Intellettuali e masse in Gramsci

Come mostra Gramsci, la filosofia della praxis, cioè il marxismo, ha dato prioritaria rispetto a un nuovo Rinascimento, ovvero alla formazione di una concezione del mondo per i propri intellettuali, a una novella riforma in grado di divenire senso comune in larghi strati delle masse popolari.


Intellettuali e masse in Gramsci

L’intellettuale tradizionale si illude della neutralità del sapere di cui è portatore, crede necessario preservare l’autonomia della propria funzione dai bisogni reali delle masse. Tale mancanza di espansività è dovuta a una concezione del mondo volta a mantenere il controllo ideologico su masse considerate come perennemente bambine. Il carattere immediatamente pratico, particolaristico della concezione del mondo dei gruppi dominanti si rivela nel suo manifestarsi nelle masse “come fanatismo e superstizione, come motivo ideologico proprio di una massa servile” [1]

In tal modo, però, gli intellettuali della classe dirigente e gli intellettuali tradizionali che sono parte del blocco sociale dominante tendono a sottovalutare il ruolo decisivo che le masse, acquisendo una qualche coscienza di classe, possono giocare nella storia. Gramsci osserva a tal proposito, con degli emblematici esempi, “come Giolitti non comprese quale mutamento aveva portato nel meccanismo della vita politica italiana l’ingresso delle grandi masse popolari, così Croce non capì, praticamente, quale potente influsso culturale (nel senso di modificare i quadri direttivi intellettuali) avrebbero avuto le passioni immediate di queste masse” (779-80) [2]. Del resto gli intellettuali organici alla classe dominante o gli intellettuali tradizionali che in essa si identificano, sviluppano una concezione propria di élites che rifiutano ogni legame organico con le masse, ogni “solidarietà democratica tra intellettuali-dirigenti e masse popolari” (2213). Così ogni conquista ottenuta per merito della sola classe dirigente è ambigua, dal momento che la sua “funzione storica, è quello di dirigere le masse popolari e svilupparne gli elementi progressivi; se la classe colta non è stata capace di adempiere alla sua funzione, non deve parlarsi di merito, ma di demerito, cioè di immaturità e debolezza intima” (2053). 

Del resto, come denuncia Gramsci, l’intellettuale che nel mondo moderno è staccato dalle masse, è in realtà un pedante che pretende “che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere)” (2213). Tuttavia, solo abdicando a questa concezione di casta o sacerdotale l’intellettuale può divenire reale artefice della “politica-storia”, legandosi organicamente alla massa del “popolo-nazione” (1505). Solo allora, osserva ancora a tal proposito Gramsci, il rapporto fra intellettuali e masse “è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita d’insieme che sola è la forza sociale, si crea il «blocco storico»” (1505-506). Solo allora, immergendosi nella vita pratica, l’intellettuale può preservare la sua funzione direttiva quale “organizzatore degli aspetti pratici della cultura” (699), ma per praticare questo alto obiettivo deve abdicare alla concezione sacerdotale e rinascimentale tradizionale e democratizzarsi

In effetti, come non manca di far notare Gramsci, l’autentico intellettuale moderno muove dai bisogni reali delle masse e ne cerca la soluzione a partire dalla situazione storica determinata, ricomprendendola nel più generale corso del mondo. Si appropria delle esigenze della massa popolare collegandole “a una superiore concezione del mondo, scientificamente e coerentemente elaborata, il «sapere»” (1505). Così, per fare un esempio emblematico, Gramsci ricorda che “De Sanctis, nell’ultima fase della sua vita e della sua attività, rivolse la sua attenzione al romanzo «naturalista» o «verista» e questa forma di romanzo, nell’Europa occidentale, fu l’espressione «intellettualistica» del movimento più generale di «andare al popolo», di un populismo di alcuni gruppi intellettuali sullo scorcio del secolo scorso, dopo il tramonto della democrazia quarantottesca e l’avvento di grandi masse operaie per lo sviluppo della grande industria urbana” (2185).

D’altra parte, non manca di far notare Gramsci, pur avendo un’influenza enorme nel proprio ambito gli intellettuali tradizionali, sviluppando una concezione del mondo troppo elitaria, esercitano un’egemonia sulle masse minore della religione confessionale, di cui abbisognano per mantenere il controllo sui subalterni. Del resto la stessa religione deve necessariamente fare i conti con la modernità e in particolare con “la diffusione dell’istruzione pubblica, che modifica incessantemente la composizione e il livello culturale delle masse popolari” (853) che la confina sempre più nei settori meno attraversati da questi fenomeni. A partire dalla Controriforma la chiesa cattolica si aliena progressivamente le masse divenendo fautrice di rovinose guerre di religione e confondendosi “con le classi dominanti in modo irrimediabile” (1963). Non controllando più le masse la chiesa cattolica perde la propria capacità di condizionare i governi. Di fronte al superamento da parte di intere masse della concezione religiosa del mondo, la chiesa si vede costretta ad “accettare il terreno impostole dagli avversari (…) e servirsi di armi prese a prestito dall’arsenale dei suoi avversari (l’organizzazione politica di massa)” (2086-2087). Così, nonostante l’egemonia che mantiene sulle componenti più subalterne della società, essa non è più protagonista del corso storico, ma è costantemente sulla difensiva e da potenza ideologica mondiale diviene forza subalterna. Comprendendo, infine, che la pura e semplice restaurazione dell’ancien régime è impossibile, impaurita dal crescente protagonismo delle masse che rende sempre più inoperante il suo controllo ideologico, la chiesa è costretta a misurarsi sul piano della modernità. Non potendo semplicemente cancellare il principio democratico cerca di assimilarlo al modo della rivoluzione passiva, creando il tipo del «radicale cattolico» cioè del «popolare»” (1646). 

Dal momento che l’ideologia liberale di rado riesce a superare gli angusti steccati di ideologia d’elite dei gruppi dirigenti, il solo partito di massa su posizioni liberali è il cattolico partito popolare [3]. Proprio per questo la filosofia della praxis ha dato prioritaria rispetto a un nuovo Rinascimento, ovvero alla formazione di una concezione del mondo per i propri intellettuali, a una novella riforma in grado di divenire senso comune in larghi stati delle masse popolari (cfr. 1293).

D’altra parte, soprattutto nel caso specifico dell’Italia, le stesse riviste e gli intellettuali che le dirigevano e vi operavano non essendosi posti quale “forza motrice e formatrice di istituzioni culturali a tipo associativo di massa” (790) sono nel mondo moderno condannate alla sterilità. Al contrario, come mostra Gramsci, il superamento dei tradizionali limiti delle ristrette cerchie intellettuali “per diffondersi nelle grandi masse sia pure adattandosi alla mentalità di queste e perdendo poco o molto» (1292) della propria autorità non è una perdita reale. In tal modo, in effetti, la concezione del mondo di cui gli intellettuali divengono portatori ha un ambito di diffusione e radicamento molto più vasto e progressivo [4]. 

Del resto, come non manca di far notare Gramsci, in realtà “le invenzioni essenziali sono quelle che determinano una diminuzione dei costi, quindi allargano i mercati di consumo, unificano sempre più vaste masse umane ecc.; da questo punto di vista quale periodo è stato più «inventivo» di quello della razionalizzazione?” (1782-783). Tanto più che, ancora come fa notare Gramsci, “quando l’arte, specialmente nelle sue forme collettive, è diretta a creare un gusto di massa, ad elevare questo gusto, non è «industriale», ma disinteressata, cioè arte” (1725). Più nello specifico Gramsci sostiene che “il concetto di razionalismo in architettura, cioè di «funzionalismo», sia molto fecondo di conseguenze di principi di politica culturale; non è casuale che esso sia nato proprio in questi tempi di «socializzazioni» (in senso vasto) e di interventi di forze centrali per organizzare le grandi masse contro i residui di individualismi e di estetiche dell’individualismo nella politica culturale” (ibidem). 

 

Note:

[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 1231. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il numero di pagina di questa edizione.

[2] Per quanto riguarda il ruolo molto importante svolto da Benedetto Croce, Gramsci sviluppa delle interessanti osservazioni sul rapporto fra intellettuali universitari e le masse studentesche: “nelle università il contatto tra insegnanti e studenti non è organizzato. Il professore insegna dalla cattedra alla massa degli ascoltatori, cioè svolge la sua lezione, e se ne va. Solo nel periodo della laurea avviene che lo studente si avvicini al professore, gli chieda un tema e consigli specifici sul metodo della ricerca scientifica. Per la massa degli studenti i corsi non sono altro che una serie di conferenze, ascoltate con maggiore o minore attenzione, tutte o solo una parte: lo studente si affida alle dispense, all’opera che il docente stesso ha scritto sull’argomento o alla bibliografia che ha indicato. Un maggiore contatto esiste tra singoli insegnanti e singoli studenti che vogliono specializzarsi su una determinata disciplina: questo contatto si forma, per lo più, casualmente ed ha una importanza enorme per la continuità accademica e per la fortuna delle varie discipline (…). In ogni modo, questa struttura generale della vita universitaria non crea, già all’università, alcuna gerarchia intellettuale permanente tra professori e massa di studenti; dopo l’università anche quei pochi legami si sciolgono e nel paese manca ogni struttura culturale che si impernii sull’università. Ciò ha costituito uno degli elementi della fortuna della diade Croce-Gentile, prima della guerra, nel costituire un gran centro di vita intellettuale nazionale; tra l’altro essi lottavano anche contro l’insufficienza della vita universitaria e la mediocrità scientifica e pedagogica (talvolta anche morale) degli insegnanti ufficiali” (12-13).

[3] D’altra parte, come non manca di rilevare Gramsci “ciò che è importante storicamente è che nel Settecento” la tradizione liberale “cominci a disgregarsi per meglio concretarsi, e a muoversi con una intima dialettica: significa che tale tradizione letterario-retorica sta diventando un fermento politico, il suscitatore e l’organizzatore del terreno ideologico in cui le forze politiche effettive riusciranno a determinare lo schieramento, sia pure tumultuario, delle più grandi masse popolari necessarie per raggiungere certi fini, riusciranno a mettere in iscacco e lo stesso Vaticano e le altre forze di reazione esistenti nella penisola accanto al Papato. Che il movimento liberale sia riuscito a suscitare la forza cattolico-liberale e a ottenere che lo stesso Pio IX si ponesse, sia pure per poco, nel terreno del liberalismo (quanto fu sufficiente per disgregare l’apparato politico-ideologico del cattolicismo e togliergli la fiducia in se stesso) fu il capolavoro politico del Risorgimento e uno dei punti più importanti di risoluzione dei vecchi nodi che avevano impedito fino allora di pensare concretamente alla possibilità di uno Stato unitario italiano” (1967).

[4] A questo proposito, come osserva acutamente Gramsci, “è anche da rilevare il successo che nelle masse popolari hanno sempre avuto alcuni drammi dello Shakespeare, ciò che appunto dimostra come si possa essere grandi artisti e nello stesso tempo «popolari»” (2123).

10/06/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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