A parere di Antonio Gramsci, la decisiva “volontà collettiva nazionale-popolare, contro cui – non a caso – si battono sino al 1815 le classi dominanti” può sorgere unicamente nel momento in cui le grandi masse – allora composte principalmente da agricoltori – “irrompono simultaneamente nella vita politica” [1]. Tale irruzione ha un effetto dirompente tanto che proprio tra il 1789 e il 1848, anno della primavera dei popoli, “sorge e si sviluppa il fatto e il concetto di nazione e di patria che diventa l’elemento ordinatore – intellettualmente e moralmente – delle grandi masse popolari in concorrenza vittoriosa con la Chiesa e la religione cattolica” (20, 1: 2081) [2].
Al punto che Gramsci ritiene, per esempio, che “l’assenza della fase storica europea (…) segnata dalla Rivoluzione francese” abbia “lasciato le masse popolari americane allo stato grezzo” (22, 2: 2146-147) tanto che la lotta di classe ricalca ancora quella “svoltasi in Europa nel secolo XVIII (…): il sindacato operaio americano è più l’espressione corporativa della proprietà dei mestieri qualificati che altro e perciò lo stroncamento che ne domandano gli industriali ha un aspetto «progressivo»” (ivi: 2146). Allo stesso modo “tutta la vita intellettuale italiana fino al 1900 (…) in quanto ha tendenze democratiche, cioè in quanto vuole (…) prendere contatto con le masse popolari è semplicemente un riflesso francese, dell’ondata democratica francese che ha avuto origine dalla Rivoluzione del 1789” (14, 37: 1693-694): “l’artificiosità di questa vita – osserva Gramsci – è nel fatto che in Italia essa non aveva avuto le premesse storiche che invece erano state in Francia” (ivi: 1694). Tanto che le forze conservatrici italiane accusano lo stesso sistema parlamentare di essere un che di alogeno, di importato dalla Francia. Tale “vuota recriminazione senza costrutto”, non fa che nascondere, come denuncia Gramsci, “il panico per un anche piccolo intervento delle masse popolari nella vita dello Stato” (19, 5: 1977).
Anzi, la “«classe politica» conservatrice-moderata” si caratterizza da allora proprio per la sua “avversione a ogni intervento delle masse popolari nella vita statale, a ogni riforma organica che sostituisse un’«egemonia» al crudo «dominio» dittatoriale” (8, 36: 962). L’intera storiografia reazionaria e conservatrice sino a Benedetto Croce è caratterizzata per Gramsci da un vero e proprio “timor panico dei movimenti giacobini, di ogni intervento attivo delle grandi masse popolari come fattore di progresso storico” (10, 6, 1220) [3]. D’altra parte, da quel momento, le classi dominanti debbono tener conto del protagonismo delle masse: anche in fasi di Restaurazione, esercizio della forza e consenso debbono trovare un consono equilibrio “senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi cercando di ottenere che la forza appaia appoggiata sul consenso della maggioranza, espresso dai così detti organi dell’opinione pubblica – giornali e associazioni” (13, 37: 1637). In altri termini, il governo della classe dominante non potrà più reggersi sulla sola coercizione, ma dovrà ricorrere all’egemonia, ovvero a un “governo col consenso permanentemente organizzato (ma l’organizzazione del consenso è lasciata all’iniziativa privata, è quindi di carattere morale o etico, perché consenso «volontariamente» dato in un modo o nell’altro)” (ivi: 1636).
Il ruolo sempre più attivo delle masse fa sì che la stessa forza militare, componente decisiva del precedente potere, sia sempre più sottoposta al dominio della politica e della capacità egemonica: “si può affermare che quanto più un esercito è numeroso, in senso assoluto, come massa reclutata, o in senso relativo, come proporzioni di uomini reclutati sulla popolazione totale, tanto più aumenta l’importanza della direzione politica su quella meramente tecnico-militare (…). La quistione diventa ancora più complessa e difficile nelle guerre di posizione, fatte da masse enormi che solo con grandi riserve di forze morali possono resistere al grande logorio muscolare, nervoso, psichico: solo un’abilissima direzione politica, che sappia tener conto delle aspirazioni e dei sentimenti più profondi delle masse umane, ne impedisce la disgregazione e lo sfacelo. La direzione militare deve essere sempre subordinata alla direzione politica, ossia il piano strategico deve essere l’espressione militare di una determinata politica generale” (19, 28: 2050-052) [4].
Del resto, la dimensione sempre più di massa trasforma in profondità la stessa vita politica non più dominio privato delle classi dominanti, ma attività pubblica. Perciò, come osserva acutamente Gramsci, “in politica si potrà parlare di riservatezza, non di menzogna nel senso meschino che molti pensano: nella politica di massa dire la verità è una necessità politica, precisamente” (6, 19: 699-700). Più in generale, crescente importanza assumono gli istituti destinati a formare l’opinione pubblica, che garantisce l’adesione “spontanea e libera” (6, 84: 757) degli individui alle norme necessarie alla salvaguardia dell’insieme sociale “che il diritto impone in forma coattiva” (ibidem). In tal modo, diviene determinante la funzione etica dello Stato che mira a “elevare la grande massa della popolazione a un determinato livello culturale e morale, livello (o tipo) che corrisponde alle necessità di sviluppo delle forze produttive e quindi agli interessi delle classi dominanti” (8, 179: 1049). Questo è il fondamento della democrazia moderna (borghese). Scopo dello Stato è di “adeguare la «civiltà» e la moralità delle più vaste masse popolari alle necessità del continuo sviluppo dell’apparato economico di produzione” (13, 7: 1566) e, dunque, formare una tipologia umana corrispondente. Tale fine sarà raggiungibile quanto più la necessaria costrizione si trasformerà nel singolo in libera adesione all’uomo sociale collettivo. I poteri legislativi ed esecutivi dello Stato saranno tanto più efficaci, quanto più sarà stato approntato il “consenso «spontaneo» delle masse che devono «vivere» quelle direttive” adeguando a esse “le proprie abitudini, la propria volontà, le proprie convinzioni” (14, 13: 1669) [5].
Note:
[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 1560. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Ben più complessa e arretrata è la situazione italiana nella quale, ancora al tempo di Gramsci, non si era affermata una lingua nazionale-popolare. Come osserva acutamente Gramsci, a partire da un caso particolare, “è da vedere, nel teatro di Pirandello, perché certe commedie sono scritte in italiano e altre in dialetto: nel Pirandello l’esame è ancor più interessante, poiché Pirandello ha, in un altro momento, acquistato una fisionomia culturale cosmopolitica, cioè è diventato italiano e nazionale in quanto si è completamente sprovincializzato ed europeizzato. La lingua non ha ancora acquistato una «storicità» di massa, non è ancora diventata un fatto nazionale. Liolà di Pirandello, in italiano letterario vale ben poco, sebbene Il fu Mattia Pascal, da cui è tratta, possa ancora leggersi con piacere. Nel testo italiano l’autore non riesce a mettersi all’unisono col pubblico, non ha la prospettiva della storicità della lingua quando i personaggi vogliono essere concretamente italiani dinanzi a un pubblico italiano. In realtà in Italia esistono molte lingue «popolari» e sono i dialetti regionali che vengono solitamente parlati nella conversazione intima, in cui si esprimono i sentimenti e gli affetti più comuni e diffusi; la lingua letteraria è ancora, per molta parte, una lingua cosmopolita, una specie di «esperanto», cioè limitata all’espressione di sentimenti e nozioni parziali ecc.” (23, 39: 2235).
[3] Tale timore panico ha influenzato negativamente, in profondità, lo stesso Risorgimento italiano. Come ha osservato a tal proposito Gramsci: “posto il principio che «l’Italia fa da sé» bisognava o accettare subito la Confederazione con gli altri Stati italiani o proporsi l’unità politica territoriale su una tale base radicalmente popolare che le masse fossero state indotte a insorgere contro gli altri governi, e avessero costituito eserciti volontari che fossero accorsi accanto ai piemontesi. Ma appunto qui stava la quistione: le tendenze di destra piemontesi o non volevano ausiliari, pensando di poter vincere gli austriaci con le sole forze regolari piemontesi (e non si capisce come potessero avere una tale presunzione) o avrebbero voluto essere aiutati a titolo gratuito (e anche qui non si capisce come politici serii potessero pretendere un tale assurdo): nella realtà non si può pretendere entusiasmo, spirito di sacrifizio, ecc. senza una contropartita neppure dai propri sudditi di uno Stato; tanto meno si può pretenderla da cittadini estranei allo Stato su un programma generico e astratto e per una fiducia cieca in un governo lontano. Questo è stato il dramma del 48-49, ma non è certo giusto deprezzare per ciò il popolo italiano; la responsabilità del disastro è da attribuire sia ai moderati, sia al Partito d’Azione, cioè, in ultima analisi, alla immaturità e alla scarsissima efficienza delle classi dirigenti” (19, 28: 2052-53).
[4] Come mette, inoltre, in evidenza Gramsci: “la direzione militare era una quistione più vasta della direzione dell’esercito e della determinazione del piano strategico che l’esercito doveva eseguire; essa comprendeva in più la mobilitazione politico-insurrezionale di forze popolari che fossero insorte alle spalle del nemico e ne avessero intralciato i movimenti e i servizi logistici, la creazione di masse ausiliarie e di riserva da cui trarre nuovi reggimenti e che dessero all’esercito «tecnico» l’atmosfera di entusiasmo e di ardore” (19, 28: 2050).
[5] Tali riflessioni trovano una geniale applicazione nei Quaderni del carcere nell’interpretazione da dare al fordismo. “Poste queste ragioni, si presenta il problema: se il tipo di industria e di organizzazione del lavoro e della produzione proprio del Ford sia «razionale», possa e debba cioè generalizzarsi o se invece si tratti di un fenomeno morboso da combattere con la forza sindacale e con la legislazione. Se cioè sia possibile, con la pressione materiale e morale della società e dello Stato, condurre gli operai come massa a subire tutto il processo di trasformazione psicofisica per ottenere che il tipo medio dell’operaio Ford diventi il tipo medio dell’operaio moderno o se ciò sia impossibile perché porterebbe alla degenerazione fisica e al deterioramento della razza, distruggendo ogni forza di lavoro. Pare di poter rispondere che il metodo Ford è «razionale», cioè deve generalizzarsi, ma che perciò sia necessario un processo lungo, in cui avvenga un mutamento delle condizioni sociali e un mutamento dei costumi e delle abitudini individuali, ciò che non può avvenire con la sola «coercizione», ma solo con un contemperamento della coazione (autodisciplina) e della persuasione, sotto forma anche di alti salari, cioè di possibilità di miglior tenore di vita, o forse, più esattamente, di possibilità di realizzare il tenore di vita adeguato ai nuovi modi di produzione e di lavoro, che domandano un particolare dispendio di energie muscolari e nervose” (22, 13: 2173-174).