Internazionalismo nei Quaderni del carcere

Nei Quaderni del carcere Gramsci distingue il concetto di internazionalismo proletario tanto da quello premoderno di cosmopolitismo, anteriore alla formazione dello Stato nazionale, quanto dall’irradiazione internazionale e cosmopolita e di espansione a carattere imperialistico delle società a capitalismo avanzato.


Internazionalismo nei Quaderni del carcere

Nei Quaderni del carcere Antonio Gramsci distingue il concetto di “internazionalismo” proletario tanto da quello premoderno di cosmopolitismo, anteriore alla formazione dello Stato nazionale, quanto dall’“irradiazione internazionale e cosmopolita e di espansione a carattere imperialistico” [1] delle società a capitalismo avanzato.

A parere di Gramsci il perdurare in epoca moderna del “«cosmopolitismo» medievale legato alla Chiesa e all’Impero” (1, 150: 133) ostacola in un paese lo sviluppo della coscienza nazionale-popolare, presupposto e fondamento degli Stati nazionali, e porta un paese a subire “passivamente i rapporti internazionali” (5, 55: 589). Non a caso tutte le forze reazionarie nel mondo moderno hanno sempre tentato di “impedire la formazione di una volontà collettiva di questo genere [nazional-popolare], per mantenere il potere «economico-corporativo» in un sistema internazionale di equilibrio passivo” (13, 1: 1560), garantito per esempio dall’“internazionalismo” reazionario della Santa alleanza

Peraltro, osserva ancora dal punto di vista del materialismo storico Gramsci, “ogni formazione di volontà collettiva nazionale-popolare è impossibile se le grandi masse dei contadini coltivatori non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò intendeva il Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese, in questa comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe (più o meno fecondo) della sua concezione della rivoluzione nazionale” (13, 1: 1560). Per quanto concerne “la ragione dei successivi fallimenti dei tentativi di creare una volontà collettiva nazionale-popolare è da ricercarsi nell’esistenza di determinati gruppi sociali, che si formano dalla dissoluzione della borghesia comunale, nel particolare carattere di altri gruppi che riflettono la funzione internazionale dell’Italia come sede della Chiesa e depositaria del Sacro Romano Impero ecc. Questa funzione e la posizione conseguente determina una situazione interna che si può chiamare «economico-corporativa», cioè, politicamente, la peggiore delle forme di società feudale, la forma meno progressiva e più stagnante: mancò sempre, e non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che nelle altre nazioni ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazionale-popolare e ha fondato gli Stati moderni” (13, 1: 1559-60).

D’altra parte, a parere di Gramsci, la personalità storica “nazionale (come la personalità individuale) è una mera astrazione se considerata fuori dal nesso internazionale (o sociale)” (19, 2: 1962). Essa “esprime un «distinto» del complesso internazionale, pertanto è legata ai rapporti internazionali” (ibidem). Lo stesso vale per un intellettuale: la sua grandezza deriva dalla capacità di innalzarsi dal piano nazionale a un piano internazionale di analisi, che permette di comprendere meglio lo stesso proprio paese (cfr. 6, 86: 760) [2]. Tuttavia il piano dell’analisi internazionale se non è capace di determinarsi e concretizzarsi nell’analisi dei diversi contesti nazionali con le loro peculiarità resta astratto.

Nota è la critica di Gramsci alla “funzione internazionale e cosmopolita” e non nazional-popolare degli intellettuali italiani (cfr. 1, 150: 133), al contempo “causa ed effetto dello stato di disgregazione in cui rimane la penisola dalla caduta dell’Impero Romano al 1870” (12, 1: 1524). Dunque, “l’Italia ha una concentrazione intellettuale «internazionale», accoglie ed elabora teoricamente i riflessi della più soda e autoctona vita del mondo non italiano. Gli intellettuali italiani sono «cosmopoliti», non nazionali; anche Machiavelli nel Principe riflette la Francia, la Spagna ecc. col loro travaglio per la unificazione nazionale, più che l’Italia” (1, 150: 133).

Così, mentre altri paesi europei “acquistano coscienza nazionale e vogliono organizzare una cultura nazionale” sfaldando la cosmopoli pre-moderna, l’Italia “perde la sua funzione di centro internazionale di cultura, non si nazionalizza per sé, ma i suoi intellettuali continuano la funzione cosmopolita, staccandosi dal territorio e sciamando all’estero” (5, 100: 629) [3]. Il cosmopolitismo non è, quindi, considerabile una risposta progressiva alla frammentazione ancora medievale dell’Italia, in quanto ne costituisce piuttosto un riflesso teorico, sul piano delle sovrastrutture

Dunque, mentre il cosmopolitismo è antecedente lo sviluppo della coscienza nazionale (cfr. 3, 80: 360), l’internazionalismo sorge solo in presenza di essa, quale suo superamento dialettico. Proprio al contrario “l’Italia ebbe per molti secoli una funzione internazionale-europea. Gli intellettuali e gli specialisti italiani erano cosmopoliti e non italiani, non nazionali. Uomini di Stato, capitani, ammiragli, scienziati, navigatori italiani non avevano un carattere nazionale ma cosmopolita. Non so perché questo debba diminuire la loro grandezza o menomare la storia italiana, che è stata quello che è stata, non la fantasia dei poeti o la retorica dei declamatori: avere una funzione europea, ecco il carattere del «genio» italiano dal Quattrocento alla rivoluzione francese” (3, 80: 360). Dunque, al mancato sviluppo nazionale dal punto di vista politico cerca vanamente di supplire lo sciovinismo culturale che esalta il ruolo degli intellettuali italiani nel mondo, dimenticando che il loro operare non contribuisce, ma ostacola il sorgere d’una coscienza nazionale.

In paesi in cui non è si è sviluppata la coscienza nazionale-popolare, l’internazionalismo tende a diffondersi nella forma di uno “spirito vasto di fratellanza” (8, 36: 963) che porta intellettuali tradizionali ad avvicinarsi al socialismo [4], ma non in grado di emanciparsi dal “vago «cosmopolitismo» legato a elementi storici ben precisabili: al cosmopolitismo e universalismo medioevale” (3, 46: 325). Dunque se una concezione internazionalista non è in grado di determinarsi, concretizzandosi in un contesto nazionale, è destinata a rimanere astratta.

 

Note:

[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 1524. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione. 

[2] Come esemplifica acutamente a tal proposito Gramsci: Guicciardini segna un passo indietro nella scienza politica di fronte al Machiavelli. Il maggiore «pessimismo» del Guicciardini significa solo questo. Il Guicciardini ritorna a un pensiero politico puramente italiano, mentre il Machiavelli si era innalzato a un pensiero europeo. Non si comprende il Machiavelli se non si tiene conto che egli supera l’esperienza italiana nell’esperienza europea (internazionale in quell’epoca): la sua «volontà» sarebbe utopistica e senza l’esperienza europea. La stessa concezione della «natura umana» diventa per questo fatto diversa nei due. Nella «natura umana» del Machiavelli è compreso l’«uomo europeo» e questo uomo in Francia e in Ispagna ha effettualmente superato la fase feudale [disgregata] nella monarchia assoluta: dunque non è la «natura umana» che si oppone a che in Italia sorga una monarchia assoluta unitaria, ma condizioni transitorie che la volontà può superare. Il Machiavelli è «pessimista» (o meglio «realista») nel considerare gli uomini e i moventi del loro operare; il Guicciardini non è pessimista, ma scettico e gretto” (6, 86: 760).

[3] “Un altro aspetto della funzione cosmopolita degli intellettuali italiani da studiare, o almeno da accennare, è quella svolta in Italia stessa, attirando studenti alle Università e studiosi che volevano perfezionarsi. In questo fenomeno di immigrazione di intellettuali stranieri in Italia occorre distinguere due aspetti: immigrazione per vedere l’Italia come territorio-museo della storia passata, che è stata permanente e dura ancora con ampiezza maggiore o minore secondo le epoche, e immigrazione per assimilare la cultura vivente sotto la guida degli intellettuali italiani viventi; è questa seconda che interessa per la ricerca in quistione. Come e perché avviene che a un certo punto sono gli italiani ad emigrare all’estero e non gli stranieri a venire in Italia? (con eccezione relativa per gli intellettuali ecclesiastici, il cui insegnamento in Italia continua ad attirare discepoli in Italia fino ad oggi; in questo caso occorre però tener presente che il centro romano è andatosi relativamente internazionalizzando). Questo punto storico è di massima importanza” (5, 100: 629).

[4] Come osserva, a tal proposito, acutamente Gramsci: “tra i due periodi è da porre il periodo intermedio – 90-900 – in cui una massa di intellettuali passa nei partiti di sinistra, così detti socialistici, ma in realtà puramente democratici. Guglielmo Ferrero nel suo opuscolo Reazione (Torino, Roux edit., 1895) così rappresenta il movimento degli intellettuali italiani degli anni novanta (…): «C’è sempre un certo numero di individui che hanno bisogno di appassionarsi per qualche cosa di non immediato, di non personale e di lontano; a cui la cerchia dei propri affari, della scienza, dell’arte, non basta per esaurire tutta l’attività dello spirito. Che rimaneva a costoro in Italia se non l’idea socialista? Veniva da lontano, ciò che seduce sempre; era abbastanza complessa ed abbastanza vaga, almeno in certe sue parti, per soddisfare ai bisogni morali così differenti dei molti proseliti; da un lato portava uno spirito vasto di fratellanza e di internazionalismo, che corrisponde ad un reale bisogno moderno; dall’altro era improntata a un metodo scientifico che rassicurava gli spiriti educati alle scuole sperimentali»” (8, 36: 963).

26/11/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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