Dal punto di vista del giovane György Lukács nessuna apertura si può ragionevolmente sperare nell’orizzonte dello Stato capitalistico, che ha piegato sotto la propria logica disumana tutti gli individui; soltanto dall’esterno, dalla comunità non investita dallo spirito dissolvente del jehoviano può venire un rinnovamento radicale dell’umanità, l’incontro di anima e anima: “Germania e Russia II. Problema: che cosa trova l’anima che ha raggiunto se stessa come sostanza? 1) India: L’identità con l’Atman: individualità che scompare 2) Germania: la propria anima – in rapporto a Dio 3) Russia: la propria anima – nella comunità delle altre anime voluta e creata da Dio.
Per cui: la tragedia della Germania: ci sono solo eroi solitari (Goethe e Lutero come compromessi). Via d’uscita: polis (da qui: analogia con la Grecia – prima con cattiva coscienza: si è per struttura luciferini, si vuole diventare greci ma non si può: nostalgia) Dovere come tentazione di superare l’eroico-luciferino sulla via per la comunità (paracletico-fraterna); ma, o va troppo bene – e si arriva al geoviano (Hegel) o è rassegnazione (Lutero); S. Frank: «Il mondo deve avere un papa» Dilthey II. 88 Mai più organici come nel luciferismo puro della polis” [1].
Tale tipologia storica dei gradi di sviluppo dello spirito ricorda da vicino la Storia universale hegeliana nel suo movimento progressivo dall’oriente all’occidente. Lo stesso schema viene ripreso da Lukács per porre in rilievo il principio di fratellanza della seconda etica, che, oltrepassando il dovere kantiano, dovrebbe colmare l’abisso tra l’uomo noumenico e l’uomo fenomenico: “Tipi di solidarietà a) Oriente: l’altro (gli altri: anche il nemico) sei tu; giacché Io e Tu sono un’illusione (Bhagavadgita II. 11-12, Deussen 39 ivi, 19-20, 504). b) Europa: fraterno astratto: via d’uscita dalla solitudine. L’altro è il mio «concittadino», il mio «compagno», il mio «compatriota». Non esclude l’odio di razza né quello di classe. c) Russia: l’altro è mio fratello, quando non trovo me stesso, nel trovare me stesso trovo lui. «Divenire un vero russo significa forse diventare fratello di tutti gli uomini» (Discorso Puskin 150)” [2].
Porsi al di là del dovere significa unificare la personalità in una comunità, dove il soggetto incontra l’altro nel medio della fratellanza, preconizzando la condizione universale dell’umanità conciliata con sé stessa. Gli “uomini nuovi”, che lottano per il “mondo nuovo”, sono i personaggi di Dostojevskij, la cui condotta morale consiste nell’assumersi la colpa per la sofferenza dell’intera umanità, fino all’estrema conseguenza del sacrificio di sé o del delitto. Negli Appunti su Dostojevskij, la tematica del suicidio viene affrontata da Lukács sulla base della distinzione tra l’ateismo occidentale e quello russo. Mentre nel primo la negazione di Dio si fonda sull’affermazione di sé, con la conseguenza che il suicidio si rivela come l’ultimo atto del convincimento egoistico della propria autosufficienza, nell’ateismo russo il suicidio è il gesto in cui si rifugia l’individuo che ha fallito nel raggiungimento dello scopo al servizio della comunità e per il quale ha messo a repentaglio la propria vita. E infatti la domanda tipica dall’ateo occidentale è: “Come si può morire senza Dio?”; quella dell’ateo dostojevskiano: “Come si può vivere senza Dio?” [3].
In Occidente l’ateo si distingue dall’uomo comune soltanto perché non credente, ma, chiuso nel suo egoismo, non è disposto a trarre le conseguenze etiche della sua incredulità, ovvero a opporsi radicalmente alle istituzioni. L’ateismo russo – l’ultimo gradino nella vicinanza a Dio – si scinde per Lukács in una duplice tipologia: la forma dell’ateo impersonata da Ivan Karamazov, per il quale il superamento della morale corrente sfocia nel principio: “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”, ma in questo caso non si esce dalla solitudine e si va incontro al fallimento; l’ateo della ribellione, rappresentato da Alioscia Karamazov [4] è, sul piano storico, incarnato dal terrorista russo della rivoluzione del 1905 Kaljaev. Quest’ultimo è il vero portatore rappresentativo della seconda etica, colui il quale con il suo gesto carica su di sé la colpa universale, sacrificando alla causa dell’umanità le sue stesse convinzioni morali. È il caso paradossale in cui l’azione, per servire un principio di giustizia superiore, è costretta a varcare i confini della morale. Un problema, questo, che ha particolarmente attratto e affascinato il Lukács di questo periodo, a causa delle implicazioni immediatamente politiche dell’atto etico, e sul quale egli ha fermato più volte la sua attenzione, citando la formulazione datane nella Giuditta di Hebbel: “E se Dio ponesse il peccato tra me e il mio atto, che cosa sono io per dovermi tirare indietro?” [5].
L’attivazione in senso politico dell’etica si sviluppa parallelamente ai grandiosi eventi storici che sconvolgono l’Europa e il mondo intero. La Rivoluzione d’ottobre, interpretata in chiave utopica- messianica, porta a maturazione questo processo e fa emergere in primo piano il problema della prassi politica: “secondo me, non si deve dimenticare che questo interesse politico era al medesimo tempo etico. «Che fare?», questo è stato sempre per me il problema principale, e questa domanda collegava la problematica etica e quella politica” [6].
Adesso che nel mondo della compiuta peccaminosità si è aperto un varco e la rivoluzione russa indica prospettive concrete di rinnovamento, la seconda etica, teoricamente fondata tramite Dostojevskij, non può sottrarsi alla prova della storia, con la quale deve invece misurarsi nell’agire concreto: l’utopia può fare il proprio ingresso nella storia: “anzitutto, etica (condotta di vita): non più divieto // tenersi lontano // da tutto ciò che la propria etica condanna come peccaminoso, ma equilibrio dinamico della prassi in cui il peccaminoso // (nel dettaglio) // può diventare talvolta componente inevitabile dell’agire giusto, talvolta il limite etico (riconosciuto come universalmente valido) può diventare ostacolo all’agire giusto” [7].
Fu con grande stupore che gli amici di Lukács e molti estimatori della sua produzione giovanile reagirono alla sua adesione al comunismo, nel dicembre del 1918. Il gesto di Lukács apparve loro come una sorta di conversione, una svolta radicale e improvvisa con un mutamento di rotta privo di motivazioni teoriche plausibili che potessero essere rintracciate nell’opera precedente. Tale giudizio, dettato dall’impressione del momento, ha inaugurato la serie delle interpretazioni sul salto compiuto da Lukács, spiegabile soltanto in termini psicologici [8].
Secondo la ricostruzione che qui si è tentata, non si può concordare con questa tesi. Nel rinnegare la propria classe di appartenenza possono senz’altro aver giocato, nell’immediato, motivi di ordine esistenziale, ma, fondamentalmente, si è trattato di una complessa mediazione di contenuti teorici, magari eterogenei, che si sono ricomposti in una determinata configurazione, non per una astratta evoluzione e per linee interne, ma dietro le sollecitazioni e le impellenze provenienti dagli eventi storici. Filo conduttore ed elemento di coagulo sono dati dall’etica, al cui problema Lukács, in quegli anni, ha principalmente rivolto la propria attenzione e dedicato le sue energie intellettuali. Attraverso l’idea russa la sua concezione dell’etica si è arricchita del motivo utopico, come carica attiva della negatività che investe il mondo storico convertendosi in prassi. Non è un caso allora che gli scritti del 1918, immediatamente precedenti l’adesione al marxismo, vertano su questioni etiche.
Agli inizi del 1918, Lukács partecipa al dibattito sull’idealismo, promosso dalla conferenza del filosofo marxista Béla Fogarasi presso la Libera Scuola di Scienze dello Spirito di Budapest. Nel suo intervento su Idealismo conservatore e idealismo progressivo, Lukács recupera il Sollen kant-fichtiano, cercando di superarne il formalismo astratto con l’orientare in senso politico il principio dell’idealismo etico che egli ritiene assolutamente valido, ovvero la considerazione dell’uomo sempre come fine e mai come mezzo, giusta la seconda formula dell’imperativo categorico di Kant [9]. Tale principio guida, attivandosi politicamente, non può che avere carattere progressivo, in quanto necessariamente si scontra con le istituzioni esistenti, che ne ostacolano la realizzazione, per sostituirle con nuove istituzioni funzionali al raggiungimento e al mantenimento del fine.
Note:
[1] G. Lukács, Il Manoscritto-Dostojevskij [1916] in “Metaphorein” 8, traduz. parziale di M. Cometa, 1982, pp. 35-36.
[2] Ivi: pp. 34-35.
[3] Si può qui constatare la distanza acquisita da Lukács rispetto alla mistica della morte, al “pantragismo” di Metafisica della tragedia. Il passaggio dal tragicismo all’utopismo, già annunciato in Teoria del romanzo, è qui pienamente attuato.
[4] Nella progettata continuazione del romanzo, Dostojevskij aveva in mente la trasformazione del credente Alioscia in terrorista rivoluzionario.
[5] La figura di Giuditta, presente nel Manoscritto Dostoevskij, ritorna in Tattica ed etica e anche in Pensiero vissuto.
[6] G. Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo [1980], traduz., prefaz., a cura di A. Scarponi, Roma, Editori Riuniti 1983, p. 66.
[7] Ivi, p. 211.
[8] È di questa natura la spiegazione avanzata da Laura Boella: “La sorpresa degli amici più intimi riflette in tal senso la portata esistenziale-personale del «gesto» di Lukács, che fu un vero e proprio salto, una brusca e totale frattura rispetto alla precedente forma di vita [...]. La sua prima adesione al marxismo è caratterizzata in effetti da un intimo conflitto tra la vocazione personale alla vita contemplativa, alla pura speculazione, e l’urgenza dell’azione imposta dalla situazione storica e dalla profonda rivolta interiore contro il presente” L. Boella, Il giovane Lukács, De Donato, Bari 1977, p. 84.
[9] Per Lukács, l’accusa di astrattezza rivolta all’etica di Kant e di Fichte “la si può confutare ammettendo che il fine e il contenuto di questa etica formale è la volontà libera, autonoma, indipendente da qualsiasi forza o potenza estranea, che segue solo le proprie leggi e persegue, mediante questa autonomia, il bene in quanto unico obiettivo non equivoco [...] mai e per nessun motivo l’uomo deve diventare un semplice strumento”; G. Lukács A konservativ és progressziv idealismus [1918], Idealismo conservatore e progressivo, in AA.VV., Storia e coscienza di classe oggi, Edizioni Aut Aut, Milano 1977, p. 109.