La meritocrazia (non) fa rima con democrazia [1]

Come è avvenuto che la connotazione della meritocrazia, da negativa, si sia rovesciata, secondo il pensiero borghese dominante e secondo gli ideologi dello stessa terza via blairiana e dei neo-populisti, in positiva?


La meritocrazia (non) fa rima con democrazia [1]

Se un giovane nato e cresciuto negli anni ’90 del secolo scorso leggesse la prefazione dell’edizione italiana di The rise of meritocracy del 1962, uscita quattro anni dopo l’originale inglese a firma di Michael Young, rimarrebbe sorpreso e spiazzato. Vedrebbe infatti che il sociologo olivettiano Cesare Mannucci definiva la “meritocrazia il contrario” della democrazia [2]. Young infatti, consacrando il lemma nel linguaggio politico occidentale, aveva raffigurato la meritocrazia, in un romanzo sociologico distopico, come una società in cui attraverso test di intelligenza la popolazione è divisa fra un élite di dirigenti e una massa di diretti, dediti ai lavori manuali e domestici, inizialmente rassegnati alla loro minorità in quanto certificata dalla scienza psicometrica. Il racconto finisce con un’insurrezione di una coalizione fra le donne dell’élite e i lavoratori assoggettati, all’insegna della valorizzazione dei meriti differenti da quelli produttivisti, come ad esempio le occupazioni legate ai lavori di cura. Young infatti contestava il sistema scolastico inglese basato su un test di intelligenza ad undici anni, che, a prescindere dal contesto sociale di partenza, decideva i destini culturali ed esistenziali dei soggetti; l’Education Act del 1944 era stato sostenuto anche dai laburisti in quanto visto come possibilità di mettere alla pari di fronte ad un esame tutti i ragazzi a prescindere dall’estrazione sociale. L’altro obiettivo critico era il produttivismo competitivo e dirigista della tarda età fordista a cui anche i laburisti, da cui Young era fuoriuscito da sinistra, avevano ceduto. L’uguaglianza di opportunità, secondo Young, in realtà finiva per riprodurre la diseguaglianza.

E del resto durante il ciclo di contestazione fra il ’68 e il ’77, la meritocrazia è stata un bersaglio polemico topico, sia nell’ambito scolastico formativo, sia in quello del lavoro. Nel primo veniva contestata l’idea di una selettività che non tenesse conto degli ambienti sociali di provenienza e che – come insegnava Bourdieu – finiva per riprodurre le gerarchie sociali esistenti anche nei contesti in cui vigeva la scuola unica; nel secondo ambito, invece, si trattava di rifiutare un’idea di retribuzione e di trattamento dei lavoratori sulla base di criteri autoritariamente decisi dai datori di lavoro. Ma anche nel Dizionario di politica Bobbio-Matteucci (dunque un testo di matrice non certo sessantottina e anti-liberale) del 1976 (Utet), il termine meritocrazia veniva ricostruito da Lorenzo Fischer rilevandone la venatura tendenzialmente negativa, che finiva per diventare una legittimazione della diseguaglianza rispetto a cui come antidoti valevano la teoria dei bisogni marxiana e appunto le tesi di Bourdieu sulla riproduzione sociale. Ma la cosa eclatante è che ancora negli inoltrati anni Novanta lo scenario, almeno in Europa, non era cambiato: Romano Prodi [3], nell’introdurre la traduzione della Terza via di Anthony Giddens, scriveva nel 1999 che il Welfare state andava riformato ma senza finire nella meritocrazia, essendo questa un’idea neo-liberista. Lo stesso Giddens, in quel libro, era appunto ancora perplesso su quella prospettiva, che avrebbe invece abbracciato in modo deciso di lì a poco, passato il millennio.

Ma allora come è successo che il termine oggi sia considerato positivo nel dibattito politico e mediatico e nel senso comune diffuso? Il fatto è che negli Stati Uniti, già dalla sua prima ricezione, il termine inizia anche ad essere utilizzato in senso positivo, nel quadro dei primi segni di quel passaggio ad un’economia postindustriale che privilegia le competenze e ritiene necessario dinamicizzare l’offerta piuttosto che, keynesianamente, la domanda, investendo sull’impresa e sulle eccellenze [4]. È in particolare il sociologo Daniel Bell che in un impegnato saggio del 1972, Meritocracy and equality, utilizza il termine in chiave positiva, criticando l’egualitarismo che si andava affermando nel paese, con la great society johnsoniana, con gli atti affermativi e con tutto un movimento di rivendicazione sociale e razziale che sembrava come incarnarsi in Una teoria della giustizia di John Rawls. Quest’ultimo aveva sostenuto che le uniche diseguaglianze ammissibili erano quelle che apportavano un tale beneficio alla società da costituire comunque un progresso di condizione per gli ultimi e che il merito andava riconosciuto come servizio alla comunità e non come motivo per acquisire maggiore potere o privilegi. Bell invece considerava tutte queste tendenze come distruttive del Dna del liberalismo americano, che a suo avviso era caratterizzato dalla promozione dell’uguaglianza di opportunità e non di risultati. La meritocrazia veniva quindi qui non opposta al favoritismo o alle procedure di tipo ascrittivo per assegnare il potere (come essa emergeva nella tradizione della rivoluzione americana e francese sebbene in assenza del lemma), bensì all’egualitarismo degli anni Sessanta

In Europa quest’ultima accezione, come si diceva sopra, tarda ad affermarsi e bisogna aspettare la Terza via di Tony Blair che all’inizio del nuovo millennio la inserisce nell’immaginario delle stesse famiglie politiche di centrosinistra. Tramontate le idee di lotta di classe e di sfruttamento capitalistico, è messa in crisi anche quella di redistribuzione, legata al pregiudizio dell’inefficienza di uno stato che fornisce risorse a chi non può fecondarle imprenditorialmente a vantaggio di tutta la società. La giustizia sociale viene ora vista soltanto nei termini di una gara di cui vengono garantite le regole di un gioco competitivo a cui tutti devono poter partecipare. È, questa, la stessa logica dell’ordoliberismo, l’ideologia di riferimento dell’Unione europea, che va a confliggere con i principi redistributivi del costituzionalismo democratico. La meritocrazia sembrava inoltre rompere definitivamente con il mondo patriarcale e valorizzare le differenze come individuali talenti, con ciò rimuovendo proprio l’insegnamento di Young, che aveva spiegato come in realtà il dominio del merito è omologante in quanto valorizza solo determinati talenti: cioè quelli richiesti dal potere dominante, escludendo le soggettività divergenti e imponendo un modello antropologico. Oggi il modello antropologico imposto meritocraticamente è evidentemente quello aziendalistico, basato su flessibilità, adattabilità e competenze tecnologico-economiche. Il new public management, che colonizza tutte le istituzioni pubbliche, tende ora a riprodurre anche nella scuola, negli ospedali, nelle università, nelle forze dell’ordine, un clima “concorrenziale”, in cui i soggetti sono sottoposti a processi di qualità attraverso una continua valutazione volta a misurarne la performatività e accountability sulla base di parametri modellati sulle esigenze produttivistiche e di profitto [5].

Nel nuovo millennio la meritocrazia è diventata un mantra del discorso pubblico europeo, una sorta di teodicea del turbocapitalismo. Ma è facile registrare come ogni discorso in favore della meritocrazia non sia stato pressoché mai accompagnato dall’indicazione degli strumenti per rimuovere gli ostacoli affinché vi siano pari opportunità fra i soggetti; né tanto meno veniva precisato come, una volta espletata la gara (seppure iniziata da blocchi di partenza a pari livello per tutti), si pensava di tutelare i “perdenti” e soddisfare i loro bisogni e la loro aspirazione di realizzazione umana. In realtà l’enfasi sul merito è legata all’idea neo-liberale secondo cui investire sui più ricchi premia tutta la società con il trikle down. In quest’ordine del discorso i dispositivi di redistribuzione sono da limitare in quanto dissipatori di risorse che vengono tolte a chi può investire in direzione di chi non è in grado di farlo. Negli Stati Uniti, il famigerato The bell curve [6], in cui si afferma che è inutile sostenere economicamente determinate etnie dato che esse poi non restituiranno mai alla società l’aiuto ottenuto, radicalizza questo modo di vedere. Su un piano più compatibile con visioni illuminato-progressiste la tematica meritocratica legittima le politiche pubbliche a privilegiare la promozione delle esigenze delle élite, viste come eccellenze capaci di migliorare l’intera società, peggiorando in realtà le condizioni economiche e sociali di una massa di persone, magari senza talento secondo il modello dominante. Negli stessi Stati Uniti il sistema di testing per accedere ai college, che in origine doveva – come l’eleven plus inglese – mettere tutti sullo stesso livello a prescindere dall’estrazione di classe ed etnica, ha finito per rinforzare sempre di più l’élite tradizionale bianca protestante, integrata con eccellenze di diversa provenienza socio-culturale, distruggendo letteralmente il ceto medio, base tradizionale della democrazia americana [7].

Negli ultimi anni sono emerse anche voci discordanti nel pensiero critico, che hanno messo in discussione la compatibilità fra democrazia e meritocrazia, tornando alla matrice storica della parola [8]. Specie dopo la crisi economica del 2008 si è assunta la consapevolezza di come la finanziarizzazione renda non proporzionale l’aumento dei profitti con quello dell’occupazione e dei servizi sociali finanziati dalla fiscalità. La meritocrazia, che tende a far ritenere i ricchi come meritevoli e i poveri come immeritevoli, viene ora di nuovo vista anche come legittimazione della diseguaglianza. Nel suo ultimo libro Thomas Piketty spiega bene come sia potuto succedere che il lemma abbia assunto una valenza positiva: si tratta infatti di giustificare la riapertura della forbice delle diseguaglianze, ma in un contesto giuridico in cui è tutelata l’uguaglianza dei diritti [9]. La stessa analisi aveva fatto anche Papa Francesco, in un discorso all’Ilva di Genova nel 2017: la meritocrazia colpevolizza il povero come demeritevole e deresponsabilizza il ricco nei suoi confronti, con la conseguente “legittimazione etica della diseguaglianza” e la considerazione del talento non come un dono, ma come un motivo per primeggiare sugli altri. Il securitarismo e il populismo penale dilagato nel nuovo millennio attinge alla stessa logica profonda.

Anche la rivolta neo-populista contro le élite neoliberali si è mostrata del resto tributaria di un primato del mercato che tende soltanto a rivendicare la protezione del capitale nazionale rispetto a quello internazionale: Victor Orban, ad esempio, nel suo discorso di Chatham House a Londra nel 2013, sostenendo l’obsolescenza dello stato sociale, precisa che bisogna andare ad una società in cui il merito sostituisca il diritto. Neoliberali e neopopulisti sono infatti accomunati dalla critica verso le élite politiche che redistribuiscono risorse in nome di interessi corporativi non legati alle reali esigenze dei ceti veramente produttivi. E in quest’ultimo senso, rifiutando la logica di classe, sia i neoliberali che i neopopulisti sono sensibili ad un’idea di giustizia di tipo individualistico e meritocratico, talvolta mitigato da contrappesi conservatori e/o identitari.

 

Note:

[1] Questo testo sarà pubblicato a fine luglio anche in Drago, T. e Scandurra, E. (a cura di), Contronarrazioni. Per una critica sociale delle narrazioni tossiche, Roma, Castelvecchi, 2021. Ringraziamo i curatori e l’editore per la gentile concessione.

[2] Mannucci, C., Prefazione a Young, M., L’avvento della meritocrazia (ed. or. 1958), Edizioni di Comunità, Milano 1962, pp. 11-23.

[3] La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia (ed. or. 1998), Milano, Il saggiatore, 1999, p. 10.

[4] Brigati, R., Il giusto a chi va. Filosofia del merito e della meritocrazia, Bologna, Il mulino, 2015, p. 33.

[5] Su ciò cfr. Chicchi, F., Simone, A., La società della prestazione, Roma, Ediesse, 2017; Pinto, V., Valutare e punire, Napoli, Cronopio, 2019, II ediz. Integrata; Boarelli, M., op.cit.

[6] Herrnestein, R.J. e Murray, S., The bell curve. Intelligence and class structure in American life, The free press, New York, 1994.

[7] Su ciò cfr. Lemann, N., The big test. The secret history of American meritocracy, Ferrar, Straus and Giroux, New York, 1999; MacNamee, S.J., Miller, R.K. (2004), The meritocracy mith, Rowman & Littlefield publisher, Lanham (Maryland), 2004; Markovitz, D., The meritocracy trap, Penguin, New York, 2019; Sandel, M.J.,The tyranny of merit. What’s become of the common good?, Farrar, Straus and Giroux, New York, 2020 (La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti), Milano, Feltrinelli, 2021, traduzione di Del Bò, C. e Marchiafava, E.).

[8] Oltre ai testi citati nella nota precedente e alla nota 3, Littler, J., Against meritocracy. Culture, power and myte of mobility, Routledge, Abington (GB); Guilbaud, D., L’illusion meritocratique, Odile Jacob, Paris, 2018; Boarelli, M., Contro l’ideologia del merito, Roma-Bari, Laterza, 2019; Durut-Bellat, Le mérite contre la justice, Nouvelle edition, Paris (II ediz.); Cingari, S., La meritocrazia, Roma, Ediesse, 2020. In quest’ultimo testo approfondisco e sviluppo i contenuti del saggio presente.

[9] Piketty, T., Capital et idéologie, Ed. du Seuil, Paris, pp. 825-829.

23/04/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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