cosa. Difficoltà questa, che sembra proprio discendere dall’aver assunto la persona fuori del rapporto sociale e quindi soltanto come una dignità o astratta titolarità di fini etici, sicché, nel costruire poi il rapporto sociale moderno, Kant deve introdurre la sensibilità o fenomenicità dell’individuo (il suo modo reale di rapportarsi all’altro uomo) soltanto come cosa. Ne deriva che quella dignità della persona, proprio in quanto astratta e presociale, postula (presuppone) la scissione delle persone storiche in persone-fini o persone-mezzi, ovvero in persone strictu sensu e in persone-cose” U. Cerroni, Marx e il diritto moderno, Ed. Riuniti, Roma 1972, pp. 252-53.

[8] K. Marx, Manoscritti economico filosofici, op. cit., p. 142.

[9] Ivi, op. cit., p. 90.

[10] K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Marx-Engels, Le opere, Editori Riuniti. Roma 1971, p. 36.

[11] U. Cerroni, Marx e il diritto moderno, cit., p. 246.

[12] E. Kouvélakis, Critica della cittadinanza…, op. cit., p. 71.

[13] Come osserva a tal proposito Marx: “Il singolo ed isolato cacciatore e pescatore, con cui cominciano Smith e Ricardo, appartengono alle invenzioni prive di fantasia del XVIII secolo. (…) Così come non poggia su un siffatto naturalismo il contrat social di Rousseau, che mette in rapporto e in collegamento, mediante un patto, soggetti per natura indipendenti. (…) In realtà si tratta piuttosto dell’anticipazione della «società civile», che si preparava dal XVI secolo e che nel XVIII ha compiuto passi da gigante verso la maturità. In questa società della libera concorrenza il singolo appare sciolto dai legami naturali ecc., che nelle epoche storiche precedenti fanno di lui una parte accessoria di un agglomerato umano, determinato e circoscritto. Agli occhi dei profeti del XVIII secolo, sulle cui spalle poggiano ancora interamente Smith e Ricardo, questo individuo del XVIII secolo – che è il prodotto, da un lato, della dissoluzione delle forme sociali feudali e, dall’altro, delle nuove forze produttive sviluppatesi a partire dal XVI secolo – appare come un ideale la cui esistenza appartiene al passato” (K. Marx, Introduzione a “Per la critica dell’economia politica” [1857], in Marx-Engels, Le opere, Editori Riuniti. Roma 1971, pp.713-14. Il manoscritto è stato posto anche come introduzione all’edizione dei Grundrisse, Edizione italiana Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Vol. I, La Nuova Italia, Firenze, 1968, pp.pp.3-4).

[14] E. Kouvélakis, Critica della cittadinanza…, op. cit., p. 66.

01/07/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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