Internazionalismo e cosmopolitismo in Gramsci

Mentre le grandi potenze, proprio in quanto hanno una politica interna che determina quella estera, serbano per questo una relativa autonomia internazionale, per gli Stati più deboli, al contrario, sarà più problematico fissare una propria linea di condotta autonoma sia sul piano internazionale che su quello nazionale.


Internazionalismo e cosmopolitismo in Gramsci

L’internazionalismo cosmopolita è correlato da Antonio Gramsci al concetto di “sovversivismo” delle classi popolari e denota, nel caso italiano, una forma di sciovinismo culturale che supplisce al mancato sviluppo della nazione dal punto di vista politico [1]. Esso è sostanzialmente innocuo per il potere costituito in quanto è caratterizzato da un’inadeguata coscienza di classe e da una scarsa comprensione della natura dello Stato, in mancanza delle quali, a parere di Gramsci, non si può essere “internazionalista, nel senso moderno della parola” (3, 46: 326). 

Più in generale, Gramsci fa notare come lo Stato non è compreso nella sua “forma concreta di mondo produttivo” proprio nei Paesi in cui “la spinta del progresso non è strettamente legata a un vasto sviluppo economico locale (…), ma è il riflesso dello sviluppo internazionale che manda alla periferia le sue correnti ideologiche, nate sulla base dello sviluppo produttivo dei Paesi più progrediti” (10, 61: 1360-361). In Tali realtà maggiormente arretrate si tende a considerare lo Stato “come una cosa a sé, come un assoluto razionale” (ivi: 1361) e non come una forma di dominio-egemonia politica della classe che monopolizza i mezzi di produzione [2].

Una valida e proficua dialettica fra il piano nazionale e il piano internazionale si ha, per esempio, con la religione, che “è sempre stata una fonte di tali combinazioni ideologico-politiche nazionali e internazionali, e con la religione le altre formazioni internazionali, la massoneria, il Rotary Club, gli ebrei, la diplomazia di carriera che suggeriscono espedienti politici di origine storica diversa e li fanno trionfare in determinati Paesi, funzionando come partito politico internazionale che opera in ogni nazione con tutte le sue forze internazionali concentrate; ma religione, massoneria, Rotary, ebrei ecc., possono rientrare nella categoria sociale degli ‘intellettuali’, la cui funzione, su scala internazionale, è quella di mediare gli estremi, di ‘socializzare’ i ritrovati tecnici che fanno funzionare ogni attività di direzione, di escogitare compromessi e vie d’uscita tra le soluzioni estreme” (13, 17, 1585) [3]. Una tale funzione è svolta esemplarmente nel contesto italiano da Benedetto Croce. Come osserva a tal proposito Gramsci: “l’atteggiamento pratico del Croce è un elemento per l’analisi e la critica del suo atteggiamento filosofico: [ne] è anzi l’elemento fondamentale: nel Croce filosofia e ‘ideologia’ finalmente si identificano, anche la filosofia si mostra niente altro che uno 'strumento pratico' di organizzazione e di azione: di organizzazione di un partito, anzi di una internazionale di partiti, e di una linea di azione pratica. Il discorso di Croce al Congresso di filosofia di Oxford è in realtà un manifesto politico, di una unione internazionale dei grandi intellettuali di ogni nazione, specialmente dell’Europa; e non si può negare che questo possa diventare un partito importante che può avere una funzione non piccola” (6, 10: 690).

D’altra parte, lo sviluppo del mercato mondiale ha un fondamento contraddittorio: da un lato “l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo” (15, 5: 1756) del capitale, dall’altro lo sviluppo degli Stati nazionali. Le grandi potenze, proprio in quanto hanno “una politica interna che determina quella estera”, serbano una relativa autonomia internazionale” (8, 141: 1028), mentre nei Paesi deboli avverrà il contrario. 

Del resto, la politica di potenza dei grandi Stati e la funzione egemonica spesso conseguente rende “problematica (…) la libertà di fissare la propria linea di condotta, di moltissimi Stati” (6, 7: 687) non solo sul piano internazionale, ma anche su quello nazionale. Tale problematica tende ad aggravarsi con lo sviluppo della crisi economica dei Paesi capitalisti. In effetti, come la crisi trova una parziale e momentanea composizione nel processo di centralizzazione e concentrazione dell’apparato produttivo, sul piano politico essa impone la creazione di alleanze sotto l’egemonia di una grande potenza. Perciò, solo uno Stato dominante e capace di egemonia a livello internazionale è realmente indipendente sul piano nazionale, poiché avrà la possibilità di autodeterminare la propria linea politica, in quanto “determina la volontà altrui e non ne è determinato” (13, 32: 1629). Ogni analisi della politica nazionale di un Paese non potrà, dunque, prescindere dai rapporti di forza internazionali, ovvero dalla posizione occupata in un sistema egemonico che rende più o meno effettiva la sovranità nazionale, più o meno reale il principio di autodeterminazione di popoli e nazioni.

Dunque, se in generale “la vita concreta degli Stati è fondamentalmente vita internazionale”, nel caso di compagini statuali piccole o deboli la loro storia è più “internazionale” che “nazionale” (1, 138: 126). Ciò farà sì che nei Paesi subordinati privi di autonomia internazionale, la diplomazia sarà “superiore alla politica creativa”, ponendosi quale “sola politica creativa” (6, 89: 765), che permette di conseguire dei relativi successi “nonostante la debolezza relativa politica-militare: non è la diplomazia italiana che vince come tale, ma si tratta di abilità nel saper trarre partito dall’equilibrio delle forze internazionali: è un’abilità subalterna, tuttavia fruttuosa” (6, 89: 766). In altri termini, “non si è forti per sé, ma nessun sistema internazionale sarebbe il più forte senza l’Italia” (ibidem).

 

Note:

[1] Nota ancora, a tal riguardo, Gramsci: “un altro elemento da esaminare è il così detto 'internazionalismo' del popolo italiano. (…) per l’assenza di una 'storia politica e nazionale' italiana. Scarso spirito nazionale e statale in senso moderno. Altrove ho notato che è però esistito ed esiste un particolare sciovinismo italiano, più diffuso di quanto non pare. Le due osservazioni non sono contraddittorie: in Italia l’unità politica, territoriale, nazionale ha una scarsa tradizione (o forse nessuna tradizione), perché prima del 1870 l’Italia non è mai stata un corpo unito e anche il nome Italia, che al tempo dei Romani indicava l’Italia meridionale e centrale fino alla Magra e al Rubicone, nel Medioevo perdette terreno di fronte al nome Longobardia (vedere lo studio di C. Cipolla sul nome 'Italia' pubblicato negli Atti dell’Accademia di Torino). L’Italia ebbe [e conservò] però una tradizione culturale che non risale all’antichità classica, ma al periodo dal Trecento al Seicento e che fu ricollegata all’età classica dall’Umanesimo e dal Rinascimento. Questa unità culturale fu la base molto debole invero del Risorgimento e dell’unità per accentrare intorno alla borghesia gli strati più attivi e intelligenti della popolazione, ed è ancora il sostrato del nazionalismo popolare: per l’assenza in questo sentimento dell’elemento politico-militare e politico-economico, cioè degli elementi che sono alla base della psicologia nazionalista francese o tedesca o americana, avviene che molti così detti 'sovversivi' e 'internazionalisti' siano 'sciovinisti' in questo senso, senza credere di essere in contraddizione. Ciò che è da notarsi, per capire la virulenza che assume talvolta questo sciovinismo culturale, è questo: che in Italia una maggior fioritura scientifica, artistica, letteraria ha coinciso col periodo di decadenza politica, militare, statale (Cinquecento-Seicento). (Spiegare questo fenomeno: cultura aulica, cortigiana, cioè quando la borghesia dei comuni era in decadenza, e la ricchezza da produttiva era diventata usuraria, con concentrazioni di 'lusso', preludio alla completa decadenza economica)” Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, pp. 325-26. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.

[2] In tali contesti, come nota acutamente Gramsci, “lo Stato è concepito sì come organismo proprio di un gruppo, destinato a creare le condizioni favorevoli alla massima espansione del gruppo stesso, ma questo sviluppo e questa espansione sono concepiti e presentati come la forza motrice di una espansione universale, di uno sviluppo di tutte le energie 'nazionali', cioè il gruppo dominante viene coordinato concretamente con gli interessi generali dei gruppi subordinati e la vita statale viene concepita come un continuo formarsi e superarsi di equilibri instabili (nell’ambito della legge) tra gli interessi del gruppo fondamentale e quelli dei gruppi subordinati, equilibri in cui gli interessi del gruppo dominante prevalgono ma fino a un certo punto, non cioè fino al gretto interesse economico-corporativo” (13, 17: 1584). Peraltro, in Paesi come l’Italia, il personale dirigente, gli intellettuali, non essendo ancorati “fortemente a un forte gruppo economico”, s’illudono, al contempo, dell’universalità della propria funzione.

[3] Su tali problematiche Gramsci riporta un lungo brano di Alessandro Mariani: “la Chiesa cattolica è 'la più possente forza conservatrice governante sotto la specie del divino, salvezza ultima ove la decadenza dei valori mette a repentaglio la struttura sociale'. L’Internazionale rossa è 'deviazione dell’ideologia cristiana', è attiva dovunque, ma specialmente ove una società economica abbia preso sviluppo secondo il metro dell’Occidente. Sovvertitrice di valori, è forza rivoluzionaria ed espansiva. Nega l’ordine, l’autorità, la gerarchia in quantoché costituiti, ma obbedisce all’ordine proprio, più ferreo ed imperioso dell’antico per necessità di conquista. Nega il divino, disconosce lo Spirito, ma ad esso inconsciamente ed ineluttabilmente obbedisce affermando un’inesausta sete di giustizia pur sotto il fallace miraggio dell’Utopia. Vuol riconoscere soltanto i valori materiali e gli interessi, ma obbedisce inconsapevolmente ai più profondi impulsi spirituali ed agli istinti che hanno le più profonde radici nell’anima umana. È mistica. È assoluta. È spietata. È religione, è dogma. Altrettanto è pieghevole nella trattazione degli affari quanto intransigente nell’ideologia. Relazione di mezzo a fine. È politica'. 'Come la Chiesa, è sussidiata dai credenti ed alimentata da un servizio d’informazioni mondiale. L’intelligenza di tutte le nazioni è al suo servizio; tutte le risorse degli innumerevoli insoddisfatti che aguzzano l’ingegno verso la possibilità di un loro migliore domani. Come tutte le società umane ha le sue aristocrazie'. Come la Chiesa dice a tutti i popoli la stessa parola, tradotta in tutte le favelle. Il suo potere eversivo è sotterraneo. Mina la costruzione sociale dalle fondamenta. La sua politica manca di tradizione; non di intelligenza, di abilità, di pieghevolezza, sostenute da una ferma determinazione. Trattare con essa o combatterla può essere avvedutezza o errore, a seconda delle contingenze della politica. Non considerarla o rifiutarsi di considerarla è stoltezza'” (2, 49: 203-04).

24/12/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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