Segue da “Leninismo vs revisionismo”
3.1) Il riformismo
Quanto più aumenta il dominio ideologico, politico e sociale del capitale finanziario, tanto più – denuncia Lenin – i suoi settori più lungimiranti adottano “la ‘nuovissima’ parola d’ordine borghese: le riforme in contrapposto all’abbattimento rivoluzionario di questo potere”, ovvero non più “il liberalismo contro il socialismo, ma il riformismo contro la rivoluzione socialista” [1]. Non a caso oggi tanto la Confindustria, quanto le frazioni di centro-destra e centro-sinistra del partito borghese si fanno propugnatrici a gran voce della necessità di riforme. Del resto, tanto più il sistema capitalistico è in crisi, tanto più la borghesia tende a dilazionare il progressivo venir meno del suo sistema di dominio mediante concessioni e riforme: “la borghesia, che infracidisce e vede l’inevitabilità della sua rovina, tende tutte le sue forze per riuscire a dilazionare a prezzo di concessioni parziali e ipocrite questa sua rovina, a conservare il potere nelle proprie mani anche nelle nuove condizioni” [2]. Perciò, il regime rappresentativo (volgarmente definito democratico) ed i diritti politici sono funzionali al mantenimento del potere sempre più ingiusto e irrazionale della borghesia, anche più dell’aperto dominio di stampo fascista, sebbene quest’ultimo sia, in fasi particolari, altrettanto indispensabile. Del resto i settori più avanzati della borghesia, davanti al risveglio del movimento operaio mondiale, comprendono “l’inevitabilità” della propria rovina e cercano in ogni modo di dilazionarla “a prezzo di concessioni parziali e ipocrite”, pur di “conservare il potere nelle proprie mani” [3].
In tal modo la borghesia confonde i lavoratori, ne scompagina le fila, ne trasforma i partiti e sindacati in un’effimera e impotente appendice della sedicente politica di riforme. Per quanto concerne la definizione del riformismo Lenin considera essenziale fare riferimento al padre del revisionismo, che è anche, dunque, il massimo teorico del riformismo: Eduard Bernstein. Scrive a suffragio di tale tesi Lenin: “la socialdemocrazia deve trasformarsi da partito di rivoluzione sociale in partito democratico di riforme sociali. Bernstein ha appoggiato questa rivendicazione politica con tutta una batteria di ‘nuovi’ argomenti e considerazioni abbastanza ben concatenati. Si nega la possibilità di dare un fondamento scientifico al socialismo e di provare che, dal punto di vista della concezione materialistica della storia, esso è necessario e inevitabile; si nega il fatto della miseria crescente, della proletarizzazione, dell’inasprimento delle contraddizioni capitalistiche; si dichiara inconsistente il concetto stesso di ‘scopo finale’ e si respinge categoricamente l’idea della dittatura del proletariato; si nega la teoria della lotta di classe, che sarebbe inapplicabile in una società rigorosamente democratica, amministrata secondo la volontà della maggioranza” [4]. La strenua lotta condotta da revisionisti e sedicenti riformisti contro la concezione rivoluzionaria si fonda sulla loro incapacità di comprendere il reale stato di sviluppo delle contraddizioni strutturali della società capitalista. Come mette in evidenza, acutamente, a tal proposito Lenin: “guerra all’idea della rivoluzione, alla ‘speranza’ nella rivoluzione (al riformista queste ‘speranze’ sembrano vaghe, poiché non capisce la profondità delle contraddizioni economiche e politiche odierne); guerra ad ogni attività che consista nell’organizzazione delle forze e nella preparazione delle menti per la rivoluzione” [5].
I riformisti tendono, inoltre, a idealizzare la piccola produzione, la quale resiste al progressivo affermarsi del capitalismo: 1) nei paesi agricoli mediante “l’illimitato peggioramento dell’alimentazione, la carestia cronica (…), il peggioramento qualitativo dell’allevamento”; 2) nelle città mediante l’aumento di ritmi e ore di lavoro attraverso la precarizzazione. Al contrario il marxista dovrebbe dimostrare al piccolo produttore che gli sarà impossibile resistere in regime capitalistico e che, dunque, “deve porsi di necessità sulle posizioni del proletariato” [6]. Tuttavia, la presenza di un’ampia gamma di ceti intermedi fra borghesia e proletariato (semiproletari, contadini, artigiani, micro-imprenditori, impiegati piccoli e medi) impone ai comunisti “di stipulare compromessi con i diversi gruppi di proletari, con i diversi partiti di operai e di piccoli padroni” [7]. Soltanto un Partito privo d’autonomia e saldezza interna, dunque sprovvisto della necessaria fiducia in sé, può temere “di stringere alleanze temporanee anche con elementi incerti. Nessun partito politico potrebbe esistere senza tali alleanze” [8]. Tale necessità tattica deve però essere subordinata all’esigenza strategica “di elevare, e non di abbassare, il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato” [9]. A tale scopo, secondo Lenin, è indispensabile preservare la necessità “di svelare alla classe operaia che i suoi interessi e quelli della borghesia sono opposti” [10] e non illudere le masse di una presunta comunanza di interesse fra ceti “produttori”. Sacrificando l’esigenza del partito operaio di differenziare la propria posizione da quella degli alleati piccolo-borghesi, il Partito smarrirebbe, denuncia Lenin, la sua ragione d’essere, trasformandosi in una sinistra “appendice del movimento liberale” [11]. Dunque, la fiducia in sé del movimento operaio apre alla possibilità di alleanze tattiche necessarie dal punto di vista politico. Deve rimanere, però, sempre aperta la possibilità di criticare gli alleati altrimenti, come vuole il riformismo, il movimento dei lavoratori diverrebbe una mera appendice dei partiti borghesi. Per dirla con Lenin, che su tale questione è nettissimo, soltanto chi non ha fiducia in se stesso può aver paura di stringere alleanze. “Ma condizione necessaria di tale alleanza è per i socialisti la piena possibilità di svelare alla classe operaia che i suoi interessi e quelli della borghesia sono opposti, ostili. Il bernsteinismo, invece, e la tendenza ‘critica’ a cui si è contagiosamente convertita la maggioranza dei marxisti legali eliminavano questa possibilità e pervertivano la coscienza socialista, svilendo il marxismo, predicando la teoria dell’attenuazione degli antagonismi sociali (…). Ciò equivaleva, da parte della democrazia borghese, a negare il diritto all’indipendenza del socialismo, e, quindi, il suo diritto all’esistenza; ciò significava, in pratica, sforzarsi di trasformare il movimento operaio ai suoi albori, in un’appendice del movimento liberale” [12]. D’altra parte, senza la lotta da parte delle avanguardie per l’egemonia della concezione del mondo marxista contro ogni forma di revisionismo, i lavoratori non prenderanno coscienza della loro reale situazione di oppressione, o al più saranno schiavi in lotta per migliorare la propria condizione, “ma non per abbattere la schiavitù” [13].
Tanto più che gli stessi riformisti si presentano, per meglio intorbidire le acque, come socialisti, ma sono in realtà social-liberali, ovvero socialisti a parole, ma liberali nei fatti. Osserva a tal proposito Lenin: “le idee liberali dei liquidatori sono ben congegnate e coerenti: contro l’organizzazione clandestina, contro le ‘balene’, per il partito legale, contro la ‘passione scioperaiola’, contro le forme superiori di lotta, ecc.” [14]. Per quanto concerne il termine “liquidatori”, la loro posizione è così descritta da Lenin: “quando parliamo del liquidatorismo, ci riferiamo a una corrente ideologica determinata, che si è formata nel corso di parecchi anni, che, nella storia ventennale del marxismo, ha messo le sue radici nel ‘menscevismo’ e nell’‘economicismo’ e che si è legata alla politica e all’ideologia di una classe determinata, la borghesia liberale” [15]. Perciò, a parere di Lenin, bisogna condurre costantemente una lotta contro il riformismo in quanto è un micidiale strumento di corruzione nelle mani del nemico di classe. In effetti, osserva a questo proposito Lenin: “il riformismo è l’inganno borghese degli operai che, nonostante i parziali miglioramenti, restano sempre schiavi salariati finché esiste il dominio del capitale. La borghesia liberale, porgendo con una mano le riforme, con l’altra mano le ritira sempre, le riduce a nulla, se ne serve per asservire gli operai, per dividerli in gruppi isolati, per perpetuare la schiavitù salariata dei lavoratori. Il riformismo, perfino quando è del tutto sincero, si trasforma quindi di fatto in uno strumento di corruzione borghese e di indebolimento degli operai” [16]. Inoltre, come fa notare acutamente Lenin, i revisionisti sedicenti riformisti considerano la democrazia, in quanto tale, il superamento del dominio di classe, per cui non possono che aspirare a entrare comunque nel governo, anche di un paese imperialista, e a spingere per la collaborazione di classe. Come non manca di sottolineare Lenin: “infatti, se la socialdemocrazia non è che il partito delle riforme – e deve avere il coraggio di riconoscerlo francamente – un socialista non soltanto ha il diritto di entrare in un ministero borghese, ma deve sempre sforzarsi di entrarvi. Se democrazia significa essenzialmente soppressione del dominio di classe, perché un ministro socialista non dovrebbe affascinare tutto il mondo con discorsi sulla collaborazione di classe?” [17]. Così gli attuali epigoni di Millerand, contro il quale ha strenuamente polemizzato Lenin per essere entrato a far parte di un governo borghese, sono sempre disponibili ad accettare un posto da ministri in un gabinetto di uno Stato imperialista, sempre in nome delle riforme. Ma, si domanda retoricamente Lenin, cosa si può realmente guadagnare abiurando il marxismo rivoluzionario e seguendo il revisionismo che aspira a governare paesi a capitalismo avanzato: “in compenso di questo abisso di ignominia e di autodenigrazione del socialismo davanti al mondo, di questo pervertimento della coscienza socialista delle masse operaie – unica base che possa garantirci la vittoria – ci si presentano a suon di tromba progetti di riforme miserabili, così miserabili che si è potuto ottenere di più dai governi borghesi!” [18]. In effetti, come dimostra la storia, le riforme più significative sono state realizzate non da governi socialdemocratici, ma da governi borghesi messi alle strette dai conflitti sociali, diretti consapevolmente da un partito comunista con una prospettiva rivoluzionaria.
Continua sul numero 270 on-line dal 15 febbraio.
Note:
[1] V. I. Lenin, Il riformismo nella socialdemocrazia russa [settembre 1911], in Id., Contro l’opportunismo di destra e di sinistra e contro il trotskismo, Edizioni progress, Mosca 1978, p. 146.
[2] Ivi, p. 147.
[3] Ibidem.
[4] Id., Che fare? [febbraio 1902], in op. cit., p. 6.
[5] Id., Il riformismo nella socialdemocrazia russa, in op. cit., p. 158.
[6] Id., Marxismo e revisionismo [aprile 1908], in op. cit., p. 93.
[7] Id., L’estremismo malattia infantile del comunismo [aprile-maggio 1920], in op. cit., p. 461.
[8] Id., Che fare?, in op. cit., p. 16.
[9] Id., L’estremismo malattia infantile del comunismo, in op. cit., p. 461.
[10] Id., Che fare?, in op. cit., p. 16.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] Id., Il riformismo nella socialdemocrazia russa, in op. cit., pp. 149-50.
[14] Id., Sull’avventurismo [9 giugno 1914], in op. cit., pp. 231-32.
[15] Id., Come si viola l’unità gridando che si cerca l’unità [maggio 1914], in op. cit., p. 228.
[16] Id., Marxismo e riformismo [Settembre 1913], in op. cit., p. 174.
[17] Id., Che fare?, in op. cit., p. 7.
[18] Ivi, pp. 7-8.