Marx e la negazione dialetticamente determinata del diritto

La contraddizione fra l’affermazione dell’universalismo giuridico della tradizione liberale, che trova la sua massima espressione nei diritti umani, e l’universalismo determinato o concreto portato in primo piano dalla tradizione socialista e comunista.


Marx e la negazione dialetticamente determinata del diritto

“La cittadinanza e, con essa, il liberalismo politico e il suo universalismo giuridico, rappresentano l’orizzonte ultimo della politica moderna?” [1] si domanda a ragione Eustache Kouvélakis. Domanda che non può non interrogare la questione dei diritti umani, che costituiscono l’orizzonte politico dell’universalismo giuridico del liberalismo politico. Kouvélakis richiama a ragione “la contraddizione fra l’affermazione dell’universalismo giuridico implicito nel vocabolario di cittadinanza e l’universalismo determinato o concreto portato in primo piano dalla tradizione socialista o comunista. Ecco perché la lotta di classe non è la sola vittima di questo imperialismo del discorso della cittadinanza. In realtà tutto l’insieme dei movimenti portatori di una differenza entro lo spazio pubblico, il femminismo per esempio, ma anche l’ecologia e i movimenti culturali hanno visto che la loro autonomia di discorso si è ridotta e si è allineata sul modello giuridico di cittadinanza attualmente dominante” [2]. 

Ciò spiega perché non solo Marx, ma lo stesso Hegel non si richiamano sostanzialmente mai ai diritti umani. Tanto più che l’universalismo giuridico è davvero inclusivo dei ceti subalterni soltanto dinanzi ad ampie lotte sul piano economico e sociale da parte di questi ultimi. Tanto è vero che, come osserva ancora acutamente Kouvélakis, vi è un evidente parallelismo fra “l’esclusione delle classi subalterne dalla sfera pubblica (…) e anche dall’esercizio del diritto di voto (si veda il crollo dei tassi di partecipazione alle elezioni nei principali paesi europei e il loro tendenziale allineamento al modello americano), cioè il ristabilirsi di fatto del suffragio censitario e della cittadinanza passiva” e la progressiva perdita “delle conquiste sociali del periodo precedente” [3].

In tal modo il predominio ideologico dell’universalismo giuridico dei diritti umani, proprio della tradizione liberale, è un sintomo dei rapporti di forza mutati a livello nazionale e internazionale all’interno della perpetua lotta fra chi si batte per l’emancipazione del genere umano e chi opera in funzione della disemancipazione. Nota a tal proposito, giustamente, ancora Kouvélakis: “se la situazione è questa, l’attuale proliferazione dei discorsi di «cittadinanza», che contrasta molto con la relativa eclisse del periodo precedente, pur se segnata dai «progressi» della «cittadinanza» (ma sono soprattutto il discorso del socialismo e quello della rivoluzione anticoloniale che l’hanno espressa) non può esser considerato un paradosso, ma piuttosto un sintomo, ambiguo, della disemancipazione. Protesta contro certi effetti (…), oppure giustificazione della sua logica d’insieme (in nome del ritorno alle virtù dell’universalismo astratto), la figura del «cittadino» proclamata oggi da tutte le parti ripete sul piano discorsivo il processo di disemancipazione, escludendo l’unica critica che rimetta radicalmente in discussione i suoi presupposti, la critica socialista e comunista” [4]. Del resto si tratta dei limiti dei diritti umani della tradizione liberale, in quanto si tratta di diritti borghesi, sottoposti al limite della sicurezza della proprietà privata vero e proprio fondamento della società civile borghese. Perciò i diritti giuridici universali e, di conseguenza, gli stessi diritti umani hanno svolto certamente una funzione storica rivoluzionaria rispetto alla società feudale, tutta incentrata sul rapporto servo-padrone, ma appaiono inevitabilmente limitanti rispetto alla prospettiva della transizione al socialismo. Del resto, come ricorda Bernard Bourgeois: “il comunismo nega i «Diritti umani» nel senso che è – per riprendere daccapo i termini de L’ideologia tedesca – «il movimento reale che abolisce lo stato attuale»” [5], compreso, dunque, il liberalismo politico e il suo universalismo giuridico.

Da qui la questione del necessario superamento dialettico dei diritti umani, legata anche alla questione che i diritti umani, in quanto diritti, non dovrebbero essere più necessari nella società comunista, prodotto della progressiva estinzione dello Stato. Gli stessi diritti umani non possono avere, in effetti, una validità sovrastorica da un punto di vista marxiano, in quanto come ogni cosa sorgono sulla base di un preciso bisogno sempre storicamente determinato, in tal caso l’uguaglianza esclusivamente giuridica fra gli uomini. Si può ipotizzare un’epoca in cui non ci sarà più la necessità di sancire legalmente tale eguaglianza, in cui non vi sarà più tale bisogno storicamente determinato? 

Peraltro la prospettiva socialista di una concezione positiva della libertà e non meramente negativa come quella della tradizione liberale apre la strada a nuove modalità di rapporti sociali, trascesa la modalità antagonistica e la necessità di intendere la libertà giuridicamente e coercitivamente ancora dominanti nella società capitalistica. Sarebbero, dunque, da ripensare le modalità attraverso cui favorire il desiderabile sviluppo di una libertà più piena, solidale e positiva rispetto a quella negativa propria della società borghese

Da qui, prende le mosse la questione del superamento dialettico del diritto (borghese), presa in esame da autori anglo-americani come Allen Buchanan e Steven Lukes i quali, tenendo conto della teoria della giustizia di John Rawls e dei rapporti fra marxismo ed etica, teorie dei diritti e teorie della giustizia, ritengono che la critica che investe i diritti dell’uomo investe necessariamente anche i diritti del cittadino. Così, questi autori argomentano la posizione di Marx: se i diritti legali sono necessari solo laddove c’è il rischio del conflitto di classe e dell’egoismo connesso alla divisione in classe, nel comunismo non ce ne dovrebbe essere bisogno. D’altra parte, la tutela giuridica sarà sempre necessaria, sostengono tali autori, a) almeno per difendere da un altruismo male interpretato; b) in quanto bisogna tenere conto delle “circostanze di giustizia”, ovvero del fatto che gli interessi degli uomini sono anche interessi in conflitto, che le risorse non sono mai così abbondanti da risolvere qualsiasi problema di ripartizione e il concetto di bene muta da uomo a uomo; c) a causa dell’impossibilità di una perfetta informazione e comprensione la necessità della tutela legale della libertà individuale dovrà rimanere un valore universale.

Va ricordato che lo stesso Marx ha progressivamente abbandonato il progetto di una stretta “centralizzazione delle forme politiche rivoluzionarie a livello nazionale, vigorosamente difeso lungo l’intero corso delle rivoluzioni del 1848, a vantaggio di una versione più «dialettica», basata sulla necessità di una centralità e di una unità nazionale intese come processo ascendente, superamento dei limiti localistici attraverso la costruzione di una capacità di direzione che si fonda sulla sua autonomia” [6]. Allo stesso modo non si deve dimenticare che per Marx lo Stato rivoluzionario deve realizzare la libertà positiva dell’individuo. Come osserva a tal proposito Bourgeois: “la teoria marxiana della produzione sociale, mediante gli individui umani reali, della loro esistenza materiale, non può allora che presentarsi quale una giustificazione concreta della rivendicazione, ancora astratta, del giovane Marx, della libertà totale che fonda il diritto degli individui se, e solamente se – poiché il milieu della storia in quanto tale è l’interazione, sociale, di tali individui – 1 / lo sviluppo dei rapporti sociali di produzione produce essenzialmente l’individualizzazione degli individui, e, soprattutto, 2 / è esso stesso prodotto mediante gli individui che producono loro stessi in quanto tali nella loro interazione” [7].

Nella prospettiva marxiana vi è, fin dagli anni giovanili, la tensione al superamento del conflitto fra esistenza individuale e generica dell’uomo che caratterizza la società borghese. Come osserva Marx non appena la società riuscirà a sopprimere (…) il mercato e i suoi presupposti, (…) il bisogno pratico si umanizza, perché sarà superato il conflitto fra l’esistenza individuale e sensibile e l’esistenza di genere dell’uomo” [8]. Ciò porterà al progressivo dileguare dello Stato con i suoi apparati repressivi come l’esercito permanente, la polizia, la burocrazia, il clero e la stessa magistratura.

 

Note:

[1] Kouvélakis, E., Critica della cittadinanza; Marx e la “Questione ebraica”, tr. it. di N. Augeri, in “Marxismo Oggi” 1, Milano 2005, p. 48. 

[2] Ivi, pp. 46-47.

[3] Ivi, pp. 74-75.

[4] Ivi, p. 75.

[5] Bourgeois, B., Philosophie et droits de l'homme: de Kant à Marx, éditions PUF, Parigi 1990, p. 112.

[6] Kouvélakis, E., Marx e la critica della politica, in Musto, M. [a cura di], Sulle tracce di un fantasma. L'opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, Manifestolibri, Roma 2005, p. 205.

[7] Bourgeois, B., Philosophie et droits de l'homme…, op. cit., p. 120.

[8] Bauer, B., Karl Marx, La questione ebraica, tr. it. di Tomba, M., Manifestolibri, Roma 2004, p. 206.

05/02/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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