Qual è il fondamento della tragica contraddizione che caratterizza la quasi totalità dei tentativi di transizione al socialismo del XX secolo? Lenin non solo era pienamente consapevole di tale contraddizione, anzi è stato probabilmente il primo a esplicitarla: “per i russi, in confronto ai paesi avanzati, è stato più facile iniziare la grande rivoluzione proletaria; ma sarà per essi più difficile continuarla e condurla sino alla vittoria definitiva, cioè alla completa organizzazione della società socialista. Per noi è stato più facile incominciare anzitutto perché l’arretratezza politica eccezionale, rispetto all’Europa del secolo XX, della monarchia zarista ha dato una forza eccezionale all’assalto rivoluzionario delle masse. In secondo luogo, l’arretratezza della Russia ha fuso in modo originale la rivoluzione proletaria contro la borghesia con la rivoluzione contadina contro i grandi proprietari fondiari” [1]. Dalla consapevolezza di tali contraddizioni emerge con chiarezza nel pensiero di Lenin l’esigenza di una adeguata politica di alleanze di classe. Dal momento che il corso storico non conosce processi puri, né tanto meno rivoluzioni pure, dunque se in Oriente la forma prevalente dei movimenti rivoluzionari è sorta sulla base della commistione di prospettive proletarie e piccolo borghesi rurali, in Occidente alle istanze operaie si potranno associare quelle della piccola-borghesia urbane e dei ceti medi.
Per quanto concerne nello specifico la situazione della Russia Lenin osserva: “il proletariato ha due alleati: anzitutto, in Russia, la grande massa dei semi-proletari e, in parte, dei piccoli contadini, che ammonta a decine di milioni e comprende la stragrande maggioranza della popolazione (…). Il secondo alleato del proletariato russo è il proletariato di tutti i paesi belligeranti e di tutti i paesi in generale” [2]. Da questo punto di vista diviene decisivo il lavoro dei comunisti, in quanto, come sottolinea Lenin “i nostri sforzi dovranno tendere non solo a far sì che gli operai agricoli costituiscano i propri Soviet, ma anche a far sì che i contadini più poveri e non abbienti si organizzino separatamente dai contadini agiati” [3]. A tal proposito, il grande insegnamento che ci viene dalle riflessioni di Lenin – alla luce della sconfitta della Rivoluzione in occidente – e dai primi anni dell’esperienza sovietica è proprio la necessità di saper riadattare il processo rivoluzionario per consentirgli di potersi sviluppare anche in un contesto profondamente diverso da quello ipotizzato dai suoi protagonisti, che avevano mirato a rompere l’anello più debole degli Stati imperialisti per favorire la rottura rivoluzionaria nei paesi a capitalismo avanzato, dove si erano già sviluppate le condizioni oggettive necessarie a portare a termine la transizione al socialismo.
Tale insegnamento deve portarci anche oggi a non dare dei giudizi troppo affrettati sui processi di transizione al socialismo, a un capitalismo di Stato o a una rivoluzione democratica ancora in atto sul piano internazionale, applicando in maniera meccanicistica i principi dell’analisi determinata del contesto storico determinato con cui Lenin cercava di individuare quale fosse la strada più avanzata possibile, in quel tragico contesto storico. Del resto lo sviluppo di qualsiasi processo rivoluzionario non può che tendere a discostarsi dai percorsi progettati a tavolino dagli stessi rivoluzionari, che per essere realmente tali devono fare tesoro nel bene e nel male delle esperienze del passato, senza mai rapportarvisi in modo schematico.
Affinché sia vincente nel lungo periodo una rivoluzione deve conferire contenuto concreto alle idee di uguaglianza e universalità sull’onda delle quali è giunta al potere. Perciò occorre depurare quelle idee dalla forma enfatica, ingenua che tendevano ad assumere nei momenti di entusiasmo, e il nuovo governo rivoluzionario è chiamato a compiere quest’opera di depurazione non in uno spazio vuoto e asettico, ma in una determinata e peculiare congiuntura storica in cui fanno sentire la loro presenza e il loro peso i rapporti di forza fra le classi sociali, le contraddizioni e i conflitti che inevitabilmente emergono. Ciò provoca, altrettanto necessariamente, lacerazioni anche profonde nello stesso fronte rivoluzionario. È nel corso di questo difficile passaggio che il movimento rivoluzionario, fino a quel momento almeno in apparenza caratterizzato da un’unità corale, comincia a mostrare le prime crepe o le prime lacerazioni e intervengono le delusioni, il disincanto e con esso le prime accuse di tradimento. Vi è a tal proposito una dialettica oggettiva analizzata in particolare da Domenico Losurdo; nella precedente lotta contro le disuguaglianze, i privilegi, le discriminazioni, le ingiustizie, l’oppressione dell’antico regime e contro i particolarismi, l’esclusivismo, la meschinità e l’egoismo rimproverati alla vecchia classe dominante, la rivoluzione è spinta a enfatizzare l’eguaglianza e l’universalità. Ciò facilita il rovesciamento delle vecchie istituzioni politiche, ma rende più problematica la costruzione del nuovo ordinamento. Fino a che punto questo sarà all’altezza delle attese? Non rischia di riprodurre alcune delle storture dell’antico regime? Tanto più questo passaggio risulta delicato a causa dell’avvento al potere di ceti dirigenti senza esperienza di governo alle spalle che, per di più, si trovano nella necessità di creare praticamente dal nulla un nuovo ordinamento politico e sociale. In tali frangenti, necessariamente labile è il confine fra utopia concreta (un orizzonte certo che orienta e stimola il processo reale di trasformazione) e utopia astratta, quale evasione e fuga dalla realtà e dalla storia.
Tanto più che, quando si parla di socialismo reale e non di mere utopie bisogna sempre considerare come gli sforzi per costruire le fondamenta economiche e politiche della transizione al socialismo, come ci insegna la storia, debbano da subito scontrarsi con le avverse condizioni dovute alle aspre lotte per sconfiggere gli eserciti stranieri invasori, la borghesia nazionale, l'accerchiamento imperialista e la sovversione interna che agisce con azioni di sabotaggio e attentati. Vittima di questi ultimi sarà, in primo luogo, il principale rivoluzionario sovietico: Vladimir I. U. Lenin. Dunque, l’imperativo rivoluzionario di edificare una nuova società, in grado di superare dialetticamente i limiti del modo di produzione capitalistico, è stato reso assai più difficile dall’attività di contrasto delle forze politiche e sociali controrivoluzionarie. Le vecchie classi dominanti, insieme ai nemici esterni, hanno fatto precipitare – con le loro azioni di sabotaggio, di embargo, blocco economico e d’intervento militare – nella fame e nella miseria il paese della rivoluzione, senza contare l’enorme numero di morti e distruzioni prodotte dalla guerra civile imposta al paese dei Soviet. In tali drammatiche condizioni, il lavoro del Partito bolscevico volto alla edificazione di quel tanto di socialismo che era possibile in quelle tragiche vicissitudini ha avuto davvero del “miracoloso”. La situazione di guerra o di costante Stato d’assedio con cui, da allora in poi, ha dovuto convivere il paese sorto dalla Rivoluzione, è stato indubbiamente un grande ostacolo al pieno sviluppo di quell’effervescenza democratica messa in moto già dalla Rivoluzione di febbraio.
Inoltre, per comprendere la tragica parabola percorsa dal paese sorto dalla Rivoluzione d’Ottobre non si deve mai perdere di vista lo stato d’eccezione permanente, provocato dall’intervento e dall’accerchiamento imperialistico e dalle tre guerre civili che si sono susseguite, sconvolgendo il paese, a partire dall’Ottobre 1917. La prima guerra civile ha contrapposto i rivoluzionari ai sostenitori dei passati regimi; la seconda si è sviluppata a causa della rivoluzione dall’alto, che ha sostanzialmente imposto in modo coercitivo la collettivizzazione dell’agricoltura; la terza è quella che – a ondate successive, dopo la morte di Lenin – ha lacerato trasversalmente il gruppo dirigente bolscevico.
Tornando alle soluzioni individuate da Lenin per far fronte alle prime delle tragiche vicissitudini sopra ricordate, il sistema sovietico, quale organo della lotta di classe contro la borghesia, poteva secondo il rivoluzionario russo consolidarsi – come dovettero ben presto riconoscere in quel contesto internazionale anche i più accesi rivoluzionari – solo se sarebbe stato in grado di ricomprendere nel proprio iniziale programma gli obiettivi delle masse piccolo-borghesi. In particolare, trovandosi il paese isolato in un contesto internazionale fortemente ostile, ha dovuto sperimentare forme di economia mista, rendendo così decisiva la posizione che avrebbero assunto gli strati sociali intermedi della società. In particolare si domandava angosciosamente Lenin in quel tragico frangente: “la massa contadina sarà con la classe operaia, rimanendo fedele all’alleanza con questa oppure permetterà ai nepman, cioè alla nuova borghesia, di staccarla dagli operai, di provocare una scissione?” [4]. Se i rivoluzionari non riusciranno a conquistare l’egemonia su tutto quel variopinto strato intermedio che separa il proletariato dalla borghesia vera e propria o se non si riuscirà quantomeno a mantenere i ceti medi in uno stato di neutralità, il processo di transizione non potrebbe che subire una decisa battuta d’arresto.
Da questo punto di vista un ruolo decisivo per il successo o meno del processo di transizione al socialismo sarà giocato, secondo Lenin, dai contadini: “parlando del passaggio dal capitalismo al socialismo – egli fa notare – il compito del partito socialista è di neutralizzare i contadini, di ottenere cioè che il contadino rimanga neutrale nella lotta tra il proletariato e la borghesia, che non possa prestare un aiuto attivo alla borghesia contro di noi” [5]. Perciò Lenin ritiene che in seguito alla rivoluzione socialista nella maggior parte dei casi, in un primo momento, non si dovrà procedere alla socializzazione delle piccole e medie proprietà (in primo luogo contadine), ma piuttosto esse dovranno addirittura venir incrementate: “il potere proletario non deve affatto realizzare, nella maggior parte degli Stati capitalistici, l’immediata e integrale abolizione della proprietà privata, e in ogni caso non solo esso garantisce ai contadini piccoli e medi i loro appezzamenti di terra, ma anzi li estende fino a comprendere tutte le aree che abitualmente vengono prese in affitto” [6].
Segue nel numero 267 de La Città Futura on-line dal 25 gennaio.
Note:
[1] V.I.U. Lenin, La III Internazionale e il suo posto nella storia [aprile 1919], in Id., Sulla rivoluzione socialista, edizioni progress, Mosca 1979: p. 403.
[2] Id., Lettere da lontano [marzo 1917], in op. cit., p. 106.
[3] Ivi, p. 107.
[4] Id., Come organizzare l’ispezione operaia e contadina [gennaio 1923], in op. cit., p. 595.
[5] Id., Rapporto sul lavoro nelle campagne (tenuto al VIII congresso del PCbR) [marzo 1919], in op. cit., pp. 386-87.
[6] Id., Primo abbozzo di tesi sulla questione agraria [giugno-luglio 1920], in op. cit., p. 506.