Un libro sulla Casa del Popolo di Ponticelli

Un libro ripercorre la storia della Casa del popolo di Ponticelli, quartiere popolare napoletano, dalle pratiche mutualistiche operaie dei suoi inizi fino al suo divenire luogo di arricchimento culturale, partecipazione politica e lotta sociale.


Un libro sulla Casa del Popolo di Ponticelli

Ripercorrere la storia dell’area orientale di Napoli, cioè di quella parte di città che comprende i quartieri di Barra, Gianturco, Poggioreale, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio, vuol dire ripercorrere la storia dell’ascesa e della crisi del movimento operaio locale, con le sue organizzazioni, le sue pratiche e, naturalmente, le sue conquiste ed errori. Non scarseggiano gli strumenti utili a una ricostruzione di questo tipo, tanto di ampio respiro e in grado di cogliere le caratteristiche del declino industriale della zona (per citare solo i contributi più recenti, piace ricordare i lavori di un giovane storico quale Valerio Caruso) quanto maggiormente focalizzati sull’evoluzione dei singoli territori, come nel caso di Ponticelli, che ha potuto contare sull’impegno di un suo conoscitore profondo come Luigi Verolino e dell’associazione “il Quartiere ponticelli” per i due volumi di una Storia di Ponticelli che va dalle origini alla proclamazione della Repubblica italiana. [1]

Entra a pieno titolo in questo insieme di studi il lavoro che Antonio Borrelli, bibliotecario ed esperto di storia della scienza, ha dedicato alla Casa del Popolo di Ponticelli, autentica istituzione della sinistra napoletana. Borrelli si era già occupato del suo quartiere, ragionando per esempio dello sfaldamento del tessuto sociale e dell’incapacità di tenuta delle antiche forme di solidarietà popolare a partire dall’espulsione violenta della comunità rom nel 2008 (I roghi di Ponticelli. La “questione rom” in un quartiere di Napoli, Napoli, Liguori, 2013); ora, nella monografia Tra comunità e società, licenziata per la casa editrice dell’Università Federico II e come tale consultabile gratuitamente online, [2]  traccia le origini e le forme storiche di quella stessa solidarietà, soffermandosi su un’esperienza sociale che, se da un lato affonda le radici nella tradizione socialista e comunista nazionale (le case del popolo nascono e si moltiplicano rapidamente al Centro-Nord), dall’altro innova quella stessa tradizione, calandola nella specificità di un quartiere di grandi dimensioni e in un rapporto complesso con il centro del capoluogo, in cui viene inglobato nel 1926.

Borrelli esordisce ricordando che il passato di Ponticelli è segnato da pratiche mutualistiche, giacché prime società di mutuo soccorso degli operai e dei lavoratori agricoli nascono già sul finire dell’Ottocento. Le società operaie si preoccupano di organizzare sussidi per le cure mediche e pensioni di vecchiaia ai propri soci: in un’epoca in cui lo Stato sociale è ancora idea lontana, tali forme di previdenza auto-organizzata sono la prima garanzia, assieme all’assistenzialismo cattolico, di protezione economica delle fasce sociali più deboli. Sin da allora si afferma un dualismo tra componente laica e religiosa del sostegno al mondo del lavoro, e per molto tempo un forte attivismo della Chiesa risponde a quello di partiti o gruppi d’ispirazione socialista. 

Dopo gli anni bui del fascismo, che aveva trovato qui un alleato strategico proprio nel clero, Ponticelli diventa rapidamente una roccaforte del Partito comunista. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta si contano addirittura sette sezioni con centinaia di iscritti, tanto che viene a crearsi, come scrive Borrelli, «una vera e propria subcultura “rossa”», forse persino nociva dal momento che il Pci si ritrovò ad avere «rapporti difficili con gli altri partiti, in particolare con il Psi, e soprattutto ad addossarsi “colpe e meriti per tutto quello che si realizzava o non si realizzava nel quartiere”» (pp. 52-53). Un quartiere saldamente a sinistra, la cui estrazione operaia agevola il radicamento dei comunisti, ma che non si isola dal dibattito culturale che anima il resto della città. Nel dopoguerra, cioè nel periodo in cui numerose associazioni traghettano la cultura partenopea fuori dal provincialismo fascista, Napoli si “biforca”, con il Pci e il sapere universitario da una parte e le avanguardie artistiche e letterarie dall’altra; eppure, è proprio a Ponticelli che si determinano alcune delle commistioni più stimolanti di filoni di pensiero e pratiche culturali. Se l’Associazione “Leonardo da Vinci”, precoce espressione di un nuovo fermento intellettuale, organizza conferenze interdisciplinari tenute da soci che ambiscono a una formazione integrale dell’uomo, è la Casa del Popolo, nata nel 1955 ma entrata a pieno regime solo dopo la ristrutturazione (resa possibile dagli sforzi anche fisici di tanti lavoratori e lavoratrici) del ’74, a cercare di integrare la ricerca artistica con la vita quotidiana di pensionati, operaie, ragazze e ragazzi che abitano l’area orientale.

Nonostante la ricerca si sia rivelata più ardua del previsto, data la “pressoché totale dispersione dei documenti” e “una certa ritrosia dei protagonisti superstiti a rilasciare interviste (p. 15), la cronistoria di Borrelli e il ricco apparato di documenti e fotoriproduzioni di manifesti in appendice restituiscono tutta la ricchezza e la novità rappresentate da questa esperienza politica, culturale e sociale a un tempo, il cui successo è legato a più fattori. Il primo, per nulla sottovalutabile, è la convergenza di forze tra giovani cattolici di sinistra e militanti comunisti. Bisogna dire che a Ponticelli il cattolicesimo di base entra in un contatto virtuoso con il Pci: da un lato, il movimento dei “cristiani per il socialismo” segna una distanza dalle gerarchie ecclesiastiche napoletane, vicine al potentato di Gava; dall’altro, il partito mostra grande attenzione alle richieste della gioventù cattolica, aprendosi anzitempo ad alcune questioni che entreranno nel dibattito nazionale dopo tempo, come quella ambientale.

Altrettanto importante è l’apporto degli artisti, nei nuovi ruoli di “operatori estetici” e “animatori sociali”. Da corpo separato dalla classe ne divengono motori della produzione intellettuale, arrivando a co-gestire e sviluppare progetti culturali che coinvolgono residenti di ogni fascia d’età. Faro di questi esperimenti è il Gruppo Arti Visive, che propone l’idea di un’arte diffusa, fatta di opere riproducibili, il cui valore non sta tanto negli esiti effettivi dell’operazione creativa – benché sarebbe interessante verificare quanti giovani abbiano poi assecondato questa passione iscrivendosi magari all’Accademia di Belle Arti – quanto nell’atto stesso di produrre cultura collettivamente e in luoghi diversi da quelli istituzionali. È la Casa del Popolo, negli anni Ottanta, a organizzare la grande iniziativa di Mail-Art Idea per la pace, il cui successo supera i confini cittadini, se un critico come Francesco Vincitorio la segnala come iniziativa più coraggiosa e interessante dei carrozzoni promossi dallo Stato: “in aperta polemica con la costituenda Biennale del Mediterraneo, voluta dal ministro per i Beni culturali e ambientali Vincenzo Scotti, esaltata da Maurizio Valenzi e mai realizzata, [Vincitorio] consigliava al sindaco di Napoli d’informarsi su quanto si era fatto e si stava facendo a Ponticelli” (p. 84).

Sarebbe sbagliato considerare la Casa del Popolo una “costola” della macchina organizzativa comunista, visto che sin dalla sua fondazione si mette in questione l’osmosi con il Pci e si persegue un “decentramento culturale”, ma sarebbe altrettanto cieco non riconoscere che tale realtà trae linfa vitale da un partito dinamico, vivo e presente sul territorio. Con la crisi del Partito comunista a livello nazionale e l’arrivo di migliaia di sfollati del terremoto in Irpinia a Ponticelli, che ne modifica la composizione sociale, comincia il declino della Casa. Quest’ultima ha oggi diradato le sue attività, ma resta un bene comune da proteggere, tanto più nel tessuto disgregato delle periferie napoletane, e un esempio su cui vale la pena riflettere.

È possibile imparare qualcosa da questa iniziativa? Abbozzando una proposta di rilancio Borrelli sostiene sia necessario recuperare l’impegno culturale “in un’ottica che riesca a coniugare, senza pregiudizi, cultura di massa, cultura popolare e cultura materiale” (p. 123). È uno spunto di cui tenere conto, ma che forse rischia di trascurare l’aspetto politico della questione. In questi anni di scomparsa della sinistra, specialmente di quella d’ispirazione marxista, pensare di poter intervenire nel corpo della società da un punto di vista esclusivamente culturale è rischioso, per non dire inefficace. Sarebbe forse più utile pensare, come ci hanno insegnato proprio i comunisti di Ponticelli, a modi nuovi di coniugare cultura e militanza politica, arricchimento intellettuale e lotte sociali. E in realtà, a ben pensarci, il revival delle case del popolo a cui si assiste negli ultimi tempi sembra andare in questa direzione: penso in particolare a quelle aperte dalle più recenti organizzazioni politiche di sinistra, come Potere al popolo; ma sarà anche il caso di riconoscere che nei decenni passati forme sui generis di case del popolo quali i centri sociali hanno svolto un ruolo importante nell’avvio di tante battaglie per l’ambiente, per la casa e per il reddito, organizzando nel contempo momenti di confronto e arricchimento culturale, spesso in aperta opposizione a quanto proposto dall’industria dell’intrattenimento. Si tratta, in ogni caso, di tornare a “dare forma alla solidarietà” (p. 124), come scrive Borrelli in chiusura del libro; in tempi che si prospettano sempre più bui, il bagaglio di esperienze della tradizione operaia può rivelarsi ancora indispensabile per prospettare una via d’uscita dalle molteplici crisi che investono l’esistente.

Note:

[1] Si vedano V. Caruso, Territorio e deindustrializzazione. Gli anni settanta e le origini del declino economico di Napoli est, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», 96 (2019), “Mezzogiorno a 5 stelle”, pp. 209-230; L. Verolino, Storia di Ponticelli. Dalle origini al XVI secolo, Napoli, Il quartiere, 2014, e Id., Storia di Ponticelli. Dal XVII secolo alla proclamazione della Repubblica italiana, ivi, 2017.

[2] Uscito nel 2019 nella collana «Clio. Saggi di scienze storiche, archeologiche e storico-artistiche», Tra comunità e società. La Casa del popolo e l’associazionismo nella Ponticelli del Novecento è scaricabile al seguente indirizzo: http://www.fedoabooks.unina.it/index.php/fedoapress/catalog/book/138 (verificato il 30 ottobre 2020).

14/11/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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