Segue da “Gramsci e le critiche in senso reazionario e rivoluzionario ai diritti umani”
Come denuncia Antonio Gramsci, nel momento in cui gli stessi diritti umani nella loro formulazione borghese non sono più funzionali alla salvaguardia dei rapporti di produzione esistenti, è la stessa classe dirigente a rinunciarvi per prima. Del resto, sino a che i rapporti di produzione borghesi sono funzionali allo sviluppo delle forze produttive e i diritti umani appaiono generalmente funzionali allo sviluppo del sistema è la funzione egemonica progressiva di tali diritti a prevalere, ma nel momento – osserva a ragione Gramsci – in cui gli assetti proprietari e sociali esistenti ostacolano l’ulteriore sviluppo della società emerge il limite storico del loro astratto universalismo, la loro funzione coercitiva di contro al bisogno di una più ampia e universalmente concreta formulazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Non a caso, osserva acutamente Gramsci, a livello preconscio in tutti i “tipi di società rappresentati dalle diverse utopie, s’introduce l’uguaglianza economica come base necessaria della riforma progettata” [1], eguaglianza che la difesa del diritto al sicuro godimento della propria proprietà privata, momento centrale della dichiarazione borghese dei diritti umani, tende a negare a priori. L’aspetto utopistico di tutti quei progetti di società perfette – necessariamente antitetiche alla società borghese e alla sua accezione dei diritti umani – consisteva, sottolinea Gramsci, nel ritenere possibile introdurre tale eguaglianza con un semplice decreto legge.Proprio al contrario i diritti dell’uomo, a parere di Gramsci, se non sono intesi quali concetti filosofici da rendere concreti mediante la prassi politica, si riducono a una rappresentazione ideologica e, dunque, empirica, in quanto rivolta alla soluzione circoscritta di problematiche incontrare da un gruppo sociale particolare. Al contrario, per Gramsci, una concezione realmente universale dei diritti è espressione della visione del mondo organica di una determinata classe sociale, nel suo sviluppo storico, sulla base del fine universalistico e progressivo di cui si fa più o meno consapevolmente interprete. Tale concezione è, in effetti, il prodotto della riflessione su una determinata prassi sociale e politica, è la catarsi morale e intellettuale di una prassi storica necessariamente tragica in quanto ingenera reazioni mosse da obiettivi contrapposti. D’altra parte deprivata del suo contenuto reale, determinato dalla prospettiva di classe che gli dà concretezza, anche un alto ideale come la stessa libertà resta una mera astrazione formale dell’intelletto, funzionale ai più disparati scopi. Tipico è l’uso che ne fanno i liberali, che hanno strumentalizzato la libertà per salvaguardare gli istituti politici e sociali prodotti dalla Rivoluzione francese e dal suo riflusso. Tale contenuto storico determinato è metafisicamente sussunto nell’astrazione formale della libertà, come se fosse il suo naturale ed eterno contenuto.
Del resto, come osservato sopra, al centro della formulazione borghese della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino vi sono il diritto di proprietà privata e la sua sicurezza che mirano a naturalizzare gli ingiusti e irrazionali rapporti di proprietà esistenti, anche se sono divenuti ormai un ostacolo all’ulteriore sviluppo delle forze produttive. Tale determinazione (borghese) dei diritti umani ne costituisce al contempo il punto di forza, nel senso della concretezza storica, e la debolezza, il limite di classe della sua universalità. Così, gli stessi diritti del cittadino all’eguaglianza, alla libertà divengono concreti e reali unicamente se non entrano in contraddizione con i diritti di proprietà e sicurezza borghesi. Ognuno è certamente libero ed eguale sul piano della rappresentazione politica o sul terreno fenomenico del mercato, dello scambio, ma non su quello della produzione o della proprietà. Perciò, come osservava già Marx, i diritti umani nella loro accezione borghese si arrestano ai cancelli dell’oscuro laboratorio della produzione e la profonda disuguaglianza della proprietà fa sì che le varie libertà di stampa, di parola, di organizzazione siano destinate a rimanere per la maggioranza non possidente delle possibilità astratte, dal momento che sono le classi dominanti ad avere il monopolio dei mezzi di produzione materiali e ad avere l’egemonia a livello delle sovrastrutture, controllando gli strumenti di formazione del consenso all’interno della società civile.
La classe proprietaria possiede altresì, mediante il controllo dello Stato, il monopolio della forza coercitiva che – come le consente di risolvere a proprio favore ogni possibile contrasto fra diritti costituzionali e loro interpretazione, consentendone il passaggio dall’astratta possibilità alla realizzazione solo nel momento nel quale risulta propizio ai suoi scopi particolari – le permette di risolvere in proprio favore ogni contrasto fra la formulazione testuale dei diritti e la loro storica comprensione, garantendone il trapasso dall’esigibilità formale alla concreta attuazione unicamente nei casi in cui siano funzionali a consolidare i propri interessi di classe. Così Gramsci – pur nella consapevolezza che si tratti, in ultima istanza, di strumenti mediante cui la classe dominante impone alla società le regole di condotta funzionali alla salvaguardia degli assetti sociali esistenti – per un verso denuncia il progressivo tradimento di tali alti ideali nella pratica storica dei sistemi borghesi, d’altro mostra l’impossibilità di una loro ulteriore espansione entro il modo di produzione capitalistico. Se nella lotta contro i privilegi particolari, su cui si fondavano le società feudali, l’universalità dei diritti umani ha avuto una funzione storica progressiva, in seguito è divenuta mistificatoria del dominio particolare di una classe non più corrispondente agli interessi generali e, dunque, funzionale a contrastare l’affermarsi di un’universalità superiore.
In tale prospettiva, Gramsci non considera affatto utopistica la politica dei giacobini; la sua concretezza è in effetti dimostrata dai risultati storici conseguiti che giustificano la forzatura delle condizioni oggettive. Il riconoscimento del profondo rivolgimento storico operato dai giacobini, non toglie nell’interpretazione di Gramsci che essi non abbiano mai oltrepassato il limite del loro obiettivo storico concreto: il dominio borghese. Esso è conquistato mediante la rottura violenta dello Stato dell’ancien régime e l’aver posto la borghesia quale saldo e stabile fondamento dello Stato rivoluzionario, rendendola classe nazionale dirigente, ovvero egemone. Ciò ne ha costituito al contempo la forza e la debolezza, segnando l’affermazione di lunga durata del progetto giacobino, ma anche la sua sconfitta storica per l’incapacità di superare i limiti di classe del proprio programma. La difesa dell’astratto, ovvero storicamente determinato, diritto dell’uomo alla libertà e alla proprietà privata pose i giacobini in contraddizione con l’alleato che sino ad allora ne aveva consentito l’affermazione, i sanculotti, cui fu negato – con la legge Chapelier e poi con la legge del maximum – il diritto di coalizione. Facendo venir meno il sostegno delle masse popolari parigine al progetto dei giacobini, esso non poté reggere l’urto del Termidoro. Le forze sociali che la rivoluzione permanente necessaria all’affermazione del programma giacobino, con le sue spregiudicate alleanze di classe, aveva fatto emergere sul palcoscenico della politica internazionale entravano in contraddizione con i limiti di classe del loro progetto politico. Tali forze sociali evocate potevano essere ricacciate dietro le quinte della politica solo mediante una aperta dittatura della borghesia, costretta ora ad allearsi – per mantenere il proprio dominio – con le forze della reazione (cfr. 19, 24: 2029-30). Il programma giacobino dimostra la propria razionalità realizzandosi storicamente solo nel 1870-71, quando la borghesia avendo represso nel sangue il superiore, ma ancora idealistico universalismo dei comunardi, può esercitare il proprio dominio senza dover ricorrere ai residui dell’ancien rémime, per schiacciare l’autonomia delle masse popolari che la politica della rivoluzione permanente, necessariamente, suscitava. In effetti, come osserva Gramsci, “solo nel 1870-71, col tentativo comunalistico si esauriscono storicamente tutti i germi nati nel 1789 cioè non solo la nuova classe che lotta per il potere sconfigge i rappresentanti della vecchia società che non vuole confessarsi decisamente superata, ma sconfigge anche i gruppi nuovissimi che sostengono già superata la nuova struttura sorta dal rivolgimento iniziatosi nel 1789 e dimostra così di essere vitale e in confronto al vecchio e in confronto al nuovissimo. Inoltre, col 1870-71, perde efficacia l’insieme di principii di strategia e tattica politica nati praticamente nel 1789 e sviluppati ideologicamente intorno al 48 (quelli che si riassumono nella formula della ‘rivoluzione permanente’ (..). In tutti questi modi di vedere c’è una parte di verità. Realmente le contraddizioni interne della struttura sociale francese che si sviluppano dopo il 1789 trovano una loro relativa composizione solo con la terza repubblica e la Francia ha 60 anni di vita politica dopo 80 anni di rivolgimenti a ondate sempre più lunghe: 89-94, 94-99, 99-1804, 1804-1815, 1815-1830, 1830-1848, 1840-1870” (13, 17: 1581).
Al contrario, i limiti del caso italiano, consistono nel fatto che a parere di Gramsci “tutta la vita intellettuale italiana fino al 1900 (e precisamente fino al formarsi della corrente culturale idealistica Croce-Gentile) in quanto ha tendenze democratiche, cioè in quanto vuole (anche se non ci riesce sempre) prendere contatto con le masse popolari è semplicemente un riflesso francese, dell’ondata democratica francese che ha avuto origine dalla Rivoluzione del 1789: l’artificiosità di questa vita è nel fatto che in Italia essa non aveva avuto le premesse storiche che invece erano state in Francia” (14, 37: 1693-94). Del resto, prosegue nella sua impietosa disamina Gramsci: “la borghesia italiana non seppe unificare intorno a sé il popolo e questa fu la causa delle sue sconfitte e delle interruzioni del suo sviluppo. Anche nel Risorgimento tale egoismo ristretto impedì una rivoluzione rapida e vigorosa come quella francese” (25, 5: 2289). Tanto più che “anche in Francia ci fu un tentativo di alleanza tra monarchia, nobili e alta borghesia dopo un inizio di rottura tra nobili e monarchia. In Francia però la rivoluzione ebbe la forza motrice anche nelle classi popolari che le impedirono di fermarsi ai primi stadi, ciò che mancò invece nell’Italia meridionale e successivamente in tutto il risorgimento” (19, 45: 2067). Proprio per questo esiste, fa notare Gramsci, “un’Età del Risorgimento nella storia svoltasi nella penisola italiana, non esiste nella storia dell’Europa come tale: in questa corrisponde l’Età della Rivoluzione Francese e del liberalismo” (19, 2: 1962).
Note:
[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi Torino 1977, p. 693. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.