L’anticipazione ideale è la funzione precipua della forma romanzo che György Lukács desume dalla cultura romantica e, principalmente, da Schlegel e da Novalis. La funzione utopica attribuita al romanzo consiste nel prefigurare – nello stesso momento in cui esso dà espressione alla negatività dell’esistente – un mondo nuovo, nell’anticipare idealmente il costituirsi di una realtà alternativa all’esistente. Per questi motivi, l’impostazione lukacciana “finisce col possedere un significato esplicitamente antihegeliano, proponendosi come dimensione alternativa a quella della «conciliazione» hegeliana” [1].
L’arte sorge dalla dissonanza della vita: è un nonostante, che testimonia l’eterogeneità dell’esistente, ma si contrappone a esso per trascenderlo, innestando un processo in cui appare qualcosa di nuovo. Il trascendimento, l’anticipazione ideale, deriva dalla presenza nel romanzo dell’etica, i cui contenuti entrano strutturalmente nella costruzione della forma poetica. Il problema estetico si intreccia indissolubilmente con il problema etico dell’utopia di un mondo migliore, la cui legittimità nell’articolazione delle vicende dell’eroe sussiste a condizione che la struttura romanzesca non contempli una soluzione positiva. Il soggetto del romanzo è, infatti, l’odierno individuo problematico in lotta con il mondo esteriore degradato nella costante ricerca di possedere la realtà. Il percorso avventuroso dell’anima, alla ricerca della propria essenzialità nel “mondo abbandonato dagli dei”, si rivela come attività demonica che va incontro alla vanificazione del suo continuo sforzo di trascendimento: “ed ecco che allora all’improvviso l’abbandono del mondo da parte del dio si svela per insostanziabilità, per l’irrazionale miscela di densità e permeabilità: ciò che prima sembrava solidissimo, crolla a mo’ di disseccata argilla al primo tocco del posseduto demone, e una vuota diafanità, oltre la quale erano visibili allettanti paesaggi, diviene d’un tratto parete di vetro, contro cui invano ci si affatica, incapaci di comprendere, quale un’ape alla finestra, senza riuscire a sfondarla, senza neppure pervenire all’agnizione, non darsi qui via alcuna” [2].
Fattore determinante della discrepanza tra idea e realtà è il tempo come durata. Mentre nell’epopea gli eroi si muovono nella “beata a-temporalità del mondo degli dei”, nel romanzo, “la cui materia è costituita dal dover cercare e dal non poter trovare l’essenza, il tempo è implicito nella forma”, “senso e vita si scindono, e con essi l’essenziale e il temporale; quasi si potrebbe dire che l’intera azione del romanzo si riduca a null’altro che a una lotta contro la potenza del tempo” [3].
A riscattare l’esperienza fallimentare dell’eroe – per il quale “iniziata è la via, compiuto il viaggio” [4] – è l’ironia esercitata dall’autore del romanzo nei confronti sia del suo mondo, che dei suoi personaggi. Il romanziere è fin dall’inizio consapevole della inanità della ricerca dell’eroe, ma, pur riconoscendo l’illusorietà dei suoi propositi, condivide e sostiene le sue aspirazioni e i suoi tentativi. Per questo motivo l’atteggiamento ironico dell’autore non va confuso con quello dei romantici e, segnatamente, di Schlegel, per il quale l’ironia viene identificata nel gioco con cui il poeta mette in opera la propria creazione allo scopo di dissolverla, attraverso un distacco critico che la guarda dall’alto in un susseguirsi di creazione-negazione che va all’infinito. Per Lukács, l’ironia nel romanzo è “la libertà del poeta rispetto a dio, e la condizione trascendentale dell’obiettività della raffigurazione” [5]. Grazie ad essa il romanziere riesce a far coesistere i due contenuti contraddittori del romanzo: la vittoria compiaciuta del dio creatore a fronte della ribellione contro il mondo degradato da lui prodotto, e il dolore per il dio da venire e al quale non è dato ancora di venire [6]: “L’ironia quale auto-redenzione della soggettività giunta alla fine, è la più alta libertà che sia possibile in un mondo senza dio. Per cui essa non è soltanto l’unica possibile condizione aprioristica di un’obiettività concreta, creatrice di totalità, bensì anche solleva questa totalità, il romanzo, a forma rappresentativa dell’epoca, in quanto le categorie costitutive del romanzo stesso costitutivamente si fondano sulla condizione del mondo” [7].
L’orizzonte del romanzo è definito dall’epoca e la raggiunta totalità formale non implica il superamento dei limiti della società moderna. La possibile metamorfosi non può, quindi, essere compiuta a partire dall’arte, ma sul fondamento di un rovesciamento delle condizioni storico-empiriche, il cui avvento può essere divinato in segni premonitori presenti anche nella produzione artistica. In questo senso, le opere di Tolstoj rappresentano l’apice delle possibilità espressive del romanzo, ma, nello stesso tempo, si possono cogliere nel destino dei suoi personaggi degli attimi sublimi “che fan balenare il presagio di una vita essenziale, di un corso dell’esistenza pregnante” [8]. Questa compiuta configurazione del mondo, che l’arte di Tolstoj fa intravedere, esige una nuova forma di rappresentazione. L’essenzialità della nuova epoca che si annuncia sarà fondata sui princìpi della seconda etica, nell’orizzonte di senso dischiuso dall’incontro di anima e anima: “È nella sfera di una pura realtà dell’anima, in cui faccia la sua apparizione l’uomo come uomo - non già come ente sociale, e neppure però quale interiorità isolata e incomparabile, pura e pertanto astratta - che, qualora essa fosse presente come spontaneità ingenuamente vissuta, come l’unica vera verità, potrebbe strutturarsi una nuova e perfetta totalità di tutte le sostanze e i rapporti in essa possibili: questa sfera si lascerebbe alle spalle la nostra realtà scissurata, se ne servirebbe come di uno sfondo, esattamente come il nostro mondo dualistico, sociale, “interiore” si è lasciato alle spalle il mondo della natura” [9].
Profeta e battistrada della rinascita di una nuova epopea, espressione dell’utopia del “regno dei cieli sulla terra”, è Dostojevskij: “Dostojevskij non ha scritto alcun romanzo [...] che egli sia solo un inizio, oppure già un compimento: ecco una cosa che soltanto l’analisi formale delle sue opere potrà rivelare. E solo allora potrà essere compito di un’interpretazione storico-filosofica dei segni celesti, quello di dire se noi siamo davvero sul punto di abbandonare la posizione dell’ assoluta peccaminosità, ovvero se son soltanto mere speranze ad annunciare l’annuncio del nuovo: segni di un avvento, i quali ancora così deboli sono, da poter essere schiacciati a capriccio, per gioco, dall’infruttuosa potenza di ciò che semplicemente esiste” [10].
Note:
[1] E. Matassi, Il giovane Lukács. Saggio e sistema, Napoli, Guida 1979, p. 130.
[2] G. Lukács, Teoria del romanzo [1920], introduz. di L. Goldmann, traduz. di F. Saba Sardi, SugarCo Edizioni, Milano 1962, p. 131.
[3] Ivi, p. 174.
[4] Ivi, p. 110.
[5] Ivi, p. 134.
[6] Questo motivo è presente anche nel saggio Arianna a Nasso, forse scritto nello stesso periodo della stesura di Teoria del romanzo, accompagnandosi con l’attesa messianica del mondo nuovo, che testimonia il passaggio dalla concezione tragica a quella utopica: “e se il buio della nostra mancanza di fini fosse solo il buio della notte tra il tramonto di un dio e l’aurora di un altro? [...] Ed è sicuro che noi qui – nel mondo abbandonato dal Dio della Tragedia – abbiamo trovato il senso ultimo? Non sta piuttosto nel nostro abbandono un grido di dolore, un’invocazione nostalgica al Dio che deve ancora venire? Non è la sua luce, che a noi appare ancora debole, più essenziale dello splendore seducente dell’eroe degli eroi [...]? Da questo dualismo sono nati gli eroi di Dostojevskij; accanto a Nikolai Stavrogin il principe Mischkin, accanto a Ivan Karamázov suo fratello Alioscia” G. Lúkács, Arianna a Nasso [1916], in Id., Scritti sul romance, Il Mulino, Bologna 1982, p. 79.
[7] Id., Teoria…, op. cit., p. 135.
[8] Ivi, p. 213.
[9] Ivi, p. 214.
[10] Ivi, p. 216.