Non accusatemi di risalire troppo indietro nel tempo, ma vi assicuro che la trasformazione dell’università è cominciata almeno 50 anni fa’, quando sembrava che gli atenei si sarebbero aperti anche ai giovani delle classi popolari, e quando gli studenti cominciarono la stagione della contestazione, cui alcuni posero fine con un cinico allineamento.
Già nel 1968 Zbigniew Brzezinski profilava la possibilità che gli studenti della Columbia University e quelli dell’Università di Teheran (non so perché proprio questa) avrebbero potuto un giorno ascoltare nello stesso momento la lezione di uno stesso docente, senza specificare se americano o persiano. Questa possibilità non costituisce un mero sogno, ma il disegno di rimodellare l’università nell’epoca del dominio globale degli Stati Uniti ormai in acuta discussione.
Come ha cercato di mostrare un’eminente storica francese, Annie Lacroix Riz, l’Europa costituisce una creazione statunitense in funzione antisovietica e con l’appoggio alla Germania, che al dissolversi del blocco socialista, è stata premiata con l’assorbimento non solo della Repubblica democratica tedesca, ma anche con quella dei paesi del defunto Patto di Varsavia. Insomma, è stata trattata come se fosse stata una dei vincitori della guerra, essendogli stati anche condonati di fatto i debiti di guerra [1].
Ma oggi gli Stati Uniti si trovano in una grave crisi, nella quale l’Unione Europea non è più loro tanto utile, preferendo Trump trattare direttamente con ciascun paese per ottenere di più grazie alla sua supremazia politica e militare. Inoltre, come è noto, i paesi imperialisti sono amici fino ad un certo punto e tale amicizia, come dimostrano le trascorse guerre mondiali, può rapidamente trasformarsi in una feroce inimicizia.
Sono noti il ricorso di Trump alla politica dei dazi anche nei confronti dei paesi stretti alleati, come l’Italia, e il conflitto tra USA e Germania per l’acquisto del petrolio e del gas russi. In questo scenario con la crisi del dominio globale degli Stati Uniti, il progetto per l’educazione superiore resta lo stesso (sua standardizzazione e sua acriticità), ma limitato ai paesi dell’Unione europea, la quale avvolta da contraddizioni asfissianti cerca ancora una volta di venire allo scoperto, come aveva fatto con l’euro che, tuttavia, non è riuscito a scalzare il dollaro.
Ciò è documentato dal fatto che lo scorso 26 giugno la Commissione europea ha comunicato che darà per 3 anni 85 milioni di euro a 114 università europee, riunite in 17 alleanze, cui partecipano 12 università italiane. La scelta è stata fatta da una Commissione di “esperti indipendenti” nominati dalla stessa Commissione europea, per la quale: “Le ‘università europee’ sono alleanze transnazionali di istituti di istruzione superiore di tutta l'UE che condividono una strategia a lungo termine e promuovono i valori e l'identità europei. Scopo dell'iniziativa è rafforzare in modo significativo la mobilità degli studenti e del personale e promuovere la qualità, l'inclusività e la competitività dell'istruzione superiore europea” (dal comunicato stampa della Commissione europea del 26/6/2019).
La prospettiva sottesa a questa iniziativa è quella della regionalizzazione continentale dell’educazione superiore e della spartizione dei profitti derivanti dalla sua trasformazione in merce (v. più avanti), cui potranno accedere studenti da tutte le parti del mondo ovviamente in grado di pagare il servizio ricevuto, in cambio del quale otterranno un lavoro ben retribuito nel mercato del lavoro mondiale. A ciò si può aggiungere che l’orientamento ideologico dell’educazione superiore è già tracciato a priori: promuovere i valori e l’identità europei, ovviamente a scapito della libertà di ricerca e di insegnamento. Dove potrà insegnare chi non condivide tali valori e che rimarca tutti gli aspetti negativi dell’UE? [2]. Le conseguenze negative di questa iniziativa sono state già indicate da un documento di Fronte popolare a cui si rimanda.
Un’altra tappa della trasformazione dell’università e della sua standardizzazione a livello mondiale è rappresentata dalla politica avviata negli anni ’80 del 900 dalla Banca mondiale, che doveva mutare funzione, insieme ai servizi forniti dagli Stati in diversa misura alla popolazione, divenendo merce e perdendo il suo carattere di diritto del cittadino. Ho potuto documentarmi su tale politica grazie ad una tesi di dottorato, presentata nel 2001 all’università della Florida; lavoro non pubblicato intitolato The New Global Order and its Effects on Higher Education Policies di Angela C. de Siqueira, in cui mi sono casualmente imbattuta. Nell’articolo che ho scritto nel 2005 su tale tema ho cercato di mostrare come la Banca mondiale è riuscita ad imporre in Europa con successo, ma anche altrove, attraverso un sistema di prestiti, la sostituzione del modello elaborato da Wilhelm von Humboldt (1767-1835), ministro dell’istruzione e del culto in Prussia e fondatore dell’università di Berlino, con il modello anglo-sassone. A parere del ministro prussiano, l’istituzione universitaria doveva essere indipendente dal potere politico e operare per dare risposta ai problemi generali della società. Inoltre, lo Stato doveva farsi carico dell’educazione superiore dei cittadini, i quali solo grazie all’acquisizione di conoscenze specifiche e profonde avrebbero potuto attuare come agenti politici consapevoli. Inoltre, era convinto che l’università dovesse guardare al futuro della vita sociale e nazionale e, al contempo, a ciò che mantiene validità nonostante le inevitabili trasformazioni storiche; sosteneva anche la necessità di una stretta connessione tra didattica e ricerca, cosa ormai del tutto persa in particolare nelle nuove università telematiche; infatti, senza la persistenza di questo nesso non può darsi una didattica sensibile ai mutamenti e soprattutto alla critica dell’ordine esistente.
Naturalmente tutto ciò è venuto meno (anche se in gran parte non aveva ricevuto un’autentica attuazione) con lo smantellamento dello Stato sociale, con l’introduzione del modello anglosassone di università, sensibile agli interessi dei finanziatori privati e orientato alla ricerca applicata, da cui si ricava un profitto immediato.
Inoltre, che anche il cosiddetto governo del cambiamento, che meriterebbe solo di essere preso alle famose pernacchie di Totò, ha deciso un altro taglio (100 milioni di euro) alle già magre risorse del settore universitario, in cui il corpo docente si è assottigliata ogni anno anche per l’impossibilità di sostituire i professori pensionati, ed insieme ad essi diminuiscono anche gli studenti, ai quali la laurea non garantisce più un lavoro degno. Ma al contempo, ha anche deciso la costituzione, con modalità e tempi tutt’altro che trasparenti, della Scuola superiore meridionale a Napoli, che non sarà più una succursale di quella pisana, ma riceverà comunque 92 milioni di euro per 5 anni per legge [3]. Si continua così a favorire la cosiddetta eccellenza [4] ai danni di quei corsi universitari, cui dovrebbero accedere la maggior parte degli studenti, anche per raggiungere quegli obiettivi che le varie controriforme dell’università si erano fissate secondo le chiacchere dei vari ministri susseguitisi nel tempo.
Ma se vogliamo andare più a fondo per cogliere le linee del disegno liberista per l’educazione superiore, possiamo prendere l’agile libretto di Adriano De Maio, rettore di varie università statali e private (ma per lui sono tutte pubbliche perché concorrerebbero al bene della comunità di appartenenza), pubblicato nel 2002 dal Sole 24 ore ed intitolato Una svolta per l’università. Riforme per costruire una formazione europea. Dato che siamo ormai nella fase della guerra tra i vari competitori, la preoccupazione di De Maio è rappresentata dalla necessità dell’aumento della competitività territoriale, cui l’università può a suo parere dare un ineguagliabile impulso. Di qui la necessità dell’internazionalizzazione del sistema universitario a livello europeo (l’Italia da sola farebbe ridere), perché a suo parere ciò significherebbe “capacità di attrarre talenti da tutto il mondo… ma anche di attirare investimenti industriali soprattutto per l’attività di ricerca e sviluppo e per incentivare la creazione di nuove imprese” (op. cit. p. 2). Naturalmente per raggiungere questi obiettivi bisogna creare le condizioni favorevoli agli investimenti, come per esempio è avvenuto grazie alla famigerata legge Gelmini con l’introduzione dei privati nei Consigli di amministrazione degli atenei, affinché possano salvaguardare direttamente i loro interessi. Egli sottolinea che “la presenza di forti centri di formazione e di ricerca induce investimenti e localizzazione di attività industriali a forte valore aggiunto” (op. cit. p. 172).
Insomma, come si può ricavare da queste rapide osservazioni abbiamo assistito impotenti ad un’università che cambiava faccia: da istituzione democratica, almeno sulla carta, volta alla preparazione del cittadino e alla sua ascesa sociale, ad un organismo prono ai bisogni delle imprese capitalistiche, che ovviamente vengono pagati con i soldi dei salariati, gli unici a pagare le tasse. Da scuola del pensiero critico a puntello del pensiero economico-politico dominante, da strumento di emancipazione a mezzo di ulteriore asservimento, volto alla creazione di un brutale dualismo tra élite ben e acriticamente formata e maggioranza precaria e super-sfruttata.
Note
[1] Evento, del resto, previsto, come riporta Lacroix Riz, dal diplomatico francese Armand Bérard, il quale scrive nel 1952 che, quando gli USA saranno in grado di sconfiggere l’URSS, la Germania più americana degli stessi americani potrà mettere mano sull’Europa orientale, all’epoca sotto tutela sovietica.
[2] Sempre Lacroix Riz (ibidem) denuncia che la UE finanzia solo ricerche in linea con la narrazione più diffusa della creazione mitologica di questa rapace istituzione, non prendendo in considerazione tutte le ricerche di carattere critico.
[3] Per i dettagli si veda: https://www.andu-universita.it)
[4] Eufemismo per non parlare di élitismo, di classismo e per nascondere dietro il concetto di merito, definito come una proprietà oggettiva e quantificabile, quella che è soltanto una valutazione soggettiva dello stesso da parte di valutatori, che non potranno essere mai neutrali in quanto portatori di una determinata prospettiva interpretativa. Si tratta di un meccanismo che occulta la decisione politica, ponendola dietro lo schermo di un incomprensibile apparato tecnocratico, che sancisce la falsa oggettività della valutazione dei prodotti (come oggi si definiscono in gergo aziendalistico i contributi dei ricercatori).