Questo è il titolo dell’ultima enciclica di Jorge M. Bergoglio, il 266° papa della Chiesa cattolica ed ex padre provinciale del Collegio massimo dei gesuiti, che è stato sempre ostile alla Teologia della liberazione, per il semplice fatto che quest’ultima si proponeva di tradurre il messaggio evangelico in concrete istituzioni politico-sociali, prefigurando così un radicale cambiamento del sistema capitalistico. E ciò in linea con la posizione politica dominante nella Chiesa cattolica, che per esempio nel XIV secolo represse il movimento dei francescani spirituali, sostenitori della regola della povertà assoluta, in contrasto con i cosiddetti conventuali assai più moderati. Questo è bene ricordarlo quando si cerca di collocare politicamente il pensiero del papa, certamente attaccato o criticato da destra, per esempio, dal cardinale Camillo Ruini, il quale in un’intervista al Corriere della sera dichiara che alcuni dei valori storici della chiesa, come la difesa della vita e della famiglia, “fanno assai meno parte di prima dell’agenda politica del Vaticano”. Si vedano le recenti dichiarazioni di Bergoglio sul diritto degli omosessuali a una famiglia.
Questo giudizio del noto cardinale documenta il fatto che, come diceva Antonio Gramsci, nella Chiesa cattolica convivono anche in maniera conflittuale concezioni religiose diverse, e questa convivenza è indispensabile perché essa pretende rivolgersi al mondo e a tutte le classi sociali. E in virtù di questa sua natura interclassista, quando assume posizioni critiche nei confronti del sistema capitalistico, non può evitare di ricorrere e di limitarsi, a un approccio etico-morale con forti connotati universalistici.
Come dimostra Roberto Fineschi, questo approccio è presente anche nella recente enciclica “Fratelli tutti”, rivelandone la natura non rivoluzionaria e in linea con la tradizione cattolica che, contro il liberismo, propone il modello di uno Stato paternalistico e corporativo. Nell’Enciclica, che ha fatto arrabbiare il gruppo “le Donne per la Chiesa”, per l’uso del maschile (fratelli e non anche sorelle), si auspica l’instaurazione di una fratellanza universale.
A noi però tocca il compito di chiarire che la rivendicazione della fratellanza umana non può limitarsi a una dichiarazione di principio, ma deve essere il risultato di cambiamenti effettivi e radicali del modo di produzione e di distribuzione della ricchezza socialmente prodotta.
Ciò non significa negare il carattere umanistico e solidaristico dello scritto in questione, bensì riportarlo alla sua reale ispirazione, che risiede in un appello a valori i quali, per quanto ampiamente condivisibili in quanto tali, non hanno di per sé la forza di cambiare nemmeno di una virgola il reale stato delle cose.
La dottrina sociale della Chiesa nasce, storicamente, in contrapposizione ai movimenti socialisti. Nonostante i vari tentativi di adeguarsi allo sviluppo del mondo capitalistico e alle crescenti diseguaglianze che ne costituiscono l'essenza e il risultato – e qui si potrebbero citare molti esempi a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II – la Chiesa cattolica non è mai stata in grado di compiere una decisa scelta di campo: il suo atteggiamento si potrebbe definire un riformismo equanime e cauto, che fa appello a una “umanità” data come già esistente sulla base di un assunto teologico, vale a dire la comune appartenenza degli uomini a una dimensione trascendente che li rende “fratelli tutti” perché tutti figli di Dio.
Ma questa prospettiva unificante sul piano metafisico non ha impedito alla Chiesa di stipulare concordati con il fascismo e il nazismo o di appoggiare, più o meno esplicitamente, regimi sanguinari e oppressivi come quello di Augusto Pinochet e della dittatura militare argentina, per citare solo due esempi fra i più clamorosi. E non mi sembra che nessun papa abbia mai chiesto perdono per tali scelte, anche se crediamo che chiedere perdono non sarebbe certo sufficiente.
La storica Anna Foa proprio in questi giorni (il 16 ottobre è stato l’anniversario del rastrellamento degli ebrei romani) ha ricordato che il Vaticano, informato di quanto stava avvenendo, entrò in contatto con l’ambasciata tedesca a Roma, chiedendo che i catturati, tra i quali vi erano 200 bambini, non venissero uccisi ma inviati ai campi di lavoro.
Alcuni hanno addirittura sostenuto che sono disponibili documenti che mostrerebbero il coinvolgimento dello stesso Bergoglio nella vicenda di due sacerdoti argentini sequestrati al tempo della dittatura; tuttavia, a loro parere, sembrerebbe che l’attuale papa non fosse un collaboratore diretto del regime, ma la sua mancata aperta opposizione di fatto finiva con il legittimarlo.
La Chiesa, ancora oggi una monarchia divina, è lenta e prudente, ha impiegato più di quattrocento anni per riconoscere, e con molte sottili precisazioni, di aver esagerato – per usare un eufemismo – nei confronti di Galileo, ma ancora non pensa di riabilitare Giordano Bruno.
D’altra parte, papa Wojtyla, nemmeno moltissimo tempo fa, rifiutò di abbracciare il nicaraguense teologo della liberazione Ernesto Cardenal, colpevole di posizioni eterodosse non sul piano teologico, ma politico. E quel papa, deciso oppositore delle democrazie popolari nell’est europeo, è stato proclamato santo a furor di popolo.
Insomma, eguaglianza e umanitarismo sì, ma solo come effetto di una conversione spirituale e non di lotte per l’emancipazione. A noi non sembra una posizione che porti lontano. Anzi ci appare come una sorta di appello perché tutto cambi senza cambiare nulla. L’universalismo cattolico senza la lotta di classe serve a poco. E se riprende la lotta di classe, allora non serve più. Tuttavia, in quest’ultimo caso, con questa enciclica la chiesa si ripropone come mediatrice del conflitto, ruolo che sempre cerca di mantenere in tutte le controversie nazionali e internazionali e che le consentono di restare alla ribalta.
Concludendo queste osservazioni, notiamo che pressoché sempre, quando si tratta di fare una scelta importante e di introdurre un’innovazione, la risposta della chiesa è di natura reazionaria. Sul finire dell’Ottocento, quando le stesse scienze cominciavano a rimettere in discussione i loro fondamenti, ponendo termine all’età d’oro della certezza, Pio IX emanò il dogma dell’infallibilità papale per mettere al riparo l’autorità della chiesa dagli attacchi del pensiero laico e critico.