Nella prima parte di questo contributo abbiamo ripercorso il bilancio del Biennio Rosso elaborato da Gramsci, sottolineando il carattere rivoluzionario del suo pensiero. Bisogna ora confrontarsi con la sua incarcerazione, l’evento spartiacque della sua vita che lo condurrà alla morte. La figura di Gramsci è notoriamente associata ai Quaderni del Carcere, ovvero alla sterminata quantità di note che ha prodotto durante la prigionia fascista dal 1926 al 1937. L’interesse accademico per il suo pensiero ha soprattutto a che vedere con i concetti che ha elaborato durante il carcere ed è proprio intorno a questi che si è arrivati a forzare la teoria del dirigente comunista all’interno di una concezione democatico-liberale.
Riuscire ad affrontare un’ampia trattazione di tutte le categorie sviluppate nelle note del carcere è impossibile per ragioni di brevità, ma a tal proposito sono esemplari due delle formulazioni più celebri: quella di “egemonia” e quella degli “intellettuali”. Questa coppia di nozioni, per la loro “natura culturale”, si sono prestate a una riduzione squisitamente teoretica, spogliandole della loro accezione di lotta di classe. Nonostante l’egemonia non sia un lemma di invenzione gramsciana, esso è oggetto di un’elaborazione originale all’interno dei Quaderni [1]. E’ un termine polisemico, declinato da Gramsci in molti ambiti per restituire una complessità di fenomeni connessi tra loro dall’esigenza della classe dominante di ottenere il consenso da parte dei dominati. La necessità di un’adesione dei subordinati agli interessi del potere acquista particolare valore nella modernità, interpretata da Gramsci come l’epoca dell’irruzione delle masse sulla scena politica [2], a partire dalla conquista dell’istituzione degli organismi parlamentari e l’estensione della rappresentanza elettorale. E’ proprio la trasformazione in senso liberale del potere politico a imporre l’esigenza di un apparato egemonico, in grado di garantire alle borghesie una «direzione intellettuale e morale» delle masse [Q 2010], capace di trasmettere i valori del sistema dominante alla classe lavoratrice, per formare e omologare i popoli e indurli all’accettazione ideologica dell’ordinamento capitalistico. Secondo le note carcerarie: “Il criterio metodologico su cui occorre fondare il proprio esame è questo: che la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come «dominio» e come «direzione intellettuale e morale». Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a «liquidare» o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche «dirigente” [Q 2010]
Emerge in modo chiaro come la direzione politica sia connessa strutturalmente al dominio. Seppure i Quaderni ci consegnino una teoria complessa del potere, che si mostra eccedente rispetto alla sola brutalità della coercizione, non bisogna dimenticare la sua natura di soggiogamento. Ciò comporta che contro la classe dominante non si può condurre solo una battaglia teorica, intesa come conquista delle masse popolari alle idee di trasformazione sociale, perché il capitale è prima di tutto rapporto di forza. Da allievo della lezione marxista e leninista, difatti, Gramsci sa bene che lo Stato, comitato d’affari della borghesia [3], non è riducibile alla gabbia egemonica della borghesia, ma costituisce anche un apparato militare, che ha la funzione di «liquidare o sottomettere» con la coercizione. [Q 800] – [Q2010 – 11]. Il comando e l’esercizio della violenza in difesa del dominio costituiscono la cosiddetta «società politica» [Q 2288], che insieme alla società civile, ossia la «trama privata dello Stato» composta dalle associazioni e dai partiti, va a formare lo «Stato integrale»[Q 811]. Quello che va messo in luce, dunque, è che per Gramsci la lotta politica non si può ridurre a quella per l’egemonia, cioè circoscritta a una battaglia di idee del tutto compatibile con il liberalismo astratto della democrazia parlamentare, come è stato teorizzato successivamente dal PCI. Ad esempio nello scritto “Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo” pubblicato dall’Unità in occasione del cinquantesimo anniversario della sua morte, Aldo Tortorella, deputato e intellettuale del PCI, affermava che “il concetto gramsciano di egemonia si contrappone, nei Quaderni del Carcere, all’idea di dominio”, che sarebbe invece legata a "una fase rozza e primitiva”, solo nella quale “si può pensare ad una nuova formazione economica sociale come dominio di una parte sull’altra della società”. In questo senso “l’idea di egemonia in Lenin, non va dunque intesa come affermazione di un dominio, ma di una superiore capacità di interpretazione della storia” e si stacca “da ogni concezione tirannica dell’espressione dittatura del proletariato”[4]. Una simile interpretazione, tuttavia, astrae dall’inevitabile conflitto tra una componente sociale e l’altra, isolando la categoria di egemonia dalla materialità dello scontro di classe. I Quaderni del Carcere sottolineano proprio il rapporto ancellare tra la direzione intellettuale e la violenza del dominio borghese, così come viene ricordato anche da parte della recente bibliografia in ambito accademico [5].
Connesso a tale analisi vi è il ruolo degli intellettuali, che sono definiti da Gramsci i "funzionari dell’egemonia” [Q 1518]. Essi sono preposti alla costruzione del “consenso spontaneo” [Q 1519] del popolo attraverso la produzione di un’ideologia, per garantire la subordinazione delle masse alla gestione politica della borghesia. Va precisato come essi non costituiscano “un gruppo sociale autonomo e indipendente”, [Q 1313] ma formino un ceto organico a una classe piuttosto che un’altra. Da parte del fronte del proletariato la funzione dell’intellettuale è quella dell’elaborazione teorica, un’attività maieutica che porti i subordinati ad acquistare coscienza di sé, dal passare a essere massa informe [Q 1388] a divenire classe, soggetto organico. Tale azione teorica si configura come un lavoro di analisi profonda, costante e collettiva, che per tali caratteristiche può essere svolta solo da un’avanguardia politica, il “moderno-Principe” [Q 951]
“E’ certo che il Partito comunista non può essere solo un partito di operai. La classe operaia e il suo partito non possono fare a meno degli intellettuali né possono ignorare il problema di raccogliere intorno a sé e guidare tutti gli elementi che per una via o per un’altra sono spinti alla rivolta contro il capitalismo”[6]
Una simile impostazione politica della funzione degli intellettuali fa sì che il loro lavoro non costituisca qualcosa di astratto, legato a un piano meramente ideale, ma il loro compito, che è quello di tutto il partito, sta nel “lavorare tra le masse, essere continuamente presenti tra di esse”, per formare una nuova “volontà collettiva nazionale-popolare” [Q 1559] e dispiegare infine una “riforma intellettuale e morale” destinata a “sconvolgere tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali” [Q 1561] dominanti. Il termine usato nei Quaderni di una “riforma” delle coscienze potrebbe apparire uno spostamento della prospettiva rivoluzionaria all’interno di un processo di modifica progressiva della società, da attuare mediante un mero lavoro di penetrazione culturale, tuttavia Gramsci precisa come “una riforma intellettuale e morale non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”. Per Gramsci un simile processo investirà “tutta la società fin dalle sue più profonde radici” (Q 515), utilizzando un linguaggio atto ad aggirare la censura per indicare il rovesciamento dei rapporti sociali di classe.
A sgomberare il campo da qualsiasi equivoco ci viene incontro anche la ricostruzione delle riflessioni carcerarie gramsciane di Paolo Spriano, una fonte non sospetta in quanto del tutto interna alla parabola del PCI. L’autore della monumentale “Storia del Partito comunista italiano" riporta del celebre “cazzotto nell’occhio” di Gramsci [7]. L’espressione colorita è usata da Athos Lisa, militante comunista e compagno di prigionia di Gramsci nel penitenziario di Turi, e si riferisce alla convinzione dell’esigenza di una fase intermedia democratica tra il regime fascista e il socialismo. Una tale idea era incompatibile con la formulazione del VI congresso dell’Internazionale Comunista e della formulazione del “socialfascismo”, che poneva una rigida equazione politica tra la socialdemocrazia e il totalitarismo fascista in quanto entrambe espressioni del dominio borghese. Nonostante questa visione sarà poi modificata nel VII Congresso con la strategia dei “Fronti Popolari”, in quel momento le posizioni gramsciane riferite dai suoi compagni di prigionia appaiono come un “pugno in un occhio” a una linea di sostanziale equiparazione tra la fascistizzazione della società e i governi socialdemocratici. Quella di una costituente, tuttavia, viene pensata da Gramsci solo come un momento intermedio finalizzato all’abbattimento dello stato capitalista e non come la prospettiva di una transizione democratica al socialismo. Il rapporto di Athos Lisa è molto chiaro su questo:
“Perciò - dice Gramsci - a questo obiettivo deve improntarsi tutta la tattica del partito senza timore di apparire poco rivoluzionario. Deve fare sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola d’ordine della «Costituente» non come fine a sé ma come mero mezzo. La «Costituente» rappresenta la forma d’organizzazione nel seno della quale possono essere poste le rivendicazioni più sentite della classe operaia lavoratrice, nel seno della quale può e deve svolgersi, a mezzo dei propri rappresentanti, l’azione del partito che deve essere intesa a svalutare tutti i programmi di riforma pacifica dimostrando alla classe lavoratrice italiana come la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione proletaria” [8].
Come sottolineato dallo stesso Spriano l’idea gramsciana di un intermezzo istituzionale dopo il fascismo attraverso una costituente rimane agganciata all’esigenza di “non annullare la fisionomia autonoma del partito” e di mantenersi aderente al “disegno leninista della conquista del potere” e all’ “approdo della dittatura proletaria”[9], riportando come per il dirigente italiano fosse indispensabile "la creazione di un’organizzazione di tipo militare” [10] contro a ogni velleità di costruire il socialismo attraverso una lunga marcia nelle istituzioni borghesi. Medesime considerazioni si ritrovano anche nella ricostruzione storiografica di Guido Liguori, che riconosce sostanziali differenze politiche tra Gramsci e Togliatti. Pur difendendo sul piano storico le ragioni del “partito nuovo”, Liguori ammette come:
“i caratteri della politica che Togliatti potè dispiegare a partire da Salerno, in una situazione per tanti aspetti nuova, si distanziano da Gramsci almeno su due punti: il partito di massa, diverso dal gramsciano partito di quadri, ancora leninista e terzinternazionalista; e, soprattutto, l’accettazione piena del pluralismo e della democrazia politica” [11]. Possiamo concludere, quindi, come l’elaborazione carceraria di Gramsci abbia articolato l’analisi della struttura del potere borghese negli stati a capitalismo avanzato, però senza mai perdere l’obiettivo dell’instaurazione della dittatura del proletariato. Nella prossima e conclusiva parte di questa relazione affronteremo proprio come il PCI e la linea togliattiana abbiano snaturato la matrice rivoluzionaria del pensiero gramsciano.
Note:
[1] vd. G. COSPITO, “Quistione egemonica”, guerra di posizione, riforma intellettuale e morale, stato integrale, in Crisi e critica della modernità nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, (a cura di) Lorena Pasquini e Pietro Zanelli, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2019, pg 29
[2] A. GRAMSCI, Quaderni del Carcere, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2014, pg. 1636-1637. D’ora in poi le note ai Quaderni saranno inserite dentro al testo in parentesi quadre.
[3] c.f.r K. MARX - F. ENGELS, Il Manifesto del Partito Comunista,, Roma, Red Star Press, 2014, p. 32.
Nella ricostruzione dei due rivoluzionari il “potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese”, così come per Lenin “lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi. Lo Stato appare là, nel momento e in quanto, dove, quando e nella misura in cui gli antagonismi di classe non possono essere oggettivamente conciliati” in LENIN, Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione, Milano, Edizioni Lotta Comunista, 2012, p. 26
[4] A. TORTORELLA, Egemonia, in Carlo Ricchini, Eugenio Manca, Luisa Melograni (a cura di) Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo, Roma, Editrice l’Unità, 1987, pg. 92-93.
[5] cfr. A. BURGIO, Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno, Roma, DeriveApprodi, 2007, pg. 121. All’interno del capitolo “Ubiquità e potenza dell’egemonia” Burgio precisa come le funzioni egemoniche siano proprio dello Stato, che mantiene insieme a esse il carattere di “gendarme” attraverso l’uso della “forza” e della “violenza”. In tal senso dominio e direzione costituiscono un binomio inscindibile. Ciò vale anche dal lato del proletariato e del suo partito sul fronte dello scontro di classe: “egemonia come direzione di un insieme di forze («classi alleate») in funzione della conquista del potere politico”, “funzione direttiva (…) nel quadro della lotta politica” per “la conquista del «potere governativo, ma anche della sua conservazione” Ripreso da Gramsci. Il sistema in movimento, Roma, DeriveApprodi, 2014, pp. 213-214
[6] A. GRAMSCI, Le tesi di Lione, in Scritti Rivoluzionari, a cura di Orlando Micucci, Camerano (AN), Gwynplaine edizioni, 2008, p. 322
[7] P. SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1969, p. 282
[8] Ivi, p. 284
[9] Ibid
[10] Ivi, p. 283
[11] G. LIGUORI, Gramsci conteso. Storia di un dibattito 1922-1996, Roma, Editori Riuniti, 1996, p.29
Antonio Gramsci, un rivoluzionario (parte 2 - “Egemonia” e “intellettuali”: categorie della rivoluzione dei Quaderni del Carcere)
La seconda parte di un contributo finalizzato a difendere il profilo rivoluzionario di Antonio Gramsci. In questa seconda sezione ci occuperemo delle categorie di “egemonia” e “intellettuali”, dimostrando come anche i Quaderni del Carcere si mantengono in una prospettiva leninista di lotta di classe.
- di Alessandro Scattolo
- 08/03/2024
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08/03/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.